Sabotage

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view post Posted on 26/10/2018, 20:48
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Nieve Rigos
16 Anni
Mese di Luglio, ultimo giorno di scuola, III anno (x1).
Segue: Punto. A capo. Trattino.
Avvertenze: linguaggio a tinte colorite.



C o r t o c i r c u i t o



Here it comes
The unavoidable sun
Of what’s just happened
And what’s been done
And you know


L’aria è elettrica nell’ufficio della professoressa Morgenstern. La torre di divinazione, che di solito è esposta alla carica delle folgori temporalesche, stavolta fa da nido. In un cubicolo arredato con sfarzo, i poli della devozione e dell’odio entrano in contatto per la prima volta — a ogni tocco, spruzzi di scintille in ogni dove.
Un rumore fastidioso, come se qualcuno stesse accartocciando un foglio d’alluminio delle dimensioni di un pianeta, fa da sottofondo all’impennata di tensione dentro il corpo di Nieve. Il calore, che è dolore, consuma le sue resistenze. È una sfera al plasma le cui emozioni si diramano dal centro in una moltitudine di estroflessioni brillanti.

«Mi hai tradita.» I suoi occhi sono vacui quando trovano quelli di Astaroth, che la sta fissando. È in piedi vicino alla porta, bellissima come sempre, in attesa. «Mi hai venduta,» aggiunge e una scarica fa vibrare la sua voce di un’emozione caina, insidiosa. «Mi hai venduta a quel coglione come se fossi una puttana, la tua.» Batte le palpebre lentamente, incredula. «Davanti a chi dei due devo genuflettermi d’ora in poi?!»

Attraverso il filtro color rubino che riveste il suo sguardo, Nieve coglie lo stordimento di Astaroth e l’ipotesi che voglia prendersi gioco di lei — ancora? sul serio? — nutre la sua momentanea follia. La metamorfomagia le fa pulsare indistintamente, diffusamente la pelle. La domanda che raggiunge le sue orecchie le strappa una risata fredda al limite dell’inumano.

Mentre avanza nell’ufficio, decide di accontentarla. «Gli hai detto di Elijah, del bacio. Proprio a lui.» Torna con la mente al giorno in cui le ha raccontato l’episodio del campo di quidditch, presso la botola in cima al soffitto, dove si tengono le lezioni di divinazione. «Cosa cazzo sono per te? Una barzelletta? Un aneddoto ridicolo per riempire il vuoto tra una botta e l’altra?» Ha alzato il tono di voce e stretto la pelle di una poltrona forte tra le dita in un impeto febbrile. Quando si volta a guardare Astaroth, che ha compiuto qualche cauto passo per poterla seguire, le lacrime che brillano negli occhi di Nieve hanno un sapore spettrale. «Quale maledetto diritto pensi di avere su di me?» urla e la cera del suo viso comincia a sciogliersi. C’è deformità sui suoi lineamenti plasmati dalla ferocia di un pensiero che scivola, insopportabile, sulle pareti di una mente intonacata d'alcol: “quale maledetto potere ti ho concesso di avere su di me?”. Nieve scaraventa la sfera di cristallo contro un pezzo di mobilio. Un tonfo sordo, uno scricchiolio, una crepa sul globo. «Chi cazzo ti credi di essere?»

Il dubbio perde la veste di beneficio anche di fronte all’eco di un quesito legittimo.
dY4zdhx«LO SAI COS’HAI FATTO. Non prendermi in giro!» L’isteria bandisce la ragionevolezza. Il treno di Nieve sferraglia, ma mancano i binari. «Cos’altro gli hai detto, mh? Gli hai detto anche che mi piace il suo amico? Che sono una stupida che si è presa una cotta per uno che è diventato il suo professore? Avete riso anche di quello?» La voce di Nieve si incrina e, per un attimo, è di nuovo nient’altro che una bambina in un corpo troppo cresciuto. Ha il mento che trema impercettibilmente e la smorfia sulla bocca tradisce la fragilità dell’equilibrio su cui si regge il castello di tarocchi che è il suo mondo. Astaroth comincia a comprendere e muove un passo verso di lei. «NON AVVICINARTI!» Nieve indietreggia e si scaglia contro il mappamondo che contiene i liquori — si riversano come sangue sul parquet lucido. «Sei una bugiarda! Sei una traditrice! IO TI ODIO!»

La luce dei capelli di Nieve, attraversando la metamorfomagia, si scompone. Il rosso e il verde petrolio si alternano sulla sua chioma, mentre si copre il viso con le mani e cede alla desolazione. Se c’è qualcosa che detesta più del fatto di odiare Astaroth, è il non poter fare a meno di amarla oltre ogni intenzione.

Torna a esporsi allo sguardo dell'altra. «Vorrei crederti,» risponde, parlando a stento tra i singhiozzi. «Ma la cintura, Roth… Sapeva anche della cintura…»

Il tuffo sincronico di due lacrime fa in modo che il sentiero bagnato sulle sue guance non si asciughi. Le mani di Nieve cercano la bacchetta. La rivolge contro Astaroth. La verità è che prevale il desiderio di colpirsi su quello di colpirla. Avanza finché non l’ha raggiunta e la punta di tiglio argentato non preme sulla carne morbida del collo. Astaroth non ha mosso un muscolo. Si guardano per un lungo, lunghissimo istante. Infine, Nieve rinfodera l’arma.

«Spero ne sia valsa la pena,» sussurra e le sue parole sono a stento udibili oltre la voce fievole e arrochita dal pianto. «Spero che ti scopi così bene da dare un senso al modo in cui hai fottuto me, Roth.»

È il collasso del sistema.
L’inizio della fine.

And I run
And I run
And I run
And I run
And I run
And I run
And I run
And I run…



Edited by ~ Nieve Rigos - 10/4/2019, 22:22
 
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view post Posted on 4/3/2019, 20:54
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Nieve Rigos
16 Anni
Mese di Agosto
Segue: Hall Of Fame




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Il culto di Maria sortiva un forte fascino su Nieve, come tutto ciò che s’imperniava sul concetto di maternità. Viveva in lei, robusta, l’esigenza di capire cosa si celasse dietro un’esperienza che le era stata negata da principio e che desiderava fare propria in qualunque modo. Per questo, quando aveva scovato una chiesa cristiana a pochi chilometri dal quartiere magico di Londra e aveva casualmente origliato il motivo di una preghiera che non apparteneva al suo Credo, era venuto da sé interloquire col prete per saperne di più. Era rimasta esterrefatta dalle scoperte sul marianesimo, dalla centralità riservata alla Madonna nella religione cattolica e dall’assenza di quel particolare asse portante nel protestantesimo. Perché loro non la pregavano? Non così, almeno.
Era un bene che Nieve possedesse la giusta flessibilità d’animo per fare i conti con i possibili stridori dati dalla sua condizione di strega. Se era riuscita a favorire la convivenza tra il proprio culto e la magia senza il timore di essere avvolta dalle fiamme dell’inferno, sarebbe scampata a una punizione anche se avesse imparato l’Ave Maria e l’avesse recitato tutte le volte che sentiva di essere in difficoltà. Per Nieve, che pure conosceva la differenza tra le figure centrali del suo ceppo religioso, infatti, era pressoché indifferente operare una scelta: facevano tutte riferimento a quell’unico grande sentimento di appartenenza che le scaldava il cuore e le faceva giungere le mani.

Discese gli ultimi gradini antistanti l’ingresso della chiesa cristiana con l’animo paradossalmente in tumulto. Stava stretta nella giacca a fantasia militare, le braccia raccolte attorno al corpo. Il diverbio con Grimilde e lo sguardo che le aveva rivolto Julian poco prima che lasciasse la cucina erano ancora capaci di farle rivoltare lo stomaco. A tutto questo, si aggiungeva un intollerabile pizzicore al naso: il septum, oltreché una punizione, le stava costando la sanità mentale.
La speranza di rifugiarsi nella preghiera l’aveva spinta fin lì, eppure aveva fatto presto a dissolversi quando, trovato posto presso uno degli ultimi banchi, Nieve aveva potuto constatare che una celebrazione fosse già in atto; e non una delle più gioiose.
Sul catafalco bardato di viola, era esposto un feretro che richiamava le tonalità della quercia di cui erano rivestiti gli interni della chiesa. Un odore forte di fiori sprigionava dall’altare fino al portone d’ingresso, laddove sussurri e singulti mezzo soffocati facevano da sfondo alle parole del prete, che tentava invano di lenire la disperazione di una famiglia spezzata con le sole parole di consolazione che gli fosse stato dato di conoscere. Oltre la veletta nera, il viso di una donna dai lineamenti marcati piangeva le sole lacrime che le fossero rimaste.
Nieve si era scoperta commossa d’improvviso. Allora, perseguitata dal ricordo della morte della sua balia, aveva abbandonato la chiesa.
Inspirò lo smog cittadino, lieta del fatto che l’odore nauseante dei fiori non fosse riuscito a seguirla e avesse smesso quasi del tutto di inondarle le narici. Un bus di un rosso scarlatto suonò all’indirizzo di un motorino dall’incedere spericolato, attirando l’attenzione di alcuni passanti allarmati. Nieve voltò le spalle al quadretto, incurante, e imboccò la strada che conduceva al Black Skull. Distava a malapena un paio di isolati, quanto bastava per scrollarsi di dosso il malessere indotto dalla sequenza di eventi che si erano assiepati all’uscio della sua vita. Se c’era una cosa per cui si sentiva ancora grata ad Astaroth — oltre il fiele del tradimento e della delusione —, era il fatto di averla introdotta al mondo degli alcolici. Benché si sentisse fuori centro il più delle volte da che la rottura aveva avuto luogo, bere le garantiva l’accesso a quel genere di perdizione auto-indotta necessario per tirare avanti.
Batté due rapidi colpi con le nocche di indice e medio sulla porta, rompendo solo a metà l’incrocio in cui aveva relegato le braccia. Fissò brevemente l’attenzione sulle scritte al neon che davano sulla strada, al di sopra di un livello rispetto all’effettiva ubicazione del Black Skull. Si trattava di un locale clandestino, sopravvissuto alle ronde della giustizia grazie alle giuste conoscenze. Aveva il pregio — come molti locali clandestini, del resto — di non imporre agli altri l’onta del giudizio. Chiunque vi si fosse recato avrebbe potuto condurre i propri affari assolutamente indisturbato. Semmai, il rischio era di suscitare, più che il biasimo, l’interesse altrui. La prima volta che vi aveva messo piede, Nieve si era trovata in compagnia del datore di lavoro con l’obiettivo di consegnare un oggetto che non poteva essere esposto in negozio e che, in parte, spiegava il perché della nomea di Safarà.
Snocciolò la parola d’ordine senza troppa enfasi, sotto l’occhio attento di un mezzo gigante addestrato a fare da usciere. Quando si decise a farla entrare, osservandola con espressione curiosa non meno che naturalmente istupidita, Nieve lo oltrepassò senza degnarlo di uno sguardo. Aveva il naso in fiamme, le tempie che pulsavano e il petto oppresso da un miscuglio di emozioni che non abbisognava discernimento. Ne avrebbe saputo riconoscere ed etichettare ciascuna con la stessa precisione che sapeva di sfoggiare entro l’aula della professoressa Pompadour o nelle serre del professor Black.

«Un bicchiere di Goblingrappa,» ordinò quando si fu appollaiata su uno sgabello isolato. Raccolse i capelli in uno chignon alto, infastidita perfino dalla dimensione corporea della sua esistenza. «Barricata, se possibile.»
La barista più vicina — una fata dai lunghi capelli arancioni, le ali trasparenti e le gambe affusolate in bella mostra attraverso lo spacco vertiginoso del vestito turchese — prese l’ordinazione con un sorriso furbo sul viso piccino, dimostrando di averla riconosciuta.
«Non pensavo ti avrei mai vista prendere qualcosa di diverso dal vino,» fece l’elfo domestico alle spalle della fata, rivolto a Nieve. Preso atto dell’ordinazione, afferrò una bottiglia panciuta e spedì la minuscola collega presso un cliente all’altro capo del bancone, invitandola a servirgli un cocktail già pronto. «Non sei qui con tuo padre, stavolta?»
Nieve gli rivolse un’espressione confusa, prima di cogliere la natura del riferimento.
«Non è mio padre,» precisò, ridacchiando per la prima volta da che aveva messo piede a casa di Grimilde. «È solo il mio datore di lavoro.»
L’elfo annuì. «Ha senso. Quel bestione non avrebbe mai potuto generare una creaturina come te. E io me ne intendo di creaturine,» ribatté, accennando alla fata. Nieve rise, ma arcuò un sopracciglio per imporgli di ridimensionarsi. L’esperienza coi clienti di Safarà le aveva insegnato a mantenere le dovute distanze dagli sconosciuti per impedire che la sottovalutassero, al netto della differenza d’età. «Con tutto il rispetto, eh! Volevo dire che sei delicata.»
«Di tutte le persone che conosco,» lo rimbeccò senza offesa, sfilandosi la giacca e deponendosela in grembo, «sei il solo che mi abbia definito in questo modo, credimi.» Ripensò al pugno che aveva assestato a Vagnard, alla presa in cui aveva stretto la matricola Serpeverde durante l’ultimo ballo di fine anno, perfino alle scopettate che aveva tirato in faccia a Horus nello sgabuzzino al primo piano. E convenne con un ghigno di non possedere quella peculiare dote, insieme a moltissime altre. «In ogni caso, come dicono tutti, l’apparenza inganna.»
«Magari, non sarai delicata nei modi,» la assecondò l’elfo e schioccò le dita perché il bicchiere che aveva preparato — i lineamenti scavati del teschio che dava il nome al locale emergevano dal vetro spesso — si materializzasse davanti a Nieve, «ma lo sei nell’aspetto. Guarda quei capelli!»
Nieve schiuse le labbra, pronta a contraddirlo. Avrebbe voluto dirgli che, come mille altre sfumature di sé, anche quella fosse un’illusione, dovuta a un’abilità della quale non aveva il controllo. Tuttavia, tacque e scosse il capo, risolvendosi a prendere un sorso generoso di Goblingrappa. Giravano voci che, presso il Testa di Porco, ne servissero una qualità altrettanto pregevole, ma non aveva ancora avuto modo di verificare. Fece appena in tempo a scorgere la fatina avvicinarsi all’elfo, prima di vederla tornare alle proprie occupazioni.
«E non sono l’unico ad averlo notato, a quanto pare,» lo ascoltò continuare poco dopo.
Nieve mandò giù l’ennesima sorsata, serrando le labbra per il fastidio. Non era abituata a quel genere di sapori, che di molto differiva dalla corposità acidula del vino. Eppure già pregustava il senso di ebrezza che anticipava l’estraniamento.
Fissò lo sguardo sull’elfo domestico: indossava un completo elegantissimo, compreso di monocolo, e la osservava coi suoi enormi occhi nocciola. Il proprietario di Safarà le aveva accennato quali atipiche circostanze si celassero dietro l’impiego della creatura: benché apparisse (e si atteggiasse) come il proprietario, non era che l’umile servitore di chi aveva troppo da perdere per esporre i propri connotati alla vista della clientela; era comodo per tutti — tranne che per l’elfo, forse — che si fosse creato quel qui pro quo circa la titolarità del Black Skull.
Furtivamente, l’elfo le fece segno di fissare l’attenzione su un cliente a una quindicina di sgabelli da lei, oltre il punto in cui il bancone faceva angolo. Era un giovane che, a occhio e croce, aveva superato da un pezzo la soglia della maggiore età; non aveva né i colori, né i lineamenti di un inglese. Nieve distolse presto lo sguardo, imbarazzata dall’impudenza di un’osservazione che tradiva una maturità a lei ancora estranea.
«Ha detto alla mia collega che offre lui,» le comunicò, dando le spalle alla persona di cui stavano discutendo. Un sorrisetto compiaciuto incurvava le labbra sottilissime dell’elfo. Nieve pensò che avesse carattere e non poté fare a meno di chiedersi — benché sapesse poco della specie di riferimento — quanto quell’atteggiamento rispecchiasse i modi della famiglia di appartenenza. «Quanti anni hai detto che hai?»
«Venti,» mentì. Ne aveva sedici, ancora per poco. «Freschi freschi, tra l’altro. Oggi è il mio compleanno.»
«Per tutti i panciotti! Questo merita un festeggiamento!» Uno schiocco di dita bastò a che due calici di chiarissimo champagne apparissero davanti a loro. A fatica, Nieve mandò giù la Goblingrappa, poco incline alla prospettiva di rifiutare l’offerta. «Buon compleanno, tesoro!»
Poco prima che i rispettivi flûte si toccassero, sentì il bisogno di presentarsi.
«Il mio nome è Nieve.»

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Sussultò, rabbrividì e chiuse gli occhi, spingendo il capo all’indietro in una preghiera che non avrebbe trovato spazio nella corona del suo rosario.
Aveva il collo arcuato, la bocca schiusa e il corpo in fiamme.
Portò la mano al viso, carezzando distrattamente la fronte in preda al piacere, dopodiché la condusse alle labbra e intrappolò un lembo di pelle tra i denti.
Le scappò un lamento gutturale, prima che la lingua riuscisse ad imbrigliarlo sul fondo della gola.
A una stimolazione ardita seguitò una reazione altrettanto virulenta.
Era un dolore asintomatico, capace di consumarla senza esaurirne le energie.
Stava bruciando, ma non provava pena.
Ansimò.

Strinse le dita attorno al tessuto tiepido del lenzuolo e aprì gli occhi sul soffitto di travi scure. Sentì il corpo che le danzava intorno strisciare contro il suo — fremette.
Si sporse in avanti per intrappolare il singulto che minacciava di farsi suono tra la propria bocca e quella dell’altro. Lo baciò, mentre le braccia si cercavano, incastravano e, infine, scansavano.
I polpastrelli di Nieve premettero sulla parte bassa della schiena del giovane, risalirono lungo la colonna vertebrale e si agganciarono alle spalle di lui.
Gettò il capo all’indietro, di nuovo, esponendosi a un attacco più violento: lo sconosciuto insistette sulla carne tenera sopra le clavicole; le carezzò con decisione la coscia prima di agganciare le dita dietro il ginocchio.
Il corpo di Nieve giocò d’anticipo sulla sfera del raziocinio, annebbiato dai fumi dell’alcol, e reagì.
I confini che la delimitavano non le erano mai stati tanto presenti.
Le tornarono in mente — in un frangente di lucidità — gli incontri con Rupert al sapor d’indecisione e inesperienza. Per una ragione che non era riuscita a spiegare nemmeno a sé stessa, allora era stata reticente a spingersi oltre.
Condusse entrambe le mani al capo. Le dita affondarono tra i capelli: dello chignon scomposto che aveva messo su qualche ora prima non rimaneva che il disordine.
In un unico spasmo, Nieve cercò con l’altra persona un contatto che fosse in grado di appagare i richiami che promanavano dalle profondità del suo io. Una risata risuonò a poca distanza dall’orecchio di destra. Le stava chiedendo se stesse bene, sottacendo così la richiesta di un consenso.
Per un attimo, l'intelletto le impose di considerare l’offerta e tirarsi indietro. Cosa avrebbe pensato Astaroth di lei, quando gliel’avesse raccontato? La consapevolezza dell’inutilità della domanda le planò addosso sulle ali del turbamento.
Sotto la curva appena accennata del seno, il cuore rallentò la sua corsa, infine tornò a sabotarla.
Rotolarono. Sovrastandolo, Nieve si strinse a lui, torace contro torace. Gli sorrise allora, maliziosa: le dita percorsero, carezzevoli, la curva della spalla, insistettero sulla tensione del costato, poi si spinsero in basso sul profilo del fianco. Fece appena in tempo a strappargli il più rauco dei lamenti che avessero preso vita in quella stanza, che le posizioni si ribaltarono ancora.
A quel punto, ansante, cedette a un gioco di contrazioni che invertì l’ordine delle sue pulsazioni. Premette i polpastrelli contro il materasso, da ultimo cercò la schiena di lui che si muoveva sopra di lei.
Il gemito che abbandonò la bocca di Nieve racchiudeva il contrasto delle sensazioni che la stavano predando.
Un tremito le scosse le ciglia.

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Il petto di Nieve seguiva il ritmo di una respirazione ora più quieta.
Giaceva scompostamente sul letto, reduce da una battaglia combattuta per il bene di nessuno e su una terra di nessuno.
Aveva le labbra accostate e gli occhi socchiusi. Attraverso la fessura delle palpebre, intravedeva a stento i fasci di luce pallida scivolarle sulla pelle e regalarle quella sfumatura eterea che viene con la notte e i suoi spettri.
Non aveva coscienza del luogo in cui si trovava, perché il suo corpo sfuggiva alle maglie della percezione. Non le era mai apparso così vigoroso, reattivo, vivo come in quel preciso istante, eppure non lo sentiva. Sospesa in una dimensione di nebbia, aveva consapevolezza della propria mortalità soltanto nei rintocchi prepotenti di un cuore restio a chetarsi.
La bocca di Nieve si concesse una leggera inclinazione verso l’alto: il septum non le provocava più alcuna sofferenza. L’alcol e il sesso avevano trasformato i tratti di una sensazione meschina in una dolenzìa latente.
Trovò il coraggio di muoversi, pianissimo e con cautela, solo dopo aver intrappolato il labbro inferiore tra i denti ed essersi concessa una risata silente. Nieve la sentì rimbombare nel petto, su per la gola e giù in basso, dove stavano i suoi segreti più intimi.
Fece schioccare la lingua contro il palato, mentre lisciava le lenzuola accaldate e ne tirava una parte su di sé per preservare il calore corporeo. Della Goblingrappa non era rimasto che un sentore lontano, insignificante rispetto all’impronta che l’altra persona aveva lasciato su di lei e dentro di lei.
Mosse il capo prima a destra, poi a sinistra. Cercò con le dita i punti in cui ricordava di averlo sentito insistere e vi tracciò un cerchio; le scappò un brivido che la spinse a stringersi nelle spalle.
Avrebbe voluto dormire, ma non poteva fintanto che la sua anima non fosse tornata a risiedere nel corpo. Le parve di vederla librarsi, in pace, a poca distanza dal punto in cui languiva.
Un refolo di vento le sfiorò il seno, facendola intirizzire.
Doveva tornare a casa, si disse. Era presto, ma non lo sarebbe stato ancora a lungo.
Batté le palpebre lentamente e respirò perfino più piano.
Fu a quel punto che il pensiero di Astaroth tornò ad assillarla. “La prima regola è divertirsi, ma, quando hai finito, devi essere la prima a filarsela”. Lo sguardo di Nieve corse inevitabilmente al corpo disarmato che dormiva al suo fianco, mentre già scattava sulla falsariga di un ordine impartito da un istinto plagiato.

«Bastarda!»

Si lasciò ricadere sul materasso, turbata.


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Edited by ~ Nieve Rigos - 10/4/2019, 23:58
 
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Nieve Rigos
16 Anni
Mese di Aprile, III anno.
Segue: Na~tu~ral



La conta dei Campioni


tDCvfkSSe ne stava seduta al tavolo dei Grifondoro con aria annoiata. Le mani tenevano ferma l’edizione del Cavillo che le aveva passato Christina e gli occhi scorrevano rapidamente i titoli degli articoli senza l'intenzione di approfondirne il contenuto. Davanti a lei, sulla superficie del tavolo, giacevano pressoché intonse le porzioni di roast-beef, purea di patate e verdure lesse che si era servita: aveva sbocconcellato pigramente la prima fettina di carne e assaporato la dolcezza di una carota lucida d’olio; poi, come aveva iniziato, la mano destra aveva smesso di portare cibo alle labbra e si era nascosta dietro le pagine del giornale. Le erano occorsi quasi dieci minuti per calmarsi e smetterla di scalpitare sul posto nel timore che qualcuno facesse riferimento alle sue abitudini alimentari. La verità, che si ostinava a respingere nonostante l’evidenza, era che buona parte dei suoi concasati fosse a conoscenza del disagio che la coglieva durante i pasti; e l'avevano tutti abbastanza a cuore da non farglielo pesare.
Nieve levò lo sguardo da un trafiletto piuttosto curioso — l’autore riferiva di una strega capace di guarire dall’infertilità con un intruglio a base di calli di gnomo — per rivolgerlo al resto della sala. Gravava un silenzio di tomba su tutti i presenti, che non fu capace di spiegarsi da subito. Solo quando individuò la figura bislacca del Preside e la sagoma squadrata della cassetta del Torneo; solo allora comprese. Come aveva potuto dimenticarsene?!
Trattenne il fiato, inconsciamente. Era certa, in modi che non ammettevano dubbio alcuno, di non rientrare tra i campioni prescelti per la gara: non possedeva la stoffa, non era pensabile, non aveva la forma. Lasciò, tuttavia, che l’atmosfera gravida di aspettative la contagiasse — le scorreva sulla pelle come acqua piovana, leggera ma impossibile da scrollare.
Nel tempo che Peverell impiegò per recuperare il primo foglietto e pronunciare il nome del campione designato per Grifondoro, Nieve smise di pensare. Non c’era spazio, nei ranghi della sua sfera percettiva, per null’altro che il battito del suo cuore. Non stava correndo in preda al panico, né trottava in balìa dell’eccitazione; ma non gli apparteneva neppure quell’atteggiamento quieto che sfoggiava ogni dì, rannicchiato nel suo petto in attesa di una sollecitazione qualsiasi. Tuonava piano e forte insieme; e la isolava dal mondo esterno.

«Il campione di Grifondoro è Nieve Rigos.»

La bolla s’infranse sulle note del suo nome — era l’unica cosa che sentisse veramente sua, pensò nel brevissimo frangente di silenzio che seguì l’annuncio, eppure non le apparteneva.
In un attimo, fu il delirio tra le fila che vestivano di rosso e di oro. Stretta nel velo della propria incredulità, Nieve batté le palpebre — come avrebbe potuto non farlo adesso? — e schiuse le labbra per concedersi di espirare... finalmente. Una miriade di tocchi diversi la raggiunsero senza che fosse in grado di staccare gli occhi da un piatto di cavoletti di Bruxelles mantecati al burro: la stavano abbracciando; incoraggiando; perfino baciando sulla testa, sulla fronte, sulle guance. E lei se ne stava lì, di ghiaccio come facevano i fiordi durante gli inverni islandesi, pietrificata da una notizia che non aveva visto arrivare. Fu allora che si accorse del cambiamento intervenuto nello spazio delimitato dalle sue costole: adesso sì che lo sentiva affaccendarsi, giubilare, perfino incespicare — il cuore. E sorrise, poi rise, infine si alzò senza alcuna ragione apparente.

Aveva ancora il Cavillo tra le mani nel frangente in cui il secondo nome fece esplodere un’altra porzione della Sala Grande e Horus Sekhmeth venne presentato al pubblico come il campione delle schiere di Tosca.
Si era interrogata a lungo, nei mesi seguiti al Ballo delle Ceneri, sulla mancata risposta del ragazzo al regalo di Natale che gli aveva fatto recapitare: era stata inopportuna? gli era mai arrivato? la Rose non aveva gradito e lui l’aveva rassicurata, gettandolo in un cestino? Di tutti i dubbi che l'avevano colta, il solo che le avesse fatto attorcigliare le viscere per il disagio era di aver commesso un errore, di essersi colpevolizzata inutilmente per la propria sfuggevolezza come se importasse a qualcuno; come se potesse importare a Horus. Avevano alzato il gomito fino a perdere il controllo, a tratti il decoro e, in un certo senso, la cognizione di sé stessi. Sul serio aveva creduto che quella domanda — “Vuoi essere mia amica?” — significasse qualcosa, che lui lo intendesse veramente e che non fossero stati i fumi dell'alcol a parlare al suo posto? Era da stupidi, si era risposta. Da disperati.
Stando così le cose, chiunque altro nella sua posizione si sarebbe assicurato di evitare qualsiasi contatto, adesso che le circostanze lo imponevano più che mai; a metà tra l’imbarazzato e l’indignato, avrebbe dovuto rifuggirlo col freddo distacco di chi abbia troppa dignità per lasciarsi calpestare una seconda volta. Nieve, invece, aiutata dalla direzione dei festeggiamenti della tavolata Tassorosso, cercò Horus e attese di trovarne lo sguardo. Impettita nel suo chignon alto, con la divisa sorprendentemente in ordine per i soliti standard, mantenne un piglio d’indecifrabile austerità.
Da ultimo, si sciolse in uno dei sorrisi più brillanti della sua antologia e gliene fece dono.



Edited by ~ Nieve Rigos - 15/6/2019, 18:45
 
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view post Posted on 25/5/2019, 19:24
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Nieve Rigos
Campione Grifondoro
Prima ProvaTrasfigurazione
16 Anni
Mese di Maggio, III anno.
Segue: La conta dei campioni




Piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.



Silenzio.
Nella radura in cui sono stata condotta, regna incontrastato il silenzio.
Domina l’ambiente in un gioco di esasperanti contraddizioni e lo cheta, perentoriamente. Da una foresta, chiunque si aspetterebbe un tripudio di suoni, rumori, versi e crepitii. Nel luogo in cui mi trovo, ebbene, non ce n’è alcuno.
Abbasso il capo, osservo la punta delle scarpette che ho indossato per l'occasione e deglutisco, a disagio. C'è qualcosa di disturbante nella situazione che mi vede immobile, qui, da sola. Forse, mi dico, dipende dal fatto che non sappia esattamente cosa fare; cosa ci si aspetti che faccia. Non ho ricevuto nessuna indicazione, nessuna specifica. E non sono neppure stupita più di tanto, in verità: se c’è di mezzo Peverell, è pressoché automatico finire in circostanze sospette e d’impossibile decifrazione. È solo che mi sento fuori luogo... un po' come il silenzio.
Do una scrollata di spalle e stringo la presa attorno alla bacchetta. Rimescolare il calderone delle mie tribolazioni non mi aiuterà a far chiarezza. Ed è un bene che io sia sostanzialmente una persona flessibile, perché tanto basta a ridarmi un tono. Sento ancora un’inutile, insensata pressione dare il tormento al mio povero diaframma, ma sono già passata oltre; alla fase in cui l’azione mi alletta più della stasi.
Nel farlo, mi rendo conto di come la quiete ostinata che permea la boscaglia non sia l’unico elemento di disturbo. Il paesaggio che scorre davanti ai miei occhi è spiacevolmente innaturale. Gli alberi sono radi; hanno fusti rachitici — come di arbusti rinsecchiti da un’estate torrida — e fronde poco floride. La fauna è pressoché assente e non c’è traccia né di foglie, né di aghi di pino, né di fiori sul terreno. Sono in una foresta che non ha le sembianze di una foresta.
Muovo un passo. L’erba si piega normalmente sotto la suola delle scarpe e la cosa mi conforta. Mi conforta perché, in quest'assenza di naturalezza, mi ha assalita per un istante il dubbio che tutto potesse essere illusorio; che la mia mente fosse in preda a un’allucinazione, o che potesse essere stata traviata… Certo, questo implicherebbe considerare che i docenti mi abbiano drogata chissà come, chissà quando; ed è vero che i tè di Peverell siano rinomati in tutto il castello e che l’insistenza della sua zuccheriera non me l’abbia mai contata giusta. Ma, anche se fosse, anche se avessi ragione e la mia immaginazione non stesse galoppando verso un orizzonte favolistico, adesso non importerebbe. Devo andare avanti!
Faccio un cenno di assenso col capo per incoraggiarmi a mantenere alta la concentrazione, mentre gli steli chiari si fanno arrendevoli sotto il mio peso — almeno questo ha un senso.
È pochi secondi dopo che tutto cambia. Ho la gamba destra avanti rispetto alla sinistra, gli occhi sbarrati, la bocca dischiusa e il fiato sospeso tra gola e polmoni. Sto fissando una ragazza spuntata fuori dal nulla. A guardarla, non sono del tutto sicura che sia umana. In ogni caso, stringo più forte la bacchetta e ricambio l’occhiata indecifrabile.
«Ciao…» proferisco e la mia voce tradisce una certa titubanza. «Sono qui per il Barnabus. Sai mica cosa devo fare?»
L'innocenza con cui pronuncio la richiesta la dice lunga sul mio conto. Non sono il genere di persona che teme follemente di sbagliare, mossa dall’esigenza di mostrarsi sempre pronta. Non sono nemmeno il tipo di studentessa che non chiede aiuto per non sentirsi sminuita: il saggio sul Midnight per la McLinder, compilato da Thalia per sua gentilissima concessione, ne è un esempio. E lo è anche il modo in cui mi sono immediatamente affidata a chi ho di fronte, pur nella totale estraneità che ci lega. Nella mia ottica è sciocco respingere un aiuto potenzialmente valido, se basta allungare la mano per ottenerlo.
Studiando il colorito cinereo della sconosciuta, mi dico che qualcosa non vada in lei. Ha un'aria sconsolata e un piccolo broncio sulle labbra carnose. Per qualche ragione, mi ricorda l'ex Caposcuola Rose.
Faccio per parlare, esitante.
«Stai… bene?» domando, infine, e azzardo un passo verso di lei. La giovane fa oscillare il capo e i capelli rossi — di un rame ingrigito da Dio solo sa quale diavoleria! — ondeggiano al ritmo del suo diniego. Mi sento improvvisamente così partecipe che avanzo ancora e, contro ogni rimostranza pregressa, aggiungo: «Posso fare qualcosa per te? Mi sembri sconvolta.»
La ragazza muove le braccia tutto intorno per indicare la radura e finalmente, a fatica, parla.
«La foresta…» La sua voce è debolissima, un sussurro che riesco a cogliere solo accelerando il passo e tendendo l'orecchio. Se c’è una cosa che percepisco distintamente, tuttavia, è la violenza che si accompagna a questo sforzo di comunicazione: la addolora. «Non era così. È orribile!»
Non posso fare a meno di squadrarla, interdetta. E batto le palpebre nell'attesa che mi spieghi meglio, ma la sconosciuta tiene lo sguardo basso e la sua espressione non accenna a cambiare. Mi costringo a gettare un'occhiata al paesaggio intorno perché è evidente che non abbia intenzione di aggiungere alcunché; non nel breve periodo, almeno.
«Hai ragione. È piuttosto orribile,» confermo con gli occhi fissi su un ramo alto. Mi rendo conto che le nostre voci risultino fastidiose, quasi corrosive. Ciononostante, sbotto: «Ma è normale tutto questo silenzio?» Il singhiozzo che segue riesce a distrarmi dalle congetture sull’artificiosa quiete del luogo. Ritrovo la sconosciuta in lacrime. «Oh, nonononono! Non piangere! Non volevo... Non è proprio brutta. È un po'... un po’...» Fa schifo e tanto varrebbe bruciarla, sentenzio interiormente, ma è il caso che lo tenga per me se non voglio rischiare che la straniera abbia un crollo nervoso. Cioè, che ne abbia un altro o che quello in corso peggiori. Mi tornano in mente le parole che ha pronunciato pochi secondi fa. «Hai detto che non è sempre stata così…» le faccio notare per distrarla.
La vedo confermare la mia osservazione con un ennesimo cenno di diniego. Desidero disperatamente attirarne l’attenzione per poterle sorridere. Per esserle di conforto. Per scusarmi, in un certo senso.
«Era viva.»
«E cos'è successo?»
La sconosciuta fa spallucce e la tristezza sembra reimpossessarsi di lei, schiacciandone l’intera figura. Andiamo bene! Non ho ancora capito in cosa consista la prova e sto qui a lambiccarmi il cervello con la versione silvestre di Mirtilla Malcontenta. Eppure proprio non ho cuore di far finta che i nostri cammini non si siano mai intersecati.
Un borbottio sommesso dall’alto annuncia l’approssimarsi di un temporale.
«Credo di poter fare qualcosa,» le dico dopo un po’. Mi rimbocco le maniche, letteralmente, e ispeziono un’altra volta la foresta. Magari, mi consolo, una buona azione potrebbe tornarmi utile al momento di affrontare la sfida del torneo. Del resto, nessuno ha mai parlato di scadenze prima di scarrozzarmi qui… «Conosco qualche incantesimo che può migliorare la situazione. Niente di straordinario, eh. Ma sempre meglio di questo… senza offesa
Le mie parole, perfino quelle dal tenore meno opportuno, non sembrano sortire alcun effetto su di lei. È come se la giovane donna, metà spettro metà umana, non lo credesse plausibile. O forse, più semplicemente, potrebbe non avermi sentita. Mi chino in prossimità di un cumulo di sassolini, agito fluidamente il polso che muove la bacchetta e tengo a mente i colori sgargianti di un’aurora boreale.
«Papiliofors!»
Lo sciame di farfalle che sprigiona verso il cielo mi strappa un sorriso bambinesco e arriccio il naso quando una decide di appollaiarsi sulla punta — per poco non mi s’incrociano gli occhi nel tentativo di studiare la trama delle ali larghe da così vicino. E non è che la delicatezza di un momento. Poco dopo, la sagoma della sconosciuta invade le mia visione periferica e rimango di stucco. Le farfalle sembrano trovarla irresistibile: stanno su di lei come gioielli su una corona, la impreziosiscono. E io che mi vantavo intimamente della predilezione di quell’unico esemplare!
«Ne conosco altri,» le comunico nella speranza che il sorriso insorto sulle sue labbra duri abbastanza a lungo da risparmiarmi la sfumatura cupa che me l’ha fatta conoscere. Qualcosa, nello sguardo desolato di lei, mi ricorda l’arcana malinconia negli occhi di Astaroth. «Ti farebbe piacere se ne eseguissi un paio?»
Annuisce con entusiasmo e posso ritenermi soddisfatta. Ora, devo solo sperare che gli insegnamenti di Barrow abbiano resistito nel tempo e che Channing non mi abbia distratta troppo con la sua indecente bellezza.
Di lì a qualche minuto, sono già a lavoro. Evoco uno stormo di uccelli con l’Avis; muto gruppi di pietre con il Folium per arricchire il fogliame scarso della vegetazione; gioco a trasformare alcune ranocchie obese in cigni con l’Olorifors; soprattutto, rimpolpo le file degli alberi con una serie infinita di Pianta Edolèsco e piazzo qualche altro Papiliofors strategico. Nel processo, poco alla volta, non mi avvedo di aver perduto la cognizione del tempo, dello spazio, delle ragioni che giustificano la mia presenza qui, di me stessa. Continuo e ripeto gli incantesimi in successione come se si trattasse di un rituale del quale ho piena padronanza per essermi esercitata a lungo.
Un gruppo di colibrì si dilegua nel cielo lontano.
Rimango a osservarlo finché non scompare.
E riparto.

f8HpV7q
{Instrumental}


Nel tempo che abbiamo trascorso insieme, ho scoperto che la sconosciuta ha un nome — Ermione — e che non ama perdersi in chiacchiere. A dirla tutta, col passare dei minuti, l’impressione degli inizi ha trovato conferma: esprimersi a voce alta sembra cagionarle una sofferenza, sottile ma intensissima, che ne trasforma i lineamenti. Per questo, dopo un po’, mi sono risolta a tacere e a focalizzarmi sui miei compiti di giardiniera.
Le mie braccia non hanno smesso un istante di muoversi, e la mia mente di lavorare, e le mie labbra di enunciare formule. Sono instancabile, testardamente persuasa di poter fare l’impossibile, consacrata a una causa che non mi appartiene e per la quale mi sto struggendo. Perché? La domanda mi ossessiona e la risposta mi elude. Quando sono sul punto di afferrarla, eccola che scappa.
Sospiro.
Sono esausta. Non credo di aver mai eseguito tante magie tutte insieme. Anzi, ne sono sicura. Mi sfioro il viso come per darmi conforto e sento lo spossamento planarmi addosso. Eppure, ora che gli effetti del mio intervento hanno acquistato una certa consistenza, la foresta mi appare così bella che la stanchezza non basta a fiaccarmi. Sono appagata.
«Ti fa male, non è vero?»
La voce di Ermione mi coglie di sorpresa e mi induce a manipolare l’astrattezza della sua frase per coglierne il significato concreto. Sta indicando il mio petto nel punto in cui ho deposto la mano armata in un attimo di riposo. Scorgo subito le cicatrici. Per questo, rido e scuoto il capo.
«No, affatto. Una volta che la pelle cicatrizza, non senti più niente,» le spiego, paziente, senza neppure chiedermi come faccia a non saperlo. Glielo spiego e basta. Mi pare di udire un frinire di cicale in lontananza, mentre mi appresto a rassicurarla: «È solo un segno.»
È il turno di Ermione di scuotere il capo, stavolta. Si avvicina a me, mi scosta delicatamente la mano dalle clavicole — trattenendola comunque nella sua — e accarezza il mio sterno piano piano.
«Qui,» dice e tamburella sul costato, là dove risiede il cuore. «Ti fa male qui.»
La nota interrogativa nella sua voce ha ceduto il passo alla fermezza di una constatazione, realizzo e seguito a osservarla come incantata. Nei suoi occhi verdi, trovo una sicurezza che mi spoglia. Le mie labbra si separano perché io possa abbozzare una risposta, ma mi rendo presto conto di non poterle mentire. Forse, di non volere.
Una goccia piove giù dal cielo e mi bagna lo zigomo.
E io continuo a tacere.
È così strano essere vista dopo tanto tempo.
Mentre guardo Ermione e mi lascio andare a un sospiro grave, mi sento crollare. Il peso di ciò che provo e il sollievo di non essere più invisibile si combattono e mi prevaricano. Allora scoppio in lacrime. Tento di coprirmi il viso con le mani in un gesto di naturale ritrosia, ma Ermione mi trattiene. D’improvviso, la delicatezza diventa imposizione. Le lancio uno sguardo pietoso, supplicandola di concedermi questa piccola fuga consolatoria, ma non ottengo alcun risultato.
La pioggia, intanto, si è infittita. Ha formato un velo di umidità liquida, che ci fa tremare le ciglia. L’acqua non nasconde, né cancella il mio pianto. Lo rispetta e lascia che si prenda il suo spazio. Si fanno compagnia. Ci facciamo compagnia.
«Qui,» la sento ripetere.
Picchietta sul tessuto del pullover nero ancora, ancora, ancora. E finalmente, per la prima volta da quando il tradimento di Astaroth mi ha ridotta a brandelli, lo ammetto.
«Sì,» singhiozzo e il mio tono suona esasperato, arrabbiato, sconvolto, oltraggiato, colpevole, stanco — tutto insieme.
Ermione non mi attira a sé, ma le sue dita sono intrecciate alle mie in una presa salda, che non ammette dissoluzione. Si limita a guardarmi, mentre il confronto col dolore mi piega.
Tace.

Vorrei spiegarle cos’è che provo. Vorrei dirle che mi sento come se avessi un faro costantemente puntato addosso. Non mi è concesso di muovere nemmeno un passo senza essere scovata da quell’unico, prepotente fascio di luce, che mi fa sentire esposta. Sono le mie emozioni a perseguitarmi.
E, siccome non posso fuggire loro, me le trascino dietro e le travesto perché gli altri non riescano a vederle in purezza. Divento volutamente stravagante, estroversa, pimpante e faccio della brillantezza il mio scudo. Mi armo della migliore invincibilità per nascondere le mie debolezze. Rido per distrarre l’attenzione dal mio sguardo stanco. Corro dietro mille impegni e lascio che mi assorbano per trovare un attimo di ristoro nell’annullamento più assoluto. Mi sento così tanto tutto il tempo che, quando riesco finalmente a non sentirmi, è estasi. Fluttuo in uno spazio in cui sono del tutto incorporea e dove le voci del mio tribunale interiore non possono funestarmi.
Sparisco per un po’, mi isolo.
Succede d’un tratto, però, che il riflesso nello specchio — quello statico, non il bastardo dinamico del Ballo delle Ceneri — mi rimandi indietro un’immagine meno lusinghiera del previsto. Avrei pensato che una pausa in assoluta solitudine potesse giovarmi. Invece, noto che il mio viso è spento, e i miei occhi tristi, e la piega naturale delle mie labbra muove all’ingiù. Allora, mi do un pizzico — a volte più forte di altre — per risvegliarmi.
Se non ti muovi a mascherare di nuovo e bene, se ne accorgeranno, Nieve. Si accorgeranno che sto male, sussurra la voce dentro di me alla quale ho imparato a dare sempre, devotamente retta. E vorranno sapere il perché, e dovrò dirgli di Astaroth, e mi sentirò morire come se non avessi mai smesso di rivivere quell’ultimo giorno di scuola dopo il ballo al campo di quidditch.
E allora? Lascia che guardino, non m’importa, risponde una me appena più coraggiosa, sfrontata, perennemente insubordinata. Conserva ancora il furore battagliero che mi contraddistingue e di cui mi scordo spessissimo da un anno a questa parte. Cosa-diavolo-vuoi-che-succeda? ribatte furiosa e, Dio, penso proprio che abbia ragione.
Succede che vedranno quanto sei deforme e ne rimarranno così raccapricciati da darsela a gambe senza prendersi la briga di avvisare. Spariranno! Qui, la voce tocca una delle paure più grandi che affliggano il mio piccolo cuore storpio. Abbasso lo sguardo sul petto, mi scruto e… finisco per soccombere di nuovo. È la parte che ha conosciuto più da vicino le pene dell’abbandono, il pungiglione della solitudine, lo schiaffo del rifiuto e non ha la benché minima intenzione di rinnovare le presentazioni.
Così, una volta che mi ha persuasa, torno a indossare la maschera dei giorni ridenti, la più brillante che ho, per recuperare il fatto di essermi immusonita per giorni. Devo splendere, divertirmi, essere sagace il doppio per depistarli tutti — è comprovato e so già di riuscire. Mi do sempre un ultimo pizzico per sicurezza in questi casi, perché non si sa mai.
Tutte le volte che l’iter si ripete, verrebbe da chiedersi come mai sia così semplice incaponirsi sui difetti, allacciarsi stretti stretti alla paura di non essere abbastanza e convincersi che nessuno potrà mai amarci. Ma io non ho che sedici anni e, per me, il mondo finisce esattamente là dove inizio io; e la mia vita è iniziata con un abbandono. Perché dovrebbe finire diversamente?
Eppure… Ermione è ancora qui. Anche se sono deforme, anche se sono orripilante, anche se sono debole, e sbagliata, e piccola, e stupida, e solo Nieve. Ermione è rimasta.

Quando torno a guardarla, le sto chiedendo perdono in silenzio per lo sfogo. Tento di rimboccarmi le maniche, ma ho le spalle ancora scosse dai sussulti. Lei mi accarezza delicatamente un braccio per incoraggiarmi, quasi che conosca il mio bisogno di sentirla, adesso più di prima. Come ho già fatto decine e decine di altre volte, dunque, punto al terreno ora umido. Visualizzo l’immagine di una tamerice e lascio che prenda possesso della mia mente. Prima che crescere nella foresta di Ermione, mi dico, è qui che devono attecchire le sue radici.
«Pianta Edolèsco,» comando e la magia mi asseconda.
Le fronde del suo albero — del nostro albero — sono rigogliose e accolgono la pioggia senza averne timore. Mi aspetterei che una pianta, come un neonato al primo vagito, emetta un qualsiasi suono che ne annunci la nascita. Ma il mondo silvestre ha delle regole sue proprie e mi convinco che sono io a non saper ascoltare, a non conoscere.
L’espressione sul volto di Ermione irradia gioia. Non mi accorgo nemmeno di aver sorriso di rimando, mentre i miei occhi ne scorrono la figura in preda all’incanto. È cambiata. Nel tempo che ho impiegato a rimpolpare la pineta, la sfumatura cinerina che me l’aveva fatta percepire come frangibile si è progressivamente dissolta. Lo ravviso nei colori che la dominano e che la rendono intrepida: adesso, i capelli splendono di un acceso color rame che rimanda all’autunno nel suo massimo fulgore; gli occhi hanno perso l’acquosità delle pozzanghere e si sono tinti del miglior verde di primavera; la pelle è rosea come un’alba invernale e le labbra ricordano una fucsia d’estate.
Allungo la mano e rimuovo una foglia, rimasta impigliata tra le ciocche ramate.
«Sembra che tu ti sia rotolata a terra. Ne hai a decine tra i capelli,» le dico e mi lecco via la pioggia dalle labbra, assaporandone la dolcezza evanescente.
Ma a Ermione sembra non importare. Continua a sorridermi e ho la sensazione che da un momento all’altro il suo cuore, il suo volto e tutto il suo corpo possano esplodere di gratitudine. Abbasso brevemente lo sguardo, imbarazzata. È lei a sollevarmi il mento. Conduce la mia mano alle sue guance perché io l’accarezzi. La scruto in silenzio senza intendere cosa voglia. Ed Ermione ripete il movimento, imperterrita: guida il mio indice in un tracciato che va dalla palpebra inferiore alla mascella — una linea incostante, tremula sul suo viso bellissimo. Allora capisco. Vuole dirmi che, sotto la pioggia battente, è come se stesse piangendo anche lei; che non ho motivo di vergognarmi; che è ancora qui dopo aver scoperto la mia imperfezione.
Il cinguettio vivace degli uccelli mi strappa un sorriso. Ermione guarda affascinata lo stormo sorvolare le nostre teste e ride.
È a questo punto che mi getta le braccia al collo e m’impone un movimento vorticoso. Cominciamo a girare in tondo, prima sul posto e poi per l’intera radura. La mia testa sfiora il ramo basso di un ginepro, la scarpa scivola appena sul terreno ricoperto di foglie e acqua — ho le vertigini. E rido anch’io. Non so quando e perché sia accaduto, ma sto ridendo. E stringo Ermione così forte che ho quasi il timore di farle male. Non voglio lasciarla andare, né voglio che sia lei a lasciarmi. Voglio che resti. Più di tutto, però, voglio rimanere io.
Mi chiedo, mentre giro e giro e giro, se io sia cambiata insieme a Ermione; insieme alla foresta. Mi chiedo se, illudendomi di averle modellate sotto il tocco delle mie mani inesperte e delle mie migliori intenzioni, non siano state entrambe loro a cambiare me — io che cambio sempre.
E non rammento nulla del Barnabus, della competizione e delle aspettative che mi hanno tolto l’appetito per settimane. Mi scordo della promessa che ho rivolto a me stessa, della necessità di mettermi in gioco, del desiderio di rendere fieri i Grifondoro. Non c’è spazio neppure per la prova che dovrei affrontare.
Non esiste nulla al di là della stretta che avvolge il mio corpo e dell’abbraccio con cui cingo Ermione. Del profumo di ginestre che emana dai suoi capelli e dell’odore di pesca che sprigiona dalla sua pelle. Delle nostre ginocchia che si sfiorano. Dell’acqua che mi bagna il viso e consola le mie lacrime. Della risata che piango mentre giro, e mi perdo, e mi ritrovo.
Cado a terra, sfinita, e sto ancora ridendo; o piangendo; sicuramente ansimando. Il pavimento è morbido, come se fossi atterrata su un tappeto di muschi e licheni intessuto apposta per me. Dev’essere opera di Ermione, mi convinco senza alcuna ragione apparente, e apro gli occhi per cercarla. In qualche modo, in tutto quel vorticare, ho allentato la presa su di lei e l’ho smarrita.
Mi metto a sedere, reggendo la testa con una mano. I capogiri mi impediscono di distinguere le sagome, ma sono sicura di poterla trovare. La sento, distintamente.
«Ermione?» chiamo. Ho il respiro affannoso per lo sforzo, i vestiti zuppi d’acqua, gli occhi arrossati e la bacchetta stretta tra le dita. «Erm…» faccio per dire — la mia voce si spegne.
Rammento che, in questa foresta, esprimersi è superfluo. Le parole diventano pesanti e feriscono il paesaggio come ferivano Ermione, che preferiva tacere. E d’un tratto il silenzio ha smesso di apparirmi fuori posto. Quasi lo invoco. Se la pioggia smettesse di battere, gli uccelli di cantare, le cicale di frinire e il vento di fischiare, sarebbe più facile individuare Ermione.
Mi domando dove sia andata. Dev’essere nei dintorni, ne sono certa. Riesco a percepirne la presenza nel moto diversamente taciturno della pineta.
Adesso, non mi sfiora neppure il pensiero di aver immaginato tutto, di essermi illusa o, peggio, di avere illuso lei. Sento ancora il suo profumo, il tepore consolatorio della sua essenza.
E la ritrovo così, improvvisamente, inspiegabilmente — Ermione. Nei colori del sottobosco rivedo il candore della veste con cui l’ho conosciuta, il marrone aranciato della chioma folta, la delicatezza della pelle nuda. Come abbia potuto dissolversi in un attimo non riesco a capirlo e, per qualche ragione, non mi spaventa neppure.
Non perché io abbia ricordato il Barnabus. Non perché l’esperienza con la Scuola di Atene mi abbia insegnato che devo aspettarmi di tutto da questo genere di avventure fuori porta — come se sapessi dove mi trovo o cosa sto facendo, d’altra parte. Non è neppure perché io sia una persona religiosa e questo mi spinga a credere nel sovrannaturale in modi che sfuggono ai dettami della magia e del raziocinio. È che mi sembra… giusto, semplicemente.
Ermione è sempre stata la foresta.
E io? Chi sono io?
Mi rannicchio sulla trapunta di Ermione, in posizione fetale, a occhi chiusi.
La pioggia mi fa da lenzuolo, la natura da madre.
Sono Nieve.
Non solo Nieve.
Nieve.

Piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.



La premessa obbligatoria a questa postilla è che, oggettivamente, non posseggo le competenze che mi avrebbero permesso di affrontare a dovere la prova; i miei studi mi hanno condotta in altra direzione. Più che lanciarmi in un’analisi del testo, perciò, voglio spiegare come mi sono approcciata alla sfida e, nel procedere, snocciolare una manciata di riflessioni che rendano meno astratto il mio elaborato e ne chiariscano il fitto (ma non necessariamente intelligibile a prima lettura) simbolismo. Preciso, inoltre, che non avrei potuto muovervi diversamente che in ONgdr, perché Nieve non nasce come personaggio spiccatamente intellettuale e avrei dovuto metterle in bocca ragionamenti miei, che avrebbero avuto come diretta conseguenza quella di farmi entrare in una realtà solo sua, laddove mi sono ripromessa di lasciare a Nieve i suoi spazi e di risparmiarle l’eredità dei miei deliri cervellotici.
Dall’inizio, la mia intenzione si è mossa nel senso di sviluppare una linea continua tra la Trasfigurazione intesa come materia di studio a Hogwarts, il tema del panismo dannunziano e il concetto più umano di metamorfosi/trasformazione; il tutto rapportato alle vicende personali che interessano Nieve. L’ho fatto ricorrendo agli incantesimi, sviscerando la natura e l’emotività del mio personaggio nei suoi tratti salienti e, per finire, concedendole di andare incontro all’ennesimo cambiamento.
In tal senso, penso che la Trasfigurazione si presti meglio degli altri campi a questo genere di percorso: piega, infatti, la materia e la plasma per dargli nuova vita, nuova forma. Così, un sasso diventa una farfalla, una ranocchia un cigno, le pietre foglie, un topo un calice di cristallo e avanti ancora in questa direzione. Trovo personalmente che stia qui la somiglianza tra poesia e Trasfigurazione. Anche la poesia ha un modo tutto suo — precisamente regolamentato, tecnicamente ineccepibile — di rappresentare il vero e attribuirgli sembianze nuove, diverse. Così, per il poeta, il volto diventa foglia, i capelli ginestre, il cuore pesca, gli occhi pozzanghere, i denti mandorle, gli alberi strumenti suonati dalla pioggia fino a che, da ultimo, è lui insieme a Ermione a perdersi nella natura per diventare parte di un tutto più grande che prescinde la dimensione corporea delle cose, nonostante sia proprio l’esperienza sensoriale il tramite per riuscirci.
Trasfigurazione è inoltre la materia che, per come ho concepito la storia e la struttura in divenire di Nieve, meglio le si adatta. Nieve cambia continuamente, a volte in modo rapido, a volte prendendosi del tempo, a volte al limite dell’ingovernabilità. Le istanze delle persone che incontra, delle esperienze che la segnano, delle esigenze di corpo e spirito ne compenetrano l’animo e si mescolano, modellandola a loro piacimento. È una Metamorfomagus, non a caso.
E per Nieve è tutto, tutto personale. Lo sono le ragioni che giustificano questa prima parte del torneo. I suoi movimenti, le sue scelte, le sue reazioni sono direttamente influenzati dal vissuto, da chi è sempre stata e da chi sta diventando.
Non abbandona Ermione ai suoi incomprensibili piagnistei perché ritrova in lei — una persona sola, fragile, apparentemente rotta — la sé bambina d’Islanda: avrebbe voluto che altri (i suoi coetanei e gli abitanti del villaggio, addirittura i suoi genitori) la cercassero nel folto della foresta invece che respingerla o abbandonarla; che la raggiungessero e restassero, ma soprattutto che le insegnassero a rimanere.
Ancora, non si arrende quando fornire a Ermione l’aiuto di cui ha bisogno le porta via tempo, tempo che potrebbe impiegare per la famosa prova del torneo (nella sua mente, è qualcosa di totalmente diverso da ciò che sta vivendo): non si arrende perché altri si sono arresi con lei — Emma, Oliver, Astaroth, almeno secondo la sua personalissima prospettiva — e sa quanto faccia male, sicché non riesce a tollerare, nemmeno a immaginare, di assumersi la responsabilità di provocare quel genere di sofferenza a un’altra persona.
E, per finire, non mente a Ermione sul suo dolore perché essere vista, essere voluta è ciò che ha sempre desiderato e che continua a desiderare. Nieve non ha filtri; nella migliore delle ipotesi, combina un danno ed è la vita a filtrare per lei. E il fatto che Ermione riesca a percepire quanto sia a pezzi è già di per sé sufficiente a far crollare le sue labili, inesistenti barriere (“Nella mia ottica è sciocco respingere un aiuto potenzialmente valido, se basta allungare la mano per ottenerlo”). Se così non fosse — se, cioè, avesse avuto dei veri filtri —, Astaroth non avrebbe mai saputo della sua cotta per Kappa e Thalia non avrebbe mai saputo (pur per sommissimi capi) del litigio con Astaroth.
Sta proprio qui il richiamo più astratto che mi sia sfidata a fare alla Trasfigurazione. Ho provato a intenderla non solo come materia di studio; non solo come ramo della magia che ha le sue norme, la sua storia, la sua dignità; non solo come trasformazione di una persona in divenire e che decide finalmente di lasciarsi andare. L’ho intesa anche in senso esattamente opposto: come tendenza spiccatamente umana a mascherare le emozioni — il “come stai?” chiama sempre il “bene!” —, a camuffarle perché risultino tollerabili alla vista degli altri ma, forse, soprattutto alla nostra. Un po’ come se fosse una sfida, le emozioni ci cambiano e non cambiamo loro.
Da mesi ormai, è proprio su quest’ultimo sforzo che ruota l’esistenza di Nieve. Astaroth è stata per lei amica e madre; ed era riuscita ad arrivare laddove neppure Grimilde (la madre adottiva) si era mai spinta. Con Astaroth, perfino più che con Emma (la primissima amica che abbia mai avuto), Nieve si è completamente lasciata andare e, nel farlo, si è concessa il lusso di sperimentare, capire, imparare, amare. Il periodo di amicizia con Astaroth è senza ombra di dubbio il più felice che Nieve abbia mai vissuto ed è il periodo in cui è cresciuta di più. Se dovessi immaginare di utilizzare una sola parola per descrivere la Nieve della fase con Astaroth, opterei per “disarmata”. Non c’è mai stato un momento in cui abbia immaginato di poterla perdere. Per questo, l’idea — che per lei è certezza — che Astaroth l’abbia tradita risulta annichilente. Così, passa dall’essere disarmata all’essere devastata: non tanto per il tradimento in sé — avrebbe trovato la forza di perdonarla, se solo Astaroth le avesse ripetuto a sufficienza una giustificazione qualsiasi — quanto perché sente di non averla mai avuta e tanto basta perché impazzisca di dolore (può davvero essersi immagina tutto del loro rapporto?). E il solo modo che conosca di reagire a questo dolore è nasconderlo sotto uno spesso tappeto di rabbia, intemperanza e parziale isolamento.
Il tema del panismo che domina la poesia, rapportato a Nieve, diventa un far pace — fosse anche per questo singolo episodio — con la parte di sé che non sa di ripugnare: quella che anela disperatamente al contatto umano; quella che cerca negli altri l’accettazione; soprattutto, quella che s’è legata in modo tanto viscerale ad Astaroth da non vederne i presunti inganni, da — come direbbe lei — “ignorare tutti i segnali”.
In quest’ottica, il panismo diventa un ricongiungimento di Nieve con la sua natura attraverso la natura (Ermione), che ha sempre giocato un ruolo centrale nell’infanzia del PG tra le altre cose.
Per riuscirci, ho evocato molti punti salienti dell’emotività di Nieve come orfana, rifacendomi al timore del rifiuto, al trauma dell’abbandono, alla centralità che riveste nella sua vita la ricerca della figura materna, alla difficoltà di confrontarsi con la possibilità che le sue certezze vengano messe in discussione (come tutti i bambini vittime di abbandono genitoriale, unilaterale o bilaterale che sia, ha imparato a legarsi a pochi punti cardine — che possono riguardare il suo comportamento, il suo aspetto, i suoi sentimenti — ed è così aggrappata ad essi da imbizzarrirsi quando qualcuno minaccia una rivisitazione; questo la fa apparire capricciosa e incostante, cosa che è senz’altro, ma più di tutto è terrorizzata).
Ciononostante, nel corso della prova Nieve procede su un duplice piano, che la vede ora soggetto attivo ora soggetto passivo della trasfigurazione: trasforma la radura in cui si trova perché diventi una vera foresta, simile a quelle dei suoi ricordi; e si lascia trasformare dall’incontro con Ermione, lascia che Ermione la veda e, contro ogni proposito di non legarsi più a qualcuno come ha fatto con Astaroth, rimane e le consente di vederla, anziché fuggire. E per un attimo — uno soltanto — si concede il lusso di una tregua con sé stessa.
Le emozioni, in fondo, non sono che la più grande forma di Trasfigurazione a noi accessibile.


Edited by ~ Nieve Rigos - 15/6/2019, 18:47
 
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Nieve Rigos
16 Anni
Mese di Maggio, III anno.
Segue: Rima di un'altra estate




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Oh, hush! My dear, it’s been a difficult year…

Estrasse la chiave dalla toppa.
Lo stridore del contatto — ferro su ferro — celò il suo sospiro.
Strinse l’oggetto bitorzoluto più forte tra le dita sottili: era freddo — intiepidito a stento dal poco calore corporeo che era riuscita a infondergli — e disarmonico nelle forme. Non condivideva il profilo aggraziato della donna cui era brevemente appartenuto l’ufficio nel quale si trovava, per dirne una. E, pur tuttavia, l’aveva servita al meglio delle sue possibilità, soddisfacendola.
A palpebre chiuse, Nieve serrò le labbra tra loro finché non si risolse a morsicare quello inferiore. Aveva un nodo spesso incastrato sul fondo della gola. I battiti scellerati del suo cuore sembravano incalzare con l’obiettivo di spingerlo in superficie. Deglutì e si schiarì la voce, piano; ne venne fuori un rantolo.
Non avrebbe dovuto essere lì. Non aveva nessuna autorizzazione che le consentisse di stanziare nell’ufficio di Astaroth, come non aveva esimenti che potessero scagionarla dal piano architettato per allontanare Gazza dal bugigattolo che usava come quartier generale della sua mediocre esistenza. Gliel’aveva scossa, quell’esistenza tanto ordinaria, con un messaggio fittizio circa l’avvenuto rapimento della sua gatta e la minaccia di metterne a repentaglio la vita con qualche pasticca di Zonko. Era un bluff chiaramente, vile quanto bastava a spingerlo fuori dallo stanzino senza che avesse cura di sigillarlo. E, per spregevole che si fosse affermato, aveva funzionato. Il mantello della disillusione l’aveva aiutata a compiere il resto, consentendole di sgraffignare il solo oggetto dell’intero arsenale di sequestri che avesse una valenza per lei.
Avrebbe fatto i conti con la propria crudeltà in seguito, davanti all’immagine del Cristo crocifisso.

... Trust me, darling!
Trust me, darling!

La consistenza dura del metallo, premendo sulle falangi ossute, acuì brevemente il tremore che le scuoteva il corpo e glielo rese intollerabile.
Immersa nella quiete irreale di ciò che rimaneva dello studio di Astaroth, con l’odore pungente della polvere a pizzicarne le narici, Nieve schiuse la bocca — quattro solchi profondi segnavano il punto in cui i denti avevano inciso la pelle — e inspirò. Alzò il braccio per coprirsi il volto quando il tentativo di trovare conforto nell’aria le diede la certezza di aver perduto anche quella battaglia.
Il cuore aveva avuto la meglio, infine: il nodo si era arrampicato lungo le pareti della sua gola e si era sciolto fino a diventare un singhiozzo.
Una schiera di lacrime ne seguì la scia, come soldati in marcia verso il campo di battaglia che non sappiano resistere al fischio della tromba, o al rullo dei tamburi; all’odore acre del sangue da versare.
Nieve si lasciò scivolare lungo la superficie della porta e si accasciò sul pavimento, incapace di aprire gli occhi. Dei timori che le opprimevano anima e corpo, si combattevano sul medesimo fronte il terrore di trovare lo studio esattamente come l’aveva lasciato l’ultima volta che vi era stata e la prospettiva che quello stesso ambiente vivesse oramai soltanto nei suoi ricordi.
Raccolse le gambe al petto, chinò il capo e poggiò la fronte sulle ginocchia. Gli incisivi tornarono a insistere sui solchi che avevano creato, aggrappandosi alla carne mentre lo spirito si disfaceva.
Il freddo desolato della stanza le sfiorò le cosce oltre l’orlo della gonna spiegazzata.

It's been a loveless year...

D'un tratto schiuse le palpebre, mossa dall’irrazionale desiderio di mettere fine al pianto, ma lo stratagemma la deluse.
La stanza le presentò il solo conto che non si fosse aspettata di pagare, mostrandosi sotto sembianze che non aveva paventato.
Fino a quel momento, l’aveva angosciata la prospettiva di trovare tutto e l’aveva angosciata la prospettiva di non trovare nulla, lì dove si era concessa il lusso della felicità che le era stata negata da piccina. La trovò, invece, la combinazione dell’una e dell’altra: lo studio conservava pochissimi pezzi di mobilio, i soli che Astaroth avesse deciso di lasciarsi alle spalle al momento delle dimissioni o più probabilmente, si disse, i soli forniti dalla scuola che fosse riuscita a combinare col suo gusto.
Bastarono comunque a ricordargliela.
Nieve congiunse le mani davanti la bocca, deformata dalla forza di gravità. Il vuoto della stanza la osservò strizzare gli occhi e contrarsi tutta nello sforzo di trattenere un’altra terribile ondata di pianto. Da dove veniva tutto quel dolore e perché non riusciva a confinarlo?, si domandò nell’atto disperato di cercare una soluzione che le restituisse un po’ di pace. Allora, scaraventò la chiave lontano e ripescò dallo stipo delle esperienze più recenti la sensazione provata in compagnia di Ermione.
La odiava, adesso, Ermione.
Era stato il loro incontro a indurla a infiltrarsi nell'ufficio, affamando il frammento di sé che aveva ignorato per mesi. Improvvisamente, l’aveva divorata il bisogno di sentirsi vicina ad Astaroth come se il tempo e la vita non fossero mai scorsi contro di loro; come se le vicende non avessero drammaticamente plasmato due esistenze così opposte, spingendole dapprima vicine e infine lontane.
Il tifo di chi credeva in lei, gli abbracci dei Grifondoro e i festeggiamenti in Sala Comune — Casey aveva quasi raso al suolo il salottino che condividevano tutti, letteralmente —, il regalo di nonno Gaspare, i brindisi di Grimilde e Julian, i baci di nonna Lucrezia: nulla era riuscito a impedire che quell’unica esigenza prendesse possesso del suo animo e annullasse tutto il resto.
Astaroth era sempre stata la prima con la quale avesse desiderato condividere i suoi successi, i suoi pensieri, le sue emozioni.
Ma non c’era più, non per lei almeno.

... Trust me, darling!
Trust me, darling!

Poggiò il capo contro le assi alle sue spalle.
Due lacrime discesero lungo le tempie bagnate e s’insinuarono tra i capelli.
Fissò l'attenzione sul soffitto. Tre enormi fasci di luce argentea attraversavano la stanza, abbattendosi sulla parete dirimpetto — realizzò di essere nella traiettoria del primo fin quasi a percepirne il tocco. Aveva trascorso in quello spazio più notti di quante fosse dato contarne. Se chiudeva gli occhi, era perfino in grado di sentire il suono della sua risata mescersi a quella di Astaroth; il sapore acidulo del vino elfico o quello più forte della grappa stordirle la lingua; il suono di un disco in un idioma a lei sconosciuto farle ondeggiare il capo abbastanza da facilitare l’obnubilamento dato dall’alcol; la sensazione di pace data dal condividere il tempo con l’altra, dall’averla semplicemente nella propria vita.
Facendo scorrere l’attenzione lungo l’ufficio, ne ricostruì mentalmente le linee. Partì dalle poltrone in velluto sulle quali era collassata in preda all’ebbrezza; proseguì con il pianoforte a coda e la piccola serra personale della quale Astaroth si era presa cura come si era presa cura di lei; aggiunse il grammofono e l’angolo bar, infine il parquet. Solo quando levò lo sguardo sul soffitto, aggiunse il dettaglio della riproduzione che aveva accompagnato le sue riflessioni a naso all’insù — di tanto in tanto, la Morgenstern si era presa la briga di spiegarle la peculiarità di un’illustrazione nella speranza di suscitare la sua passione per l’arte, invano.
Aveva rovinato tutto.
Si domandò se quell’accusa fosse rivolta alla donna che le aveva fatto da mentore e alla quale aveva imputato un tradimento imperdonabile, perpetrato per le attenzioni e l’amicizia di un uomo che odiava; ovvero se l’avesse appena indirizzata a sé stessa.
Si alzò lentamente nel timore di frangersi, il mantello della disillusione derelitto sul pavimento. Gli equilibri su cui si reggeva il suo sregolato universo le imponevano di avere cura di sé nel modo migliore che conoscesse.
Raggiunse la scala a chioccola, che conduceva al piano superiore dell’ufficio soppalcato, e sedette sul terzultimo gradino.

I wage my war on the world inside
I take my gun to the enemy's side
Oh, I’ve been asking for
Oh, I’ve been asking for problems, problems, problems…

«Ho vinto,» sussurrò, la voce arrochita dal pianto. Non era cambiato poi molto dall’ultima volta che le aveva parlato in quello stesso luogo. «La prima prova almeno,» precisò, mossa a modestia dalla parzialità del risultato che la collocava in vetta alla classifica. «E non so come io abbia fatto!» Sorrise tristemente, provocandosi un’ennesima ondata di commozione, nell'immaginare Astaroth rivolgerle quell’espressione a metà tra il rimprovero e l’esasperazione che le dominava il viso tutte le volte che osava sottovalutarsi in sua presenza. «E…» Abbassò il capo e giunse le mani. Tornò a guardare lo studio vacante e la cercò con la stessa pertinacia che usava nel non credere nelle proprie abilità — il tonfo di una lacrima assorbita dal cotone chiaro della camicia. «Non me ne importa un cazzo,» bisbigliò, interrotta sul finire da un singhiozzo. Accostò le labbra tra loro, trattenendo il respiro per serrare più forte l’ennesimo nodo che la voleva in pezzi. Fallì ancora. «E non me ne importa un cazzo per colpa tua,» proruppe, le parole storpiate dall'affanno come le spalle erano scosse dai tremori. «Perché mi rovini tutto quello che faccio e non riesco a pensare ad altro. E vorrei prenderti a pugni perché mi fai stare malissimo.» Ed era così maledettamente vero! «Ti sei presa tutto e, poi, sei andata via. Dovevi rimanere. Dovevi stare dalla mia parte. Dovevi essere tra quei cazzo di giudici e strizzarmi l’occhio quando nessuno poteva vederci.» Si asciugò le guance col dorso della mano destra nel dar voce alle immagini del Barnabus che aveva elaborato in solitaria e che non aveva avuto il coraggio di confessare ad anima viva, perché non conosceva nessuno che potesse comprenderla. Poi, allentò il cappio della cravatta e se la sfilò da sopra la testa, incapace di respirare regolarmente. «E sono anche una bugiarda di merda perché non è vero che ti odio.»

L’ammissione, più di tutto il resto, le tolse le poche difese che le erano rimaste. Aveva trattenuto quelle parole così a lungo da accrescerne la mole e renderne ricurve le estremità — le solcarono il petto, la gola, la bocca e l’anima come farebbe un aratro con la terra, segnandola.

So look me in the eyes
Tell me what you see
Perfect paradise
Tearing at the seams
I wish I could escape it
I don’t want to fake it
I wish I could erase it
Make your heart believe

«Ora, sei tu a odiarmi, vero?» Pose la domanda con l’atteggiamento infantile della bambina di sei anni che aveva cercato l’accettazione dei coetanei di Borgarbyggð. Un’altra lacrima zigzagò sulla pelle liscia del suo viso, giù fino al mento. «Mi odi.» Si concesse una risata spezzata. «E, Dio, come ti invidio! Sono io quella che è stata fottuta e non ci riesco. Ci ho provato. Li odio tutti, tutti: quell’imbecille a cui mi hai venduta, la battona sua complice, Aiden, quella stupida di Amber, i giudici del Barnabus e i fanatici che “Forza, Rigos, li batti tutti”. Odio pure quelli che mi vogliono dare una mano perché non capiscono niente. E Thalia! Odio pure lei e la sua costante preoccupazione. E l’Esercito e le reclute del cazzo. Odio tutto e tutti, ma non riesco a odiare te.» L’ingenerosità di una parte delle sue accuse le fece perdere un paio di battiti, ma non esistevano appigli che potessero salvarla da quella versione di sé. «Dio, Roth, aiutami a odiarti. Se non posso dimenticarti, aiutami a odiarti, ti supplico,» sussurrò in preghiera.

But I’m a bad liar
Bad liar
Now you know
Now you know
I’m a bad liar
Bad liar
Now you know
You’re free to go...

Una fitta all’altezza della fronte la costrinse a tacere.
L’immagine di un trafiletto di giornale, stretto tra le sue dita, si materializzò a favor di ricordo. Non riusciva a visualizzarne il contenuto; non avrebbe neppure saputo collocare temporalmente la vicenda. Erano mesi che la sua mente continuava ad agire in maniera inspiegabile, facendo cilecca a momenti alterni. L’infermiera l'aveva imputato allo stress e le aveva suggerito di rallentare il ritmo, riducendo gli impegni. Per un attimo, in controtendenza rispetto al disinteresse che aveva comunicato ad Astaroth in quella stessa stanza, la colse il timore di fallire la seconda prova del torneo per un improvviso vuoto di memoria.
Sospirò, esausta.
Viveva su una giostra di emozioni che le rendeva impossibile reggere il passo. Se osava alzare lo sguardo per puntarlo oltre il perimetro del carosello, la velocità — che confondeva le sagome tra loro, mescolandole — le dava il voltastomaco. Se pensava di staccare le mani dal cavallino sul quale si era ritrovata a prender posto, finiva per rendersi conto di come le mancasse il coraggio — il coraggio di lasciare andare Astaroth.
Si alzò.
A capo chino, si mosse per recuperare cravatta e chiave. Infine, si avvolse attorno al tessuto magico del mantello. Aveva gli occhi arrossati, l’argento dei capelli spento, l’espressione desolatamente nostalgica.

«Mi mancherai per sempre,» soffiò, solenne, l'ultima delle sue verità.
Dunque, levò l'estremità alta della cappa e si rese invisibile — come lo era il suo dolore.

Due giri di chiave nella serratura dell’ufficio vacante.
Uno nella serratura del suo cuore.

Please believe me,
Please believe me...





Edited by ~ Nieve Rigos - 18/6/2019, 00:30
 
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Nieve Rigos
Campione Grifondoro
Seconda ProvaPozioni
16 Anni
Mese di Giugno, III anno.
Segue: Serrature





Nieve Rigos non è una persona metodica. Ha, come affermerebbero molti in situazioni della stessa specie, un modo tutto suo di fare le cose. E, invero, non potrei che essere d'accordo.
A guardarla mentre affronta la seconda prova di un torneo al quale era certa di non poter partecipare, si direbbe però che, stavolta, non abbia nessuna idea circa il come fronteggiare la sfida che le è stata sottoposta. Si sarebbe tentati di concludere, in soldoni, che le sue capacità di improvvisazione si siano date alla macchia e l’abbiano lasciata in balìa di sé stessa.
Se ne sta appollaiata su uno sgabello con il mento appuntato al palmo della mano e l'espressione lievemente corrucciata. Io, che la conosco meglio di chiunque altro, posso farvi una confessione riguardo il suo stato d’animo: le girano proprio a tremila. Avrebbe pensato che l'esperienza estemporanea con Ermione, in una foresta dimenticata da Dio, fosse il peggio che le potesse capitare: ha superato la prova senza rendersene realmente conto e, a tratti, non le riesce ancora di capacitarsi del posizionamento in vetta alla classifica — sbrigativamente, com’è tipico di chi non crede troppo in sé stesso, ha decretato che la questione sia da ricondurre non tanto ai propri meriti, bensì ai demeriti degli altri.
Adesso che se ne sta in Sala Grande, però, nei pressi di una postazione preparata per l’occorrenza con tutto ciò che un appassionato di pozioni potrebbe desiderare, per paradossale che sia si trova a rimpiangere il riverbero della voce di D'Annunzio e il tocco della pioggia sulla pelle. Ora che sa esattamente cosa si aspettano che faccia, infatti, è lei a non sapere da dove diavolo partire.
Non è tanto una questione di ingredienti, badate bene. Nieve e Thalia hanno sfiorato il litigio in più di un’occasione per i ritmi serrati di studio — la Moran l'aveva letteralmente sfinita.

«Il Barnabus nasce come una competizione eccezionale, che richiede sforzi eccezionali, fatta per gente eccezionale. Non sarà come andare a lezione da White. Lì, le pozioni e gli ingredienti sono non solo dosati, ma calcolati e valutati in base alle capacità del mago. Nessuno vuole che tu faccia più di quello che ci si aspetta da uno studente del tuo anno. Qui, è esattamente il contrario. Dovrai strafare. Come hai intenzione di affrontare la prova senza conoscere adeguatamente le basi e, per basi, intendo gli ingredienti?»
«Assaggerò.»
Ma è chiaro a tutti che l'obiezione di Nieve fosse sciocca e blanda ab origine; un disperato tentativo di vincere un confronto verbale che l'aveva già per sconfitta.

Mentre controlla per l’ennesima volta ciò che ha a disposizione e si lascia scappare un sospiro, è evidente che si stia appuntando mentalmente di ringraziare l'amica a tempo debito. Solo che... nel presente non importa che conosca nomi, effetti e proprietà delle sostanze che le hanno fornito; non se non ha la benché minima idea della forma da attribuirgli. E sono già trascorsi dieci lunghissimi minuti da quando le porte del salone sono state chiuse alle loro spalle e i giudici hanno decretato l’inizio della seconda fase del torneo.
Un gracidio gutturale ne cattura l’attenzione, strappandole un sorriso: i suoi occhi incrociano la sagoma bitorzoluta e tutto fuorché aggraziata che ha trovato il modo di imbucarsi e sbirciare gli sforzi dei campioni di Grifondoro, Corvonero e Serpeverde. Si domanda se non sia la bestiola di Hook, la matricola pasticciona che, mesi prima, ha urlato di disperazione in Sala Comune nella convinzione di aver arrostito il proprio rospo. Nieve gli fa ciao ciao con la mano libera, prima di tornare a soffermarsi sulla figura di Black.
La padronanza con cui si muove le fa capire immediatamente quanto l’altro sia nel suo elemento e tanto basta a che una morsa le prenda lo stomaco e glielo stritoli. Lo detesta in questo preciso momento; le urta il sistema nervoso. La gestualità sicura, il piglio concentrato, la posa perfetta, perfino i capelli serici glielo rendono odioso come mai fino ad ora. Inarcando un sopracciglio, conviene naturalmente di trovarlo molto simile al Midnight e, incurante di perdere altro preziosissimo tempo, esegue un confronto mentale tra i due. Come ha fatto a non pensarci prima? Certo che William è il suo campione, il suo pupillo. D'un tratto, l'interazione nell'Ufficio Vuoto acquista sfumature tutte nuove e Nieve rimane attonita di fronte a un quesito oltraggioso nella sua essenza. Poggia entrambe le mani sul bancone, si fa di poco indietro sullo sgabello e si concede un’espressione sconvolta: davvero ha flirtato con una copia in miniatura di Dorian? Perfino i cognomi, a ben rifletterci, si determinano per una certa armonia combinatoria… Black e Midnight.
La bocca si inclina naturalmente verso il basso e gli occhi si spalancano. È sgomenta, attonita, impietrita e non è neppure il momento più propizio per esserlo. Lasciando saettare lo sguardo da una pietra all'altra del pavimento, prova ad analizzare la situazione da ogni angolazione possibile per smentire la conclusione che ha appena tratto, ma il turbamento le impedisce di mettere ordine tra i pensieri. Non ha neppure il coraggio di levare gli occhi sul quartetto di giudici che sta al tavolo dei docenti: avere la conferma di quanto i due si somiglino potrebbe strapparle un urlo e un lancio acrobatico giù da una delle torri del castello. Adocchia i funghi di Psilocibina e considera la possibilità di ficcarsene uno intero in bocca perché l'allucinazione la salvi. Ed è un bene che si trattenga dal procedere perché è proprio in quel momento che l'illuminazione — o epifania, o rivelazione, che dir si voglia — la raggiunge.
Sono trascorsi 15 minuti dall'istante in cui lo scatto della serratura li ha isolati dal resto della scolaresca.

Scoprirete presto che il ragionamento di Nieve ha una sua sorprendente linearità, se si compie lo sforzo di penetrare il meccanismo razionale di casa Rigos.
Nel frattempo che le considerazioni al sapore di rimbrotto si rincorrono furiosamente nel suo cervello, un’esigenza di fondo emerge dal basso e la induce a forzarsi per arrivare all’eureka. Ha bisogno di alzare lo sguardo e farlo correre da William a Dorian per capire se la sua deduzione abbia senso. E, pur controvoglia, infine procede. Scopre, così, non solo di trovare una certa corrispondenza fisica tra i due, ma di poter perfino assimilare i modi dell’uno a quelli dell’altro. Strabuzza gli occhi una volta di più — perché non è mai abbastanza quando si diventa la vittima infelice degli scherzi del Destino — ed ogni incastro ha così maledettamente senso che non sa se sentirsi più nauseata o grata. Spedisce in una zona d'ombra della sua psiche le valutazioni eminentemente personali che etichettano come censurabile la condotta tenuta settimane addietro e si allaccia stretta al solo elemento che abbia rilevanza.
Dorian e William sono due bulli e, per giunta, della peggior specie. E se esistesse un modo per contrastarli? O, meglio, se fosse lei a inventarlo?

La sua elasticità mentale le fa il dono della pace. L’agitazione prende ad affiochirsi di fronte alla certezza di aver trovato una soluzione al suo problema col Barnabus — ancora una volta, la pratica ha le meglio sulla teoria, il reale sull’iperuranio delle congetture. E un sorriso monello le tira su gli angoli della bocca.
Piuma e pergamena alla mano, Nieve redige una manciata di appunti affinché non sia il caos a dominare i suoi gesti. Non ha idea di come se la stiano passando gli altri, ma sa con assoluta certezza che il rischio di commettere un errore sia altissimo per lei, che ha in dotazione due sostanze variamente psicotrope come la Tacca Chantrieri e la Psilocibina. E l’obiettivo che si è appena prefissa è, insieme, meno grossolano e più ambizioso del solito. Non che Nieve possa stare troppo lì a perdersi in quisquilie. Sarebbe perfetto, considerata la sopraffina arte che muove alla base della materia oggetto della prova in corso. Ma lei assume un atteggiamento sui generis quando si tratta di pozionistica — e non solo, mi verrebbe da dire — e negli anni è riuscita a dare un senso a un modus operandi che, per molti, non ne avrebbe alcuno.
Aggiungerei per completezza che questo fantomatico modus operandi sia dato da una buona miscela di istinto e capacità di adattamento. In buona sostanza, la Rigos possiede quella capacità innata di muoversi secondo una logica tutta sua e di dominarla abbastanza da rendere intelligibile il risultato agli altri: un po’ come quei geni provetti che seguono le regole canoniche quanto basta a tracciare il sentiero e che poi, lungo la via, decidono di fare un po’ il Troll che gli pare. Il fatto che il loro approccio strabordi dagli schemi soliti non è sufficiente in sé stesso a metterne in discussione la validità, insomma. O, almeno, è quello che ci auguriamo in questa fase del torneo.
Ora, per rimanere su questa scia, tracciata l’ultima di una rapida serie di annotazioni, i più sentirebbero il bisogno di mettersi immediatamente all’opera. Sono trascorsi altri cinque minuti, in fondo, e la postazione rimane ancora pressappoco immacolata. Però, è mio dovere sottolinearvi che è sempre di Nieve Rigos che stiamo parlando. Per questo, invece che allungarsi verso lo strumentario a sua disposizione, potete invece osservarla trafficare con la gonna ed estrarne un oggettucolo dalla forma stramba: a guardarlo, è praticamente impossibile capirne la destinazione d’uso. Per venirvi incontro, faccio un po’ la spia e vi dico di cosa si tratta. È un regalo che nonno Gaspare ha consegnato a Nieve il giorno dopo la comunicazione dei risultati della prima prova del Barnabus ed è letteralmente unico nel suo genere, frutto delle capacità inventive dell’uomo. È sufficiente poggiare un polpastrello al centro della piccola conca centrale ed esprimere un chiaro comando vocale perché la musica cominci a fluire ad esclusivo beneficio del proprietario.

«Celestina Warbeck. Album “Cover babbane”. Traccia numero 1. Riproduzione automatica,» sussurra Nieve, china sull’aggeggio che ha deposto in un angolo remoto del bancone. Due sfere d’aria, levandosi dallo strumento, raggiungono le orecchie della Grifondoro e ne favoriscono l’isolamento.
È tempo di entrare nella bolla.
È tempo di fare sul serio.

Un istante più tardi, Nieve ha posizionato un calderone auto-rimestante sul fornello sopraelevato e provveduto ad accendere il fuoco.
La scelta della base da cui partire è scontata; è la prima cosa che ha appuntato sul foglio di pergamena e non ha mai dubitato di dover tornare sulla propria decisione.
Dunque, Nieve lascia scorrere l'alcol etilico in un misurino, dopodiché ne versa un litro e mezzo esatto nel contenitore che ha messo a scaldare. Ricorda a sé stessa l'importanza di intimare alla pentolaccia cosa fare e come farlo, così estrae la bacchetta, dà un paio di colpi al paiolo per attivarne la magia e gli impone un movimento rotatorio in senso orario che proceda — almeno per il momento — lemme lemme.
Getta un’occhiata al liquido, incapace di trattenersi dal fare oscillare la testa a ritmo di musica com’è incapace di lasciarsi fiaccare troppo a lungo dalle aspettative della competizione. Non le importa quale arcana diavoleria stia elaborando Black — le provoca un brivido di disgusto, adesso, pensare a lui — né quale precisissimo intruglio abbia in mente Megan. Per paradosso, il suo pensiero vola a Horus com’è già accaduto decine di volte da quando ne ha appreso l’eliminazione. Avrebbe puntato sul suo arrivo in finale almeno quanto avrebbe scommesso sul proprio stralcio al primo turno e invece…
Rinfodera la bacchetta e scuote il capo per concentrarsi.
Tagliere, coltellaccio e radici di liquirizia.
Nieve inclina il capo, rapita da una valutazione di tipo quantitativo. Ripassa mentalmente ciò che intende fare e che ha appuntato alla bell’e meglio sul foglio alla sua sinistra; vi dà una scorsa per sicurezza e annuisce in segno di conferma. Mentre sminuzza con accuratezza due radici sull’apposito supporto in legno, assume un’espressione concentrata: le lascerà in infusione non meno di dieci minuti con l’obiettivo di trasmetterne le proprietà all’alcol; questo, si dice risoluta, faciliterà la risposta dell’organismo all’assorbimento della pozione e ridurrà i tempi di azione.
Il modo in cui ne ha inteso l’utilizzo, del resto, richiede prontezza per eliminare la minaccia.
Arriccia il naso, intenta com’è ad assicurarsi che la Glycyrrhiza venga triturata a dovere. L’odore pungente che si leva dal calderone suggerisce che il calore stia facendo il suo dovere. Nieve controlla il cipollotto, deposto sugli appunti con lo sportellino aperto: è l’insostituibile compagno delle sue sperimentazioni nell’aula dei sotterranei, quello che più di tutti ha seguito i suoi miglioramenti negli ultimi tre anni. Manca ancora qualche minuto al raggiungimento del punto di ebollizione e si compiace della propria scelta quasi con incredulità. Ricorrere all’alcol non soltanto preserva la purezza del composto e assicura che si mantenga di passaggio in passaggio, ma ha anche il pregio di accorciare i tempi perfino in questa primissima fase. L’acqua avrebbe richiesto almeno cinque minuti di più per bollire.
Nell’attesa che la base cominci a gorgogliare, vi faccio notare come Nieve sia un essere umano davvero curioso. Nel non credere nelle proprie abilità, non si lascia mai cogliere dal dubbio di aver commesso un errore di valutazione; e non c’è nessuna falsa modestia nel modo in cui si giudica e sminuisce. Ed è curioso, appunto, che si ostini a farlo anche di fronte a una smentita. Il suo percorso accademico in Pozioni, per dire, è costellato di successi e ha trovato il culmine proprio durante l’anno in corso di svolgimento con le ultime valutazioni del professor White. E, pur tuttavia, non le riesce proprio di non sentirsi in grado rispetto agli altri, o diversa, o addirittura di non stupirsi di fronte a un ragionamento azzeccato, a un’intuizione brillante.
Trattiene a stento uno starnuto, infastidita dalle esalazioni dell’alcol, e si affretta a raccogliere il tagliere con la sinistra e ad accostarlo al paiolo. Estrae il catalizzatore per imporre temporaneamente la stasi al calderone, poi lo incastra tra i denti per avere libere entrambe le mani. Si serve della lama del coltello per far scivolare i minuzzoli di liquirizia giù fino alla pancia del caldaio. Ha un’espressione concentratissima sui lineamenti pronunciati, tant’è che per un attimo smette di sentire la musica che si espande per i suoi timpani. Depositati gli arnesi da lavoro, dà un altro paio di ordini con la bacchetta al pentolone perché riprenda il moto di poco prima — sempre in senso orario, sempre lentamente.
Si china sulla postazione con una certa urgenza a questo punto, recupera la piuma e segna sul margine in basso a sinistra della pergamena l’orario esatto. È trascorsa mezz’ora dall’inizio della prova. Passeranno altri dieci minuti per consentire alle radici di Glycyrrhiza di sprigionare le proprietà di cui sono imbevute, si dice.
L’attenzione di Nieve vira automaticamente in direzione delle cinque bacche nere che occhieggiano in sua direzione con fare ammiccante. Le scappa una risata bassa: una volta, nella foresta ai margini di Borgarbyggð, la fame l’ha indotta ad avventarsi su un cespuglio ricolmo di piccoli frutti di un rosso scarlatto, facendola tornare a casa da Ỳma con i polpastrelli e le labbra del medesimo colore e con la lingua gonfia. Piccola ingorda, si ammonisce per scacciare l’impulso di assaggiarne una. Più saggiamente, acciuffa un paio di spessi guanti e li indossa — le calzano un po’ grandi, ma servono comunque allo scopo.
Rovista tra gli utensili alla ricerca di un mortaio e ne trova addirittura due; nella scelta tra il marmo e il granito, opta senza tentennamenti per il primo in memoria delle indicazioni della Pompadour. Lo posiziona davanti a sé — gli occhi sviano brevemente dal percorso per controllare le lancette dell’orologio — e si ferma. Sa che la Tacca Chantrieri interviene sul sistema nervoso e ne provoca la sovrastimolazione. L’ha sentita menzionare per la prima volta durante la spiegazione dell’Elisir dell’Euforia, l’anno antecedente, in riferimento proprio alla Psilocibina e alla categoria di sostanze che inficiano il funzionamento cerebrale. Sa, quindi, che vanno usate con parsimonia. E la preoccupa l’obbligo di combinarla proprio ai funghi allucinogeni.
*È tutta una questione di dosaggio. Ma cos’è che voglio ottenere?*»
Torna alla pergamena e scorre le annotazioni, ma non è abbastanza. Così, poggiati i gomiti al bancone, si costringe a trarre una profonda inspirazione e a chiudere gli occhi.
La pozione che si propone di realizzare mira a contrastare un fenomeno abietto, dolorosamente diffuso proprio tra le pareti del castello in cui vive. La forza dei bulli sta nella capacità che hanno di imporsi sugli altri, sfruttandone le debolezze. Giocano con un senso di superiorità che finisce per prevaricare — più psicologicamente che non fisicamente — le vittime al punto da impedir loro di approntare una risposta qualsiasi. E lei sa bene cosa si provi a vestire i panni di chi soccombe.
Ripescare gli episodi della sua infanzia le costa una fitta di dolore stranamente lancinante, che fa muovere rapidamente le pupille sotto le palpebre e la induce a serrare le labbra, a trattenere il respiro perfino. Mentre si costringe a guardare la carrellata di episodi che l’hanno avuta per vittima di violenza, non si accorge neppure di aver stretto le mani in due pugni; ed è un bene che indossi i guanti, altrimenti le unghie avrebbero impresso la loro forma sulla carne dei palmi in una serie profonda di mezzelune.
Quando torna al presente, una sfumatura arcigna ne domina il viso e Nieve scatta in posizione eretta. Adesso, sa perfettamente cosa vuole causare al nemico, quale che siano le sue sembianze. Recupera due bacche di Tacca, come da appunti, e le posiziona al centro del mortaio. Si costringe a schiacciare con cautela per impedire che la rabbia si trasformi in violenza e che la violenza alteri le proprietà dei frutti.
Se era il delirio di onnipotenza che cercavano i bulli, il delirio di onnipotenza gli avrebbe dato.
Si arresta solo quando è soddisfatta dell’amalgama che è venuta fuori e le scappa una smorfia che sa di rivalsa. Il cipollotto, ticchettando, le ricorda che mancano solo due minuti al termine del tempo di infusione della liquirizia e Nieve annuisce come se l’orologio potesse comprenderla.
Un passo a sinistra ed è di nuovo di fronte al tagliere, ma stavolta sono tre funghi di Psilocibina ad attendere che gli dia il benservito. Si sistema i guanti, afferra un coltello pulito e procede allo sminuzzamento. È contenta di non averli mangiati all’inizio della prova in preda alla disperazione, adesso che le preme giocare sui contrasti della distorsione. Eppure…
… eppure la coglie di nuovo il timore di esagerare, di perdere il controllo sulla sua creazione. Inserire entrambi gli ingredienti nell’alcol imbevuto di liquirizia rischia di accentuare esponenzialmente gli effetti delle sostanze psicotrope e di generare mattìa attraverso l’allucinazione. Ha bisogno di mitigare le conseguenze date dal mescolamento. L’orologio le comunica che i dieci minuti sono già passati e Nieve si rivolge rapida al calderone. È certa che le quantità siano corrette al netto dell’alcol etilico rimasto da quando l’ha messo sul fuoco — due bacche e tre funghi per 1l e 350ml circa di base liquida.
Il problema potrebbe essere dato dalla… consistenza?
Lo sguardo della Grifondoro saetta rapidamente al solo ingrediente cui non abbia prestato la dovuta attenzione fin quasi a scordarsene. Le scappa quasi da piangere per il sollievo quando agguanta delicatamente la bottiglia col succo di Horklump e trova la soluzione al suo dilemma. Ad occhio e croce, calcola, è sufficiente utilizzarne un bicchiere perché il composto attuale assuma il giusto grado di corposità: non vuole ottenere una sbobba che richieda giorni per imbeversi delle proprietà della Tacca e della Psilocibina, ma neppure correre il rischio che sia troppo liquida e che il processo si realizzi troppo in fretta.
Ancora una volta, tolti i guanti, impone al calderone di cessare il movimento rotatorio e, stavolta, ha anche cura di ridurre l’intensità della fiamma perché la cottura avvenga più dolcemente. Dopodiché, versa un bicchiere di succo di Horklump nella mistura di alcol e Glycyrrhiza e attende impaziente che l’aggiunta dia i suoi frutti. Intanto, picchietta sul bordo della pentola per assicurarsi che la mescolatura riprenda — aumenta appena il ritmo della rotazione per evitare che l’intruglio, ora viscoso, si attacchi al fondo del calderone. Solo quando il livello di densità la soddisfa — ha aggiunto 10ml di succo in più, in tal senso — versa il pestato di bacche e i funghi sminuzzati.
Arriccia il naso di nuovo e, stavolta, per due motivi. Per un verso, l’odore che promana dal composto comincia a farsi pungente, così pungente da sollecitarne la prudenza: Nieve raggiunge la zona degli utensili, si munisce di una mascherina in tessuto e se la posiziona sul viso; prende perfino un paio di occhialetti protettivi, più per assecondare il suo spirito giocoso che non nell’effettivo timore delle esalazioni. Per un altro, a voler essere onesti, quello che c’è nella pentolaccia è una poltiglia dall’aspetto disgustoso. L’aggiunta degli ultimi due ingredienti ne sta anche trasformando il colore: dal marroncino, si sta passando progressivamente al grigio.
Ha cura di segnare le tempistiche anche in questo caso, dopo aver sbarrato la linea d’attesa sovrastante. Considera quindici minuti come tempo di infusione minimo e, finalmente, si concede un attimo di pausa. Ha bisogno di riflettere e tutto quell’incalzare la sta mandando al manicomio.
Se solo si fosse messa a lavoro prima!
Così, senza rimuovere occhiali e mascherina, fa un passo indietro e si guarda intorno. Mentre torna al presente e finisce a occhieggiare involontariamente le spalle di Black, le strappa un sorriso il tempismo che sa mostrare la vita. La musica che suona nelle sue orecchie non potrebbe essere più azzeccata e, insieme, esplicativa.

7kyiyRP
{Instrumental}


La Sala Grande attorno a lei è immersa nel silenzio. Solo pochi rumori spezzano l’apparente sacralità del momento.
Non che Nieve ne abbia contezza alcuna. La voce di Celestina le impedisce di sentirsi davvero parte dell’ambiente circostante e il bisogno di evadere la spinge a rifuggire la ricerca di una conferma negli altri. Per questa ragione, quando individua un batuffolo di pelo chiarissimo oltre il vetro di una finestra, prende la decisione di incamminarsi senza porsi il problema di attirare l’attenzione, men che meno quello di poter essere osservata.

Nieve avanza in direzione di Ania col capo che muove da destra a sinistra, segnando il ritmo della canzone, e si lascia scappare un “Fuck you” cantato a voce decisamente troppo alta. Noncurante, procede a passo di danza — qui e lì un saltello sul posto e uno sculettare nemmeno troppo accennato per segnare il tempo quando lo richiede l’occorrenza. Non ha molta scelta, vi direbbe se doveste chiederglielo. Il ritornello è così irresistibilmente ballabile!
Raggiunge il davanzale della finestra sotto gli occhi blu della sua micia e le sorride oltre il tessuto che le copre naso e bocca. Ania inclina la testolina, incuriosita. Nieve prende a battere i polpastrelli sulla superficie di vetro per attirarne l’attenzione, poi sposta la mano per disegnare una traiettoria veloce che va da una parte all’altra della vetrata. Lo sguardo della bestiola segue i movimenti frenetici delle dita della Grifondoro e le membra si piegano appena in risposta all’istinto. Nel modo in cui le pupille di Ania si dilatano poco alla volta, la Rigos coglie l’avviso di un agguato imminente. Poco dopo, il corpo del felino è praticamente spalmato contro la finestra. Nel vedere le fauci impegnate nel tentativo di mordere le dita attraverso la barriera trasparente, Nieve non riesce a trattenere una risata. Se potesse, lo sa bene, Ania le assesterebbe una zampata per punirla dell’affronto di essersi presa gioco di lei.

«Ti piacerebbe la canzone che sto ascoltando,» le dice come se potesse udirla o capirla — un altro “Fuck you” canticchiato e un dondolio della testa. La luce del mattino la inonda dall’alto, inducendola a chiudere gli occhi. E, per un istante, Nieve percepisce la tensione che l’ha avviluppata nell’ultima mezz’ora allentarsi. Spalanca gli occhi che Ania è già andata via, indignatissima!, e si lega stretta all’ennesima rivelazione inattesa. Sorride, soddisfatta. «Oh-Oh! So come chiamarti — si riferisce alla pozione — e anche come servirti.»

C’è un certo grado di fierezza nel modo in cui ritorna al suo posto ed effettua un sondaggio tra gli elementi rimasti. Mancano ancora diversi minuti perché l’infusione possa dirsi completata. Così, vittima di quell’ultima intuizione capricciosa, Nieve salta subito alla conclusione del procedimento.
Accigliata, torna a perlustrare con lo sguardo la Sala Grande ed è evidente che stia cercando qualcosa nello specifico. Il sorriso che si apre sulla sua bocca è smagliante, quando individua il rospo degli inizi e comincia a correre in sua direzione. Da come agisce, si ha l’impressione che non sia del tutto consapevole di condividere lo spazio con quattro giudici del calibro dei suoi insegnanti e di un Ispettore Auror e con altri due concorrenti di tutto rispetto; né che si renda conto della difficoltà della prova. L’animale compie un paio di saltelli frettolosi in avanti, intimorito dall’irruenza di Nieve.

«Aspetta, aspetta! Sii buono,» lo supplica, inginocchiandosi sul pavimento ruvido in prossimità della parete di destra. A sua volta, è costretta a compiere un balzo per impedirgli di scappare. «Peste e corna, come sei grassoccio e viscidello!» Fatica a tenerlo fermo, ma riflette che non ha motivo di temere uno spruzzo velenoso, bardata com’è con maschera e occhialetti. «Ti giuro che non sentirai niente. Ma mi servi tantissimo!» Prova a deporlo in terra, ma il rospo tenta di sfuggirle. Si rende presto conto che l’unica alternativa a disposizione — eccezion fatta per un incantesimo di Pastoia — sia metterlo all’angolino. Si accerta che il tempo scorra ancora in suo favore, dunque recupera la posizione eretta e comincia a spingerlo col piede per facilitare l’arrivo a destinazione. «Ecco, ora non muoverti per un secondo solo.» Estrae la bacchetta e distende il braccio; descrive un movimento circolare in senso antiorario col polso, poi indirizza la punta verso il corpo della bestia. «Fèravèrto!»
Il tintinnio del vetro contro la pietra le cagiona un altro sorriso, che resiste perfino quando Nieve deposita il calice trasparente sul bancone. Anche questa è fatta e con largo anticipo sulla tabella di marcia!

Le esalazioni del calderone, pur attraverso la mascherina, riescono a strapparle uno starnuto e la pozione torna a primeggiare tra i suoi pensieri. Aumenta il ritmo della mescolatura giusto per precauzione, ma la mente sta già vagliando le mosse successive. Ha bisogno di alleviare gli effetti delle sostanze psicotrope per non rendere l’intruglio pericoloso, ma le è rimasto un solo ingrediente tra quelli assegnati per la prova e decisamente non svolge quella funzione; lo sta conservando per altro.
Per fare mente locale, decide di assicurarsi di aver seguito le indicazioni date a inizio della prova: utilizzare tutte e cinque le sostanze fornite attraverso l’estrazione a sorte. Dovrebbe esserci.
Alcol etilico, Glycyrrhiza Glabra, Tacca Chantrieri, Psilocibina, succo di Horklump e Bundin… Aspetta, ma così sono sei! Le tocca riprovare. Alcol etilico, Glycyrrhiza Glabra, Tacca Chantrieri, Psilocibina, succo di Horklum e Bundinum. Sempre sei. Qualcosa non torna!
La colpisce con un minuto di ritardo la consapevolezza degli ingredienti bonus, tra i quali ha reperito proprio l’alcol etilico. Ed è sempre tra quelli che trova ciò che cerca. Le mani procedono con sicurezza: Nieve prende alcuni frammenti di corteccia di tiglio e li dispone sulla bilancia, convenendo che 200gr siano più che sufficienti, specie se combinati con due fiori di Uncaria Tomentosa — è una fortuna che abbia studiato la Pozione Rigenerante Uncarica proprio quell’anno, sogghigna. Lega tutto insieme con uno spago sottile, eseguendo un nodo per ciascuna delle due estremità.
Ha appena terminato, quando le indicazioni contenute negli appunti e l’orologio le intimano di agire in fretta. Valuta col misurino la giusta quantità di Bundinum — 350ml per assicurarsi che la pozione torni liquida — e versa la secrezione all’interno del paiolo. Attende che l’ultimo ingrediente sciolga la viscosità del composto. A questo punto spegne il fuoco, ma non arresta la funzione rimestante del calderone per eccesso di zelo. Quando si convince finalmente di non correre alcun rischio di attaccamento, solleva in parte la pentola dal suo compito e le concede il riposo che sa di non potersi ancora permettere a sua volta.
La vista del filtro le suggerisce di affrettarsi ancora: deve eliminare i residui solidi sia per favorire la purezza della pozione, sia per impedire un ulteriore rilascio che incasini gli equilibri creati finora. Tentando un raccordo tra mente e corpo, adesso che il tempo trascorso e le energie spese cominciano a pesarle sulla gobba, Nieve fa un rapido calcolo e, tanto per cominciare, torna a indossare i guanti protettivi al fine di non scottarsi: rimuove il calderone in peltro dal fornello e lo sostituisce col compagno in argento, avendo cura di accendere il fuoco sotto per intiepidirlo; nel frammezzo, recupera un mestolo dello stesso materiale, si munisce di filtro e procede al travaso. Si muove meticolosamente per favorire il passaggio della pozione dal paiolo in peltro a quello in argento, liberando di tanto in tanto il filtro dai residui solidi per impedire che rallentino l’operazione; s’interrompe eccezionalmente solo un paio di minuti dopo aver cominciato al fine di spegnere la fiamma alla base del caldaio in argento, dopodiché riprende da dove ha iniziato. Impiega, in totale, circa cinque minuti per completare la trasfusione.
È allora che aggiunge il legaccio di tiglio e uncaria, nonché la radice di liquirizia rimasta intera.
All’ennesimo confronto con l’orologio, Nieve valuta di lasciare in infusione gli ultimi ingredienti per un arco di tempo sufficiente a estrarne le proprietà. Velocizzare appena quest’ultimo passaggio ed impedire che la freddezza del nuovo calderone smorzasse il calore della pozione è il motivo per cui ha pensato di sottoporlo brevemente all’attività del fuoco. Inoltre, si è detta, l’argento si presta a favorire l’esaltazione delle proprietà terapeutiche del tiglio e dell’uncaria, che lei ha usato con un doppio proposito: aiutare l’organismo a resistere all’effetto della pozione, controbilanciando la funzione della liquirizia; e temperare le proprietà allucinogene date al composto dalla Tacca e dalla Psilocibina.
Venti minuti fanno al caso suo.
E anche un bel sospiro.

Nieve rimuove finalmente guanti, occhialetti e mascherina — rigorosamente in quest’ordine — e spegne l’aggeggio che le ha regalato il nonno. La stupisce il ritorno a un presente così silenzioso e si sente quasi a disagio nel prendere d’un tratto consapevolezza del luogo in cui si trova e del perché. Non che l’assalga l’ansia, è chiaro. Sono davvero rare le circostanze che la spingono in quella direzione e, solitamente, hanno a che vedere con le lezioni del Midnight. In questo momento, però, è talmente spossata da renderle impossibile percepire qualsiasi cosa esuli dal perimetro della sua postazione.
Per buona misura, conoscendo i propri limiti, decide di segnare il nome della pozione sul foglio.
Infine, a poco a poco, si dedica al carrello che ha intenzione di usare per presentare il risultato dei suoi sforzi ai giudici. Un sorriso le sale alle labbra, ma la stanchezza ne smorza i toni. Ed è costretta ad arrestarsi del tutto, nel mezzo delle faccende che le preme realizzare, quando la coglie una rivelazione.
Il suo sguardo si intristisce.
L’idea relativa alla fase finale — quella che conta di mettere in atto di fronte alla giuria — le è parsa da subito originale, ma è solo col senno di poi che individua la maternità della sua intuizione. E a chi altri potrebbe essere imputata se non ad Astaroth?
Si costringe a tornare al carrello per darsi un certo tono. La stanchezza ha sempre avuto il potere di acuirne la fragilità, un po’ come il pensiero della sua mentore conserva la capacità di risucchiarle ogni stilla di benessere. Deposita il calice trasfigurato sul portavivande.
Si siede sullo sgabello col cipollotto che ticchetta in grembo. Per tirarsi su di morale, immagina di utilizzare la pozione contro il docente di Difesa e, in un certo senso, lo stratagemma funziona anche. Nella sua mente, l’immagine del Midnight terrorizzato è spassosissima — se lo figura a urlare come una donnetta isterica.
Ride piano.
Sarebbe difficile, però, pensare di convincerlo a bere un drink, riflette, come lo sarebbe spingere un bullo qualsiasi a mettere in pausa le violenze per concedersi un goccetto. Perché dovrebbero farlo? E, soprattutto, sarebbe davvero saggio muoversi in questa direzione e correre il pericolo di un sovradosaggio? Le sinapsi di Nieve tornano ad affannarsi e le sovviene in mente un’obiezione fatta molto tempo prima: le pozioni sono fenomenali, ma usarle contro un nemico in caso di bisogno è complesso senza ricorrere a qualche raggiro e, in alcuni casi, senza la dovuta parsimonia. Eppure ricorda di aver fatto buon uso della Mors Aparentis a Gerusalemme, di averla spruzzata alla proiezione del Midnight che… Ma certo! La sua pozione va spruzzata!
Ripone in tasca l’orologio e si fionda con un saltello in direzione del bancone. Tra le miriadi di fiale che le hanno messo a disposizione, deve per forza essercene una con l’estremità a stantuffo. E, in effetti, è proprio così! La posiziona accanto al fornello per non correre il rischio di dimenticarla e afferra un imbuto di piccole dimensioni. Torna a sedere solo quando si ritiene effettivamente soddisfatta.
Cinque minuti più tardi, controlla la temperatura della pozione e si compiace di trovarla tiepida.
Dieci minuti dopo, versa un mestolo di pozione nel calice, filtrandola, e lo riporta sul carrello.
Rimuove anche lo spiedino di tiglio e uncaria, nonché il bastoncino di liquirizia.
Torna al cospetto del calderone.
Munita di bacchetta, mira alla superficie del liquido nel paiolo. Esegue un movimento fluido e preciso, pronuncia una formula: lingue di fuoco blu si levano oltre i bordi del caldaio e si estinguono dopo pochi secondi. Nieve riempie la fiala di pozione — ancora una volta, attinge al filtro per assicurarsi di eliminare ogni residuo di impurità — e la sigilla accuratamente; la depone sul carrello. Ha perfino cura di prendere la radice di liquirizia intera e di riporla dentro una scodella, prima di aggiungerla agli elementi presenti sul portavivande.
Traendo un lungo respiro, si dirige verso il tavolo dei giudici col carrello a farle da apripista.
Si rende conto solo quando li ha raggiunti di quanto forte le batta il cuore.

«Ho finito,» esordisce scioccamente. «Cioè, quasi.» In effetti, il procedimento non può ancora dirsi del tutto ultimato. «Vi presento il Bully (is) Old Fashioned o, più evocativamente, Pozione Chi-La-Fa-L'Aspetti.» La sfacciataggine contrasta il turbamento, avendo la meglio. I lineamenti di Nieve si tingono di irriverenza e, finalmente, sorride all’indirizzo della giuria. «È un cocktail… cioè, un rimedio che ho elaborato pensando a una situazione specifica, che ha molto a che fare con la vita a scuola; ma, in effetti, può essere utilizzata anche più ad ampio spettro. L’idea in soldoni è questa: eliminare la minaccia di un bullo quando si ha la sventura di incontrarne uno.» Lo sguardo, che fino a quel momento è rimasto puntato sul Preside, raggiunge evocativamente Dorian per un lasso di tempo brevissimo. Poi, afferra la pergamena su cui ha segnato i dosaggi per aiutarsi nell’esposizione. «Sono arrivata a questa conclusione a partire dagli ingredienti a mia disposizione e ho provato a combinarli per evitare effetti collaterali spiacevoli, visto che avevo la Tacca Chantrieri e la Psilocibina che, ciascuna a modo proprio, incidono sul sistema nervoso.» Una pausa. Si schiarisce la voce. «Andando per gradi, ho utilizzato l’alcol etilico per avvantaggiarmi coi tempi, visto che raggiunge il punto di ebollizione prima dell’acqua, e perché ha il pregio di preservare la purezza delle sostanze di fase in fase. Al bollore, ho aggiunto due radici di Glycyrrhiza Glabra sminuzzate con l’obiettivo di rendere più rapido l’assorbimento della pozione attraverso l’aumento della pressione sanguigna; l’ultima radice, invece, l’ho usata intera e alla fine per rendere più gradevole il sapore della pozione.» Nieve indica con un gesto della mano il bicchiere. «Dal momento dell’aggiunta, ho lasciato trascorrere dieci minuti per assicurarmi che l’alcol prendesse le proprietà della liquirizia. È allo scoccare dei dieci minuti che ho sentito la necessità di servirmi del succo di Horklump: avendo non una ma ben due sostanze psicotrope, mi sono posta il problema di dosare l’intensità degli effetti una volta che le avessi amalgamate con la soluzione di alcol e liquirizia. Come potevo essere certa che non fosse troppo? Siccome non mi sentivo sicura nell’andare alla cieca, mi sono detta che addensare il composto con l’Horklump potesse rallentare il processo di assorbimento delle proprietà delle sostanze psicotrope. Quindi, ho aspettato che la pozione diventasse più viscosa e solo allora ho aggiunto il pestato di due bacche di Tacca Chantrieri e tre funghi sminuzzati di Psilobicina. Ho deciso di inserirli insieme per una ragione ben precisa e, cioè, combinarne gli effetti. L’obiettivo che voglio raggiungere con la pozione è quello di esasperare il delirio di onnipotenza dei bulli, in un primo momento, e trovo che la Tacca sia indicata visto che stimola il lavorio della mente e induce l’incubo; pressoché nell’immediato voglio che si crei un ribaltamento di ruoli. Il bullo deve percepirsi non più come il carnefice ma come la vittima e ho immaginato che l’effetto allucinogeno della Psilobicina possa arrivare a distorcere la visione delle cose di chi subisce la pozione, rafforzando l’incubo. Non sono sicura di essere riuscita praticamente a farlo, ma…» Serra un attimo le labbra, indecisa su come proseguire. Il ricordo del giorno in cui ha litigato con Astaroth le viene paradossalmente incontro, strappandole un sospiro. Leva di nuovo lo sguardo sui giudici. «Ecco, mi sono detta di voler giocare sul passaggio drastico da una sensazione all’altra. Se già è terribile di per sé sperimentare una sensazione negativa, penso che sia dieci volte peggio provarla dopo un’emozione positiva e avere l’impressione che sfugga al nostro controllo. È come cadere: se scivoli giù dal primo piano del castello, sicuramente non te la passi bene; ma se cadi dalla Torre di Divinazione…» Evita di esprimere a voce alta l’epilogo, stranamente mossa a distanza di sicurezza dall’inopportunità che le è di solito più congeniale. «Quindici minuti di infusione e ho aggiunto la secrezione diluita di Bundinum, perché onestamente il risultato dato dal succo di Horklump era una pappetta orribile. Ne ho aggiunto circa — cerca conferma nella pergamena — 350ml per far tornare la pozione quasi perfettamente liquida. Dico quasi perché…» Sbircia il contenuto del calice, sovrappensiero. Depone il foglio. <b>«[color=#A40000]Ha la consistenza del vino, appena appena corposa. Fatto questo, dopo aver filtrato la pozione per eliminare i residui e averla travasata in un calderone d’argento pre-riscaldato che mi aiutasse a estrapolare le proprietà curative degli ingredienti successivi, ho aggiunto uno spiedino composto da 200 grammi corteccia di tiglio essiccata e 2 fiori di uncaria tomentosa. Grazie per averli inseriti come bonus, a proposito, altrimenti avrei fatto una pozione di sola andata per il reparto di psichiatria! Mi sono serviti, infatti, a fornire un certo sostegno all’organismo per favorire la resistenza alla pozione e per contrastare le proprietà di Tacca e Psilocibina, che, come tutte le sostanze psicotrope, usate insieme rischiano di far danno. Ho aggiunto anche la radice di liquirizia rimasta, ma l’ho lasciata intera, come vi dicevo, solo per conferire un sapore più gradevole alla pozione. A questo punto, tolti lo spiedino e la radice di liquirizia, viene la fase più divertente.»

Gli occhi di Nieve sfiorano i bordi del bicchiere, nel cui ventre fa sfoggio la pozione: possiede un colorito tendente al nero sul fondo e sfuma in un’atipica tonalità di grigio a mano a mano che ci si avvicina alla superficie. La Rigos estrae la bacchetta, disegna una S rovesciata in posizione orizzontale con un movimento fluido e continuato e schiude le labbra.

«Lacarnum Inflamare!» Com’è già accaduto per la restante parte della pozione, il contatto tra magia e alcol genera un piccolo fuoco sulla sommità del bicchiere. Nieve sorride, imponendosi di relegare il pensiero di Astaroth lontano da sé, e stringe più forte l’elsa della bacchetta. Se l’appunta alla cintola, prima di rivolgersi nuovamente alla giuria. «In ogni caso, mi sono resa conto che pensare di somministrare la pozione a un bullo come se fosse un drink potrebbe non essere la trovata più brillante della mia carriera accademica: il rischio è di mandarlo fuori di testa se si sbaglia col dosaggio; ed è una pozione molto forte, quindi le possibilità di commettere un errore sono veramente alte. Per questo, per maggiore praticità, ho elaborato una soluzione più saggia e controllabile.» Prende la fialetta tra indice e pollice della sinistra e la mostra a chi le sta di fronte. «È una fiala con stantuffo, che permette di spruzzare la pozione invece di improvvisarsi barman. Ed è già flambata, chiaramente. Uno spruzzo sarà più che sufficiente col consiglio di agitare prima dell’uso. Ah sì! E anche di filtrarla un’ultima volta dopo la flambatura e prima di metterla nella fiala. Per il resto…» Posata la fiala, Nieve afferra la radice di liquirizia rimasta integra. Ora che l’alcol è evaporato e il fuoco si è estinto, può usarla per mescolare la pozione presente nel calice. Infine, la lascia al suo interno come si farebbe con un’oliva in un buon Martini. «… chi vuole provare?»

Nieve Rigos non è una persona metodica, ma ha chiaramente un discreto senso dell’umorismo.


Il Bully (is) Old Fashioned (o Pozione Chi-La-Fa-L’Aspetti), come ha sapientemente spiegato Nieve ai giudici, nasce dallo sforzo di contrastare un fenomeno più psicologico che non fisico: lo stato di annichilamento che si sperimenta di fronte a una persona che si impone su di noi e ci impedisce di reagire.
Il percorso logico che fa Nieve è ovviamente legato a William e Dorian e a tutto l’ambaradàn che ha messo su contro quest’ultimo. Tuttavia, trovo azzeccato immaginare che sia il contesto scolastico a favorire la strutturazione dell’idea: a scuola, più che in moltissimi altri luoghi, il bullismo trova terreno fertile per prosperare. Ed è stato naturale immaginare gli episodi che possono costellare la vita al castello e di cui non sempre i docenti hanno contezza.
Gli effetti della pozione, in particolare, giocano sulla rapidità e sul ribaltamento di ruoli: si vuole che agisca immediatamente una volta somministrata — da qui, anche l’idea dell’uso della fiala a spruzzo — e si vuole che il passaggio dall’onnipotenza del carnefice alla condizione di vittima sia così drastico e repentino da annientare la minaccia. Come diceva Nieve, infatti, il punto cardine della pozione sta proprio nello sfruttare il passaggio da una fase psicologica all’altra, esacerbando il contrasto e acuendo la sensazione di impotenza di chi, fino a un minuto prima, si riteneva invulnerabile.
Va utilizzata con estrema parsimonia — da qui l’indicazione del dosaggio in un solo spruzzo — per la presenza di sostanze che rischiano di mettere a repentaglio il funzionamento del sistema nervoso.
 
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view post Posted on 7/7/2019, 21:06
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Nieve Rigos
16 Anni
Mese di Giugno, III anno.
Segue: Chi-La-Fa-L'Aspetti (+ Pieces)



fS54vHK
La quiete regna sovrana nella stanza.
Oltre i contorni della finestra, il paesaggio è pacifico e ordinato. La sagoma di nonno Gaspare si muove da un’aiuola all’altra nell’atto della potatura — si prende cura del cortile interno con l’amore che gli vedo usare nei confronti di ciascun membro della famiglia. Ma in questo momento non lo sto guardando, né i miei occhi lo vedono.
Tengo la tenda bianca, composta di un tessuto sottilissimo, discostata dal vetro e viaggio migliaia di miglia lontano dal punto in cui mi trovo. Mi capita spesso di assentarmi di recente. Alacre, creo delle parentesi di armonia nella sfera del mio io, quando il mondo attorno mi risulta intollerabile e sento di non poterne reggere il ritmo. La distanza allevia la sensazione di impotenza che mi prende il cuore e lo trascina giù, mescolandolo alle viscere. Lo sento battere ovunque, quel muscolo strano e prepotente, perfino in posti in cui non ci si aspetterebbe di trovarlo. In compenso, non sento gli altri, che mi appaiono inutili — sagome nebulose di un’umanità dalla quale mi tengo alla larga per salvaguardare la mia.
«A cosa stai pensando?»
La voce di nonna Lucrezia, oltre il velo spesso che ho frapposto tra me e l’adesso, mi recupera e pone fine alle mie peregrinazioni. Trattengo un sospiro, infine lo lascio andare. Adesso, poco alla volta, la sfocatura sbiadisce e intravedo la figura del mio giardiniere preferito affaccendarsi attraverso la pianta quadrangolare della corte.
«All’Islanda» le rivelo e mi volto a guardarla. Si sta reggendo con le mani al tavolo della cucina e mi osserva. Vorrei dirle che ha una striscia di farina sulla guancia, ma la trovo così deliziosa che mi concedo il lusso di tacere. In compenso, gli angoli delle mie labbra si arricciano impercettibilmente — sono quasi del tutto sicura di essere l’unica a percepire quella piccola sfumatura di gioia senza che, invero, riesca ad emergere all’esterno. «E a Ỳma» aggiungo.
L’ultima informazione la stupisce. Me ne accorgo dal modo in cui i suoi lineamenti reagiscono alla rivelazione, prima che il corpo faccia loro seguito — io non parlo mai di Ỳma. Batte le mani l’una contro l’altra e si raddrizza al di là della nuvola di farina che il gesto ha sollevato all’altezza del suo grembo.
«Qualche giorno fa, chiacchieravamo in Sala Comune e una ragazza ha chiesto agli altri cosa faremmo, se potessimo tornare indietro nel tempo e cambiare qualcosa della nostra vita. Il mio primo pensiero è stato “Tornerei al giorno in cui il drago ha ucciso Ỳma e la porterei lontano per non fargliela prendere”».
C’è della menzogna nelle mie parole, come sempre accade da quando ho imparato i vantaggi della mendacità, contraddicendo ciò che pensavo di sapere di me stessa. Il mio primo pensiero è corso ad Astaroth e al modo in cui l’ho trattata, facendomi immaginare il prosieguo felice della nostra amicizia se solo avessi agito diversamente. Era troppo doloroso da guardare, però, e mi sono costretta a scacciare quelle immagini per impedirmi di piangere. Me ne sono pentita poco alla volta, a mano a mano che mi convincevo a scavare la superficie di un passato su cui non mi piace soffermarmi mai troppo. Il passato è passato, mi sono sempre detta.
«Poi, ho riflettuto che, se lo facessi, non avrei tutto quello che ho adesso. Non saprei di essere una strega. Non avrei Hogwarts. Non avrei Grimilde, Julian, Ania. Non avrei voi. Sarei ancora la ragazzina strana, cresciuta dalla pazza del villaggio, che nessuno vuole» continuo con voce sommessa, mentre ripercorro il sentiero tracciato da quelle riflessioni in concatenazione. La nonna mi sta guardando con attenzione, posso intuirlo, ma la mia mente è di nuovo lontana; ed io con lei. «E mi sono sentita una persona orribile».
Batto le palpebre per coglierne la reazione o, forse, perché troppo disturbata dalla proiezione mnemonica di me, rannicchiata nella foresta e intenta a osservare la creatura che mi avrebbe portato via il poco che avevo. So cosa deve accadere, cos’è che farò e vedrò di lì a breve — è la mia storia, del resto. E sono sicura di non volerla rivivere.
«Non la salverei per egoismo, capisci? Per non tornare ad essere povera, affamata e ignorata da tutti». La risata che mi scappa di bocca cela un fondo di isteria sicché non contagia la nonna, che non può a fare a meno di scrutarmi con serietà. Mi dico che, nonostante tutto, è bello essere ascoltati in modo tanto partecipe. Lei è una delle poche persone che riesca a farlo senza darmi l’impressione che ciò che dico sia scontato e sciocco. «Mi terrorizza così tanto la possibilità di non avere più nessuno al mondo, adesso che ho tutti voi, che la lascerei morire carbonizzata».
A questo punto, la mia voce si incrina e i miei occhi si inumidiscono. Un groviglio di emozioni sale ad annodarmi la gola. È un bene che abbia abbandonato la presa sulla tenda per fronteggiare la nonna, altrimenti temo che avrei potuto sgualcirla o addirittura strapparla. Mentre prendo fiato, mi dico che deve aver capito che la mia confessione a cuore aperto non sia ancora terminata, perché non interviene. In compenso, la vedo serrare le labbra nell’impulso di trattenere le parole. Vorrebbe consolarmi, lo so bene, e la consapevolezza del suo amore mi commuove, ma non riesce a scacciare il gelo che stanzia nel mio petto da un anno.
«Pensandoci meglio però — tiro su col naso e batto le palpebre nella speranza di disfarmi delle lacrime — mi sono resa conto che non è cambiato molto da quando ero piccola. Non sono più povera e non muoio più di fame, ma la gente continua a evitarmi. Sono… sono come quei poveretti che si vedono seduti da soli alle locande: ordinano un tè giusto per non essere scacciati, ma non sono lì per bere o mangiare. Cercano compagnia. Alzano sempre lo sguardo alla ricerca di quello degli altri nella speranza che qualcuno si avvicini, ma quelli lo abbassano perché hanno già chi aspettare. Quindi, se ne stanno lì a occupare un tavolo per due, che ha troppo spazio per una persona sola».
Non mi sono accorta di aver alzato il tono di voce, mentre le parlo del modo in cui mi sento. La candidatura al Barnabus ha portato con sé tantissime conseguenze inattese. Così io, che mi sarei aspettata di essere messa alla prova sotto il profilo accademico, mi sono riscoperta sfidata sotto quello personale. Avere tante persone intorno che pronunciano il mio nome è servito solo a rendere manifesto ciò che non ho più e il meccanismo che mi ha portato a perderlo.
«Per tanto tempo, ho pensato che la colpa fosse degli altri. Perché non sostengono il mio sguardo e non si fermano al tavolo per due chiacchiere? E perché, se lo fanno, arriva sempre il momento in cui vanno via senza portarmi con sé, lasciandomi sola con la mia tazza di tè freddo? Alla fine, ho capito». Deglutisco col cuore che batte all’impazzata. «Il problema sono io. Devo essere io».
È il pensiero più spaventoso che mi sia capitato di partorire, secondo solo al timore che Astaroth sia morta. L’incubo della scorsa notte stenta a ritirare le sue grinfie dal mio spirito e, di tanto in tanto, mi spinge a prendere piuma e calamaio con l’intenzione di scriverle. Mi abbandono a una spirale di riflessioni spaventosamente tristi solo per costringermi a non farlo, distraendo la mia mente turbata con altro turbamento. La cosa che più mi annichilisce è la domanda che proviene dalle profondità più recondite di me, tutte le volte che mi dissuado: non lo faccio perché temo che mi ignori di nuovo o perché temo di sentirmi rispondere che lo sia davvero, morta? Il dubbio mi atrofizza e mi fa mancare il respiro. Da quando ho fatto quel sogno, sono tornati gli attacchi di panico in una forma diversa rispetto a quelli che avevo da bambina, subito dopo il trasferimento a Londra. Adesso, non mi tolgono solo il senno e l’appetito: si portano via tanti piccoli pezzetti di me.
«Se tutti quanti se ne vanno, non può essere una coincidenza» le dico e la mia bocca s’inclina verso il basso, perché il pensiero che segue mi devasta. «C’è qualcosa che non va in me» statuisco, impotente. Come posso aggiustarmi, se io non so farlo e gli altri preferiscono lasciarmi? Una lacrima mi riga lo zigomo e il contatto con la pelle mi ricorda Ermione, poi Astaroth, infine Ỳma. «E io — singhiozzo — non la salverei per salvare me».
Alla fine, com’era prevedibile, mi piego.
Sono costretta a reggermi al mobile della cucina per evitare di rannicchiarmi contro il pavimento — una blanda forma di resistenza contro l’inevitabile. Le braccia della nonna arrivano a stringermi e il suo corpo a sostenermi prima che possa cedere. E io glielo lascio fare. Le consento di raccogliermi e mi aggrappo alla sua figura sacra, eterna e irrinunciabile, piangendo tutte le lacrime che ho trattenuto per il bene degli altri.
Avrei voluto piangere quando ho scoperto di aver superato la seconda prova del torneo, deludendo il mio desiderio di essere eliminata dalla competizione per non patire più gli effetti dell’altalena che spinge il mio umore su e, poi, irrimediabilmente giù. Avrei voluto piangere quando sentivo i compagni sfiorarmi e congratularsi e, invece che gioire del loro sostegno, mi sentivo pietrificare dal terrore che il secondo posto potesse averli delusi. Avrei voluto piangere quando, di ritorno da quella famosa chiacchierata in Sala Comune, mi sono guardata allo specchio del bagno e riscoprirmi smagrita nel profilo pronunciato delle anche mi ha ricordato il passato, e Ỳma, e l’ingratitudine dei miei pensieri verso di lei.
«Non c’è niente che non vada in te, bambina mia» sento la nonna sussurrare, mentre mi accarezza i capelli e la schiena.
La porta della cucina cigola, alzo gli occhi e incrocio lo sguardo allarmato di nonno Gaspare. Strizzo le palpebre per nascondermi: lo facevo anche da piccina, quando i bulletti del villaggio minacciavano di pungolarmi con i bastoni o di colpirmi a suon di sassi.
«E non c’è niente di sbagliato nell’avere paura di rimanere da soli» continua e, per qualche motivo, le sue parole mi sembrano affidabili. Pronunciate da qualsiasi altro essere umano, non sortirebbero alcun effetto su di me; ma, dette da lei, significano tutto. «Non esiste persona sulla faccia della Terra che non abbia paura di rimanere da sola. Per questo, esistono le famiglie e gli amici. Servono proprio a ricordarci che non siamo soli in questo mondo meraviglioso e terribile». Il nonno rimane in disparte e, tuttavia, non abbandona la stanza. «E tu sei splendida, non sbagliata! Ti sono solo accadute delle cose orribili, cose che io non riesco nemmeno a immaginare, e sei sopravvissuta. Merlino, hai tutto il diritto di avere paura che ti capiti ancora!»
La sua comprensione rende più tonanti i miei singhiozzi. È come un unico, infinito attacco d'ansia che non si limita a togliermi il fiato: lo spezza in più punti e gli dà un suono. Nella quiete immota della cucina, riecheggia in modo quasi disturbante a contatto col silenzio.
«Questo non fa di te una persona cattiva. Non sei stata tu a uccidere Ỳma e non hai nemmeno il potere di riportarla in vita. Non sei responsabile di niente, lo capisci?»
Stronfino gli zigomi contro il suo vestito per asciugare le lacrime che mi imperlano le ciglia e trovo conforto nella linearità del suo pensiero. Mi sono attribuita la colpa di qualcosa che non ho commesso e me la trascino dietro da giorni, almeno per quanto riguarda la mia balia. Se solo la nonna sapesse di Astaroth, però…
«E lo hai detto tu stessa che hai noi: io, il nonno, tua madre, Julian, tutti i tuoi amici di scuola. Siamo qui per te! Non ce ne siamo mai andati e non abbiamo intenzione di farlo, puoi giurarci».
La stringo più forte, scacciando le obiezioni con cui vorrei farle presente che molti sono già andati via e che altri potrebbero farlo. Non ha senso in questo momento. Il punto non è mai stato ottenere una rassicurazione permanente, perché so che nessuno potrebbe darmene. Il punto è che non ce n’è mai stato uno, quando ho deciso di fare un salto a casa dopo una rapida commissione in centro.
Sento il profumo del nonno prima ancora che il suo abbraccio rinsaldi il nostro. Mi lascia un bacio sulla fiumana d’argento che porto scompigliata sulle spalle ossute per mascherare il mio dimagrimento. Il tocco dei suoi polpastrelli lungo tutta la spina dorsale mi ricorda i primi anni da bambina adottata: nell’anticamera dello studio dello psicologo, mi teneva sempre seduta sulle sue ginocchia e muoveva ritmicamente le mani dalle scapole in giù e, poi, ancora su per tranquillizzarmi.
“Tu non puoi entrare?” gli chiedevo col mio inglese risicato, torturandomi le mani.
“No, ma tu sta’ tranquilla. Non vuole farti del male. Vuole solo aiutarti a stare meglio!”
“E come?” non potevo fare a meno di domandare tutte le sante volte.
“Non lo so davvero come faccia, ma ci riesce sempre” lo sentivo rispondermi, paziente. Era la prima parte di una frase più lunga, un piccolo patto tenuto nascosto a Grimilde, che si affannava tra lavoro e scartoffie burocratiche. “E quando avrai finito…”
“La cioccolata calda!!!”
Sospiro, svuotata ed esausta. L’abbraccio dei nonni è uno dei pochi che non mi faccia ripensare ad Astaroth. Ha un calore ineguagliabile, che lo rende immune al peso della comparazione.
«Scusatemi» dico loro come ho fatto con Ermione. «È solo che il torneo, gli esami, i compiti: è tutto… troppo».
In parte, solo in parte, è davvero così.
«Lo sappiamo. E tu stai andando alla grande, pulcinella di mare» mi rincuora il nonno e io non posso fare a meno di ridere. Mi chiamava sempre così da bambina. «E sai che altro?» So già cosa sta per propormi. Mi discosto dal corpo della nonna e li guardo entrambi. Dal modo in cui mi osservano, capisco di aver suscitato in loro una preoccupazione equivalente a quella dei primi tempi della nostra conoscenza. Ho il viso smunto, gli occhi grandi arrossati dal pianto e l’espressione triste di chi è tanto, davvero tanto fragile. «Ho proprio voglia di un po’ di cioccolata».
«Non fa troppo caldo?» gli faccio notare, ma anche in questo caso conosco la risposta.
«Non fa mai troppo caldo per la cioccolata di tuo nonno».
E ha ragione lui, come sempre.
Quando, pochi minuti dopo, l’odore di cacao sprigiona dal pentolino sul fornello, qualcosa nel mio stomaco comincia a scalpitare come non faceva da giorni, forse da settimane. Non mi rendo conto di smaniare nell’attesa di gustare la cioccolata, finché non la osservo colare nella tazza e levitare fino al tavolo. Faccio per sedermi, ma il nonno mi trattiene.
«No, no» mi dice e, stavolta, non capisco. Lo osservo prendere posto e battere i palmi sulle cosce in un chiaro invito. «Una tradizione va rispettata come si deve».
Non obietto alcunché e lo assecondo, lievemente imbarazzata. È più complesso del previsto trovare una posizione comoda sulle sue gambe, adesso che ho il doppio degli anni e della mole, ma non impossibile. Gli faccio passare un braccio intorno al collo e, con l’altra, prendo la tazza.
«Soffia prima di bere» mi dice come quando ero uno scricciolo deforme e mi strappa una risata non meno infantile.
Alzo lo sguardo per incrociare quello della nonna, seduta sulla destra, che mi sorride di rimando. Poi, continuo e mi soffermo sul tavolo nella sua interezza. C’è posto per altre persone, almeno altre tre, rifletto. Soprattutto, e stavolta ne sono sicura, c’è posto anche per me.






Edited by ~ Nieve Rigos - 8/7/2019, 14:41
 
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view post Posted on 10/12/2019, 22:30
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entropia.

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Nieve Rigos
16 Anni
Fine III anno, inizio IV anno (ipoteticamente)
Segue: Table for Two
Note: Kurt è un png Grifondoro del sesto anno che mi sono divertita a inserire nel background di Nieve qualche tempo fa. Era giunto il tempo di sviscerare la cosa.




ciNrIjO

This ain’t for the best
My reputation’s never been worse, so
You must like me for me
We can’t make
Any promises now, can we, babe?
But you can make me a drink


Vivere nei panni di Nieve Rigos, in quel particolare periodo della sua vita, richiedeva uno sforzo non di poco conto; e non era certo cosa da tutti.
Coi gomiti appuntati sul bancone e il viso adagiato sui palmi, se ne stava seduta su uno sgabello dei Tre Manici di Scopa con espressione assorta. I capelli d’argento ricadevano dolcemente sulle spalle ossute, facendo a botte col nero del maglioncino nel quale si era avvolta. Nel caos moderato del locale, la cui quiete era favorita dall’approssimarsi della sera, ricordava uno spiritello insoddisfatto al quale avessero impedito di compiere una monelleria.
«Alla faccia del broncio, Rigos!»
La considerazione la raggiunse al rallentatore, penetrando gli strati di torpore che si era imposta di indossare per isolarsi dall’esterno. Levò lo sguardo sul garzone che la osservava di sottecchi nell’atto di tergere un boccale — aveva le mani troppo grandi per riuscire a raccogliere le goccioline d’acqua sul fondo; notarlo le strappò una smorfia che ricordava alla lontana un sorriso.
«Brutta giornata?» continuò quello, disinvoltamente.
Il sopracciglio destro di Nieve scattò in alto, conferendole un atteggiamento canzonatorio.
«“Brutto anno” sarebbe più appropriato» rispose, abbozzando un ghigno. Poi, il ricordo di quanto accaduto la sera prima tornò a farle visita e il baluginìo che ne aveva acceso gli occhi si spense. «Hai intenzione di infierire?» domandò con lo spaurimento di un animale in attesa dell’impietosa punizione del padrone.
Kurt, per parte sua, le servì un paziente diniego.
«Per niente al mondo!» La giovialità che emanava da lui indusse Nieve a rilassarsi, solo un pochino. Così, inclinò il capo e, nel movimento, i tratti del suo viso acquistarono una vena interrogativa. Il Grifondoro depose il bicchiere, posizionò lo straccio sulla spalla, incrociò le braccia e assunse un’espressione pensosa, dopodiché decretò: «È che l’ho trovato molto eccitante! Tutti gli uomini sognano di vedere due ragazze fare a botte.»
La risata che abbandonò la bocca di Nieve risuonò per il locale, risalendo su per il petto attraverso i drappi della malinconia, del senso di colpa e dell’incredulità acciocché avesse a farsi suono. Era trascorso talmente tanto tempo dall’ultima volta che si era accordata un simile lusso da aver temuto di non esserne più in grado, non come prima. La Nieve del passato, d’altro canto, non avrebbe mai aggredito in quel modo una compagna.
L’indice salì a raccogliere una lacrima sul limitare delle palpebre, dunque la Rigos scosse il capo e tornò a stringersi nelle spalle. Mentre rivedeva la proiezione di sé afferrare per il collo una coetanea al termine di uno sciocco diverbio e spingerla contro la parete della Sala Comune, si persuase della scorrettezza della propria condotta: la disonorava quasi quanto l’azione di cui si era resa responsabile il fatto che, a posteriori, fosse così propensa a prenderla alla leggera. Se ne rammaricò.
«Non è niente» le venne incontro la voce di Kurt. Nei pochi istanti che Nieve aveva impiegato a giudicarsi impietosamente, il ragazzo le si era fatto vicino per quel che il bancone consentiva. Adesso, le stava di fronte. «Non è successo niente di irreparabile. Tutti abbiamo fatto delle cazzate! Io ne faccio di continuo.»
Con gli occhi fissi sulle venature del legno consumato dal succedersi degli avventori, la Rigos ripercorse ancora una volta le fasi dell’aggressione e quelle che erano seguite: aveva trascorso la notte in lacrime, chiusa nel bagno del dormitorio, con l’impressione di essere divenuta ciò che si era ripromessa di non impersonare mai — il carnefice nella storia di qualcun altro.
«Pare che, di recente, io ne faccia più degli altri» bisbigliò mestamente. I sussurri sul suo conto, negli ultimi tempi, si erano fatti insistenti con la visibilità dovuta al torneo: le maniere, la perdita di peso, le storielle clandestine… Diede una scrollata di spalle, simulando una noncuranza che non le apparteneva. «A voler essere onesti, è sempre stato così. Nieve Rigos: ilmosssrodisastro ambulante.»
Il sorriso che le salì alla labbra mutuò le sfumature dell’amarezza e le usò per ingioiellarsi.
«C’è qualcosa che posso fare per tirarti su il morale? Se Madama Rosmerta ti vede con quel faccino triste, penserà che io sia un garzone terribile e mi licenzierà» le disse, ammiccando scanzonatamente.
Nieve si concesse un lungo, profondo sospiro.
«Preparami un drink!»

Is it cool that I said all that?
Is it chill that you’re in my head?
‘Cause I know that it’s delicate
Is it cool that I said all that?
Is it too soon to do this yet?
‘Cause I know that it’s delicate
Isn’t it? Isn’t it? Isn’t it? Isn’t it?
Isn’t it? Isn’t it? Isn’t it? Isn’t it?
Delicate


Solo allora erano diventati amici, Nieve e Kurt, oltre il perimetro del castello che li voleva giust’appena compagni. Era stato proprio tra le mura della fortezza, però, che l’amicizia aveva assunto contorni differenti, procedendo col passo felpato di un ladruncolo qualsiasi. La realizzazione, d’altro canto, aveva richiesto qualche sforzo in più in ossequio alla cocciutaggine da citrulla che contraddistingueva la Rigos.
Era iniziato tutto con un fastidio sottile all’altezza del diaframma: tutte le volte che una ragazza s’intratteneva con Kurt più del dovuto, le montava addosso una sensazione di acredine tale da far concorrenza per intensità solo alla stizza che provava in presenza del Midnight. Così, le capitava di arrabbiarsi d’improvviso senza capirne il motivo — arrabbiarsi con lui, ovviamente. Attinta dal pungiglione della gelosia, esibiva l’espressione più accigliata del suo repertorio, borbottava una giustificazione qualsiasi sulla necessità di filarsela e spariva a passo di marcia nella direzione che l’avrebbe portata a miglia di distanza dall’odiosa creatura che inveleniva il suo centro delle emozioni.
Non lo avrebbe mai più rivisto.
Non gli avrebbe mai più rivolto la parola.
E non si sarebbe neppure mai più azzardata a salutarlo, nossignora.
Dei perché e dei percome di tutta quella rabbia, le importava assai poco.
Il sospetto l’aveva pungolata un giorno che, seduta a un tavolino della Sala Comune in compagnia dell’amico, così vicina al vetro della finestra a ogiva da poter osservare il proprio respiro farsi condensa, aveva appreso di essere arrivata troppo tardi. Capo chino e naso rivolto verso una pergamena, Kurt aveva pronunciato una frase sconnessa sulla necessità di programmare una vacanza estiva a casa della fidanzata, salvo poi lanciarsi in un unico flusso di coscienza che illustrava il suo odio per le presentazioni ufficiali.
Il cuore di Nieve aveva subìto un improvviso arresto — freeze!
La Rigos aveva strabuzzato gli occhi, che in quel momento teneva fissi sulle variazioni aeree di una civetta, e trattenuto il respiro. Dunque, era seguita una rapida impennata dei battiti cardiaci. Un attimo più tardi, era scappata oltre il ritratto della Signora Grassa e si era gettata a precipizio giù per le scale.

Nella quiete statica del salottino dei Grifondoro, Nieve sollevò lo sguardo dal libro che aveva finto di leggere nell’ultima mezz’ora e lo posò su Kurt. Immerso nella beatitudine dei sogni, se ne stava stravaccato sul divano con la cravatta allentata attorno al collo e i primi bottoni della camicia slegati. Distanziandosi dalla poltrona che aveva occupato per non disturbarlo, la Rigos raggiunse il punto in cui l’altro sonnecchiava e si chinò sulle ginocchia, rivolgendogli un sorriso inconsapevole.
Infine, non soltanto si era concessa il lusso di ammettere a voce alta — Thalia ne era testimone — quali fossero i suoi veri sentimenti, ma era perfino scesa a patti col fatto che Kurt avesse un’altra. Risoluta a evitare l’argomento il più possibile, gestiva la sua cotta nel solo modo che le risultasse possibile: vivendola così come veniva, giorno dopo giorno, e dandosi alle fantasticherie per godere del privilegio di non doverlo condividere con nessuna.
Non gli aveva domandato delle vacanze, né aveva mai indagato sull’identità dell’altra, e non per una forma di disinteresse. Si trattava, piuttosto, di uno sforzo di preservazione: ogniqualvolta una menzione alla faccenda sbocciava tra le pieghe del discorso o intuiva di un incontro tra i due, le accadeva di sperimentare una sensazione di tale malumore da renderle impossibile la capacità di pensiero. Così, volutamente ignara, Nieve si cullava nell’illusione che la fidanzata di Kurt non esistesse senza aver ancora trovato il coraggio di concedersi un’ammissione che peccava di innocenza in ogni sua egoistica manifestazione: desiderava vedere la misteriosa contendente sparire dalla scena, meglio prima che dopo. In compenso, si diceva nei giorni in cui era particolarmente ottimista, aveva dimenticato il Channing!
«Mi piaci così tanto» si ritrovò a sfiatare sulla scia di un sospiro, le dita che carezzavano il ciuffo dell’amico con tenerezza. Poi… «PORCO FIORDO!»
Kurt aveva aperto gli occhi con una rapidità che le aveva quasi provocato una sincope. Quella le era venuta comunque, pochi secondi più tardi, quando aveva realizzato il significato del risveglio e del suo tempismo.
Nieve scattò in piedi come una molla, paonazza in volto, e si lanciò in direzione delle scale che conducevano al dormitorio femminile con tutta l’intenzione di restarci e morirci. Dando riprova dei propri riflessi, riuscì a schivare la presa dell’altro prima che le agguantasse una mano.
«NIEVE!» La nota sconosciuta che ne aveva imbrattato la voce ebbe il potere di paralizzarla che aveva asceso appena tre gradini. Si voltò verso di lui, appellandosi a un coraggio che non avrebbe mai pensato di avere — il rossore sugli zigomi faceva risaltare la tonalità smeraldina delle iridi —, e smise di respirare. «È che sto con un’altra…»
Tum-tum-tum-tum-tum-tum!
«Lo so...»

Sometimes I wonder when you sleep
Are you ever dreaming of me?
Sometimes when I look into your eyes
I pretend you’re mine, all the damn time
‘Cause I like you


«Mi stai evitando, Rigos!»
La frase riecheggiò nel corridoio semivuoto del terzo piano, decretando il fallimento del piano di Nieve. Quando aveva intravisto Kurt venirle incontro per le scale, l’istinto le aveva suggerito di affidarsi a uno strategico dietrofront e scappare come avesse avuto il demonio alle calcagna. Poi, la mente — stordita dalla vergogna, dall’innamoramento e dal concerto che stava avendo luogo nel suo petto — aveva optato per la più brillante trovata degli ultimi mesi: svoltare l’angolo senza prestare attenzione a dove metteva i piedi.
In buona sostanza, il risultato aveva visto Nieve schiantarsi di faccia contro un’armatura e mandarla letteralmente in pezzi.
«Cofa te lo fa penfare?» bofonchiò, mentre tentava di estrarre il braccio sinistro dall’elmo in cui l’aveva erroneamente ficcato. La risatina di Kurt le strappò un grugnito. «Che cavolo ti ridi? Au!»
«Fatti aiutare, va» ribatté quello, allungandosi per porgerle una mano.
Nieve, per tutta risposta, ignorò la profferta d’aiuto e sedette sui talloni. Si massaggiava la fronte con circospezione, piazzando qui e lì una lamentela accennata quando il contatto le provocava una fitta di dolore. Era sicura di essersi appena guadagnata un bernoccolo di tutto rispetto, oltre a una figuraccia di quelle che avrebbero fatto sbellicare la Moran.
«Perché scappavi?» le domandò Kurt, imperterrito, munito del suo rinomatissimo ghigno.
Nieve gli scoccò un’occhiata in tralice, che acuì la portata del suo mal di testa.
«Non stavo scappando» mentì. «Mi sono ricordata di un impegno e non volevo mancare, tutto qui!»
La smorfia sulle labbra del Grifondoro cedette terreno alla tenerezza.
«Mmm! Quindi, non ha nulla a che vedere con quello che è successo ieri sera, vero?»
Fosse stato soltanto per la sensazione di calore che l'aveva spinta da subito a invocare la morte con un’intensità che non aveva sperimentato neppure nella Foresta Proibita, la sera dell’incontro col Thestral, Nieve si sarebbe detta sicura di poter reggere la recita al meglio delle sue possibilità. Invece, al tepore che salì a colorarle gli zigomi, fece presto seguito l’arcinoto pizzicore al cuoio capelluto. Era fregata!
«Non so di cosa tu stia parlando» ribatté, senza avere ancora trovato il coraggio di incrociarne lo sguardo. Arricciò il naso, si chinò a raccogliere l’elmo di cui si era disfatta e, baciata dal sole di Settembre che penetrava attraverso l’apertura nella parete alla sua destra, considerò di indossarlo per aiutarsi nella pantomima. L’idea le strappò un sorriso; il divertimento le restituì una parte di coraggio. Volse il viso nella direzione dell’amico. «La botta deve avermi scemunita» gli disse, rigirandosi la testa di latta tra le mani finché quella non ebbe fronteggiato Kurt. «Credo di essermi guadagnata un bel corno» continuò con l’intenzione di far virare il discorso altrove dall’argomento che meno avrebbe voluto affrontare.
«Be’, a Grifondoro mancava un bell’unicorno da esibire durante le occasioni mondane» la assecondò Kurt — l’illusione di un momento. «Non devi evitarmi per ieri. Non hai detto niente che non va.» Delicatamente, il ragazzo afferrò tra le dita una ciocca dei capelli di Nieve: li aveva, adesso, di una delicata tonalità di rosa che ben si sposava con la sfumatura purpurea delle guance. «Non mi hai mica preso per il collo!»
Nieve sobbalzò, colta di sorpresa dal richiamo alla vicenda che li aveva uniti, dunque lo spinse indietro con entrambe le mani e rise. «Sei un cafone!»
«E tu una sfasciafamiglie!» Il rossore sul volto della Rigos ebbe ad accentuarsi, quando il riferimento fece girare un gruppetto di matricole di passaggio alle spalle dell’altro. Perché diavolo le sue vicende sentimentali finivano sempre per assumere proporzioni bibliche, vere o meno che fossero? Kurt, cogliendo il momento di debolezza di Nieve, l’agguantò per il polso e la tirò a sé per avvolgerla in un abbraccio. «Ma ti voglio bene lo stesso!»
Tum-tum-tum-tum-tum-tum!
«Te ne voglio anch’io!»

'Cause I know That It's Delicate




Ehi. ♥


Edited by ~ Nieve Rigos - 18/12/2019, 22:25
 
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Segue: Delicate



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Nieve s’introdusse di soppiatto nel salotto di casa Del Vespro con la complicità di nonno Gaspare e il favore di un buon Felpato. Non fosse stato per l’andirivieni di gufi e l’appuntamento preso al termine di una fitta corrispondenza, la Rigos avrebbe comunque compreso cosa stesse accadendo entro i confini della stanza adibita all’accoglienza ove si erano svolti alcuni dei pomeriggi più lieti della sua esistenza inglese. L’ambiente — di medie dimensioni, ordinatamente ingombro, confortevole com’era d’uso — si presentò ai suoi occhi in una veste già nota: accadeva in pendenza di ogni ballo che un manichino, diverse stoffe, plurimi aghi, un metro e un numero pressoché infinito di bobine variopinte prendessero posto nell’angolo tra il divano e il suo tavolino, occupando un buon terzo dello spazio. Su una seggiola, di spalle rispetto alla porta che immetteva nella camera, stava sempre, immancabilmente, Lucrezia Del Vespro.
Nieve le lasciò scivolare le braccia attorno alle spalle e le impresse un bacio leggero sulla pelle del collo, inspirandone il profumo. Sorrise nel notarne il sobbalzo e strinse un po’ di più la presa quando ebbe l’intima certezza di essere stata riconosciuta.
«Sei in ritardo» venne apostrofata con dolcezza.
«Sarebbe stato strano il contrario» replicò Nieve, lo sguardo fisso sul libro che la nonna tenea tra le mani. «Fammi indovinare: lo Schiaccianoci?»
Pretendere che un’insegnante dismettesse gli abiti del pedagogo e si appiattisse sulla spicciola arte dei cliché era oltraggioso non meno che impossibile e lo era ancor di più ad aver come interlocutrice una donna del calibro di Lucrezia Del Vespro.
Nello stesso istante in cui le aveva comunicato il tema del ballo di Natale e ne aveva letto la risposta, la Rigos aveva colto tra le righe il sentore di una sottile frustrazione mescersi a un entusiasmo quasi bambinesco. Elaborare un abito che fosse in linea con la storia e soprattutto con la personalità di Nieve avrebbe richiesto uno sforzo differente rispetto alle occasioni trascorse. Per questo, Lucrezia aveva preteso che la nipote trovasse uno spazio libero nella sua fitta agenda per fare una capatina a Londra. E, proprio per conoscerne l’indole, ella non si era sottratta.
«Ho letto tutto quello che c’era da leggere in proposito nell’ultima settimana e mi posso ritenere soddisfatta. So quello che possiamo tentare e quali sfumature possiamo assecondare. Ora, spetta solo a te farmi capire quali siano le tue intenzioni» le disse, mentre Nieve scioglieva l’abbraccio, e agitò la bacchetta in direzione dei voluminosi panneggi riposti su una poltrona. A colpo d’occhio, nella varietà tonale che le venne brevemente sottoposta, l’islandese comprese quanto seriamente la nonna avesse preso il proprio compito di sarta e ne fu compiaciuta. Sapeva che, al di là del bisogno di non affidarsi al caso e della necessità di assecondare una certa propensione al perfezionismo, fosse l’amore che provava per lei a muovere le intenzioni della donna; e la consapevolezza bastò a scaldarle il cuore. «Ho una mia teoria a riguardo, se proprio vuoi saperlo».
Nieve sedette a cavallo d’una sedia, ponendo le braccia sullo schienale e il mento sui polsi; e le rivolse un’espressione furbesca. «Ah sì? E sarebbe?»
«Che la scelta ricadrà sullo Schiaccianoci» le rispose Lucrezia, radiosa.
Le labbra della Rigos si schiusero e scoprirono i denti; e il brillante del septum raccolse uno scintillio di luce, svettando sull’arco di Cupido. C’era una venatura raggiante in Nieve capace di esaltarne la bellezza sregolata, adesso che un accenno di pace le aveva restituito parte dell’equilibrio perduto; e, pur tuttavia, una sbavatura d’incertezza — l’assaggio di un segreto, timidamente serbato e a tratti timorosamente evanescente innanzi al peso delle aspettative altrui — ne mitigava il fervore.
«Non si può dire che tu non mi conosca» concesse sul finire di una risatina bassa. Poi, trasse un’inspirazione per darsi coraggio. «È che mi domandavo se non fosse il caso di provare qualcosa di diverso, stavolta».
Gli occhi di Nieve incrociarono quelli di Lucrezia, trasmettendole l’anteprima di un messaggio più complesso, e tanto bastò perché la diciassettenne ne ottenesse la completa attenzione.
I contorni della sua cottarella adolescenziale avevano opposto un altisonante rifiuto all’ordine di rientrare nei ranghi della normalità e, anziché obbedire, avevano alimentato le fantasticherie della giovane col siero della ribellione. Per la prima volta nella sua vita, così, Nieve si era ritrovata ad ardere dal desiderio di apparire bella, dolce e aggraziata come le altre. Per una notte, una soltanto, si diceva che avrebbe potuto relegare lontano il mosssro che aveva riconosciuto d’essere e acconsentire a liberare la fanciulla che non credeva di poter incarnare — fosse anche stato solo per gioco. E magari, solo magari, Kurt l’avrebbe notata non per l’impiastro scapestrato di cui pensava di doversi curare, ma per la giovane donna che stava diventando.
«Non ho molte idee, eh» si affrettò ad aggiungere, colta da un accesso di ritrosia «perché non conosco bene la storia. Thalia mi ha detto quanto basta e, sì, amo la figura dello Schiaccianoci e c’è una parte di me che vorrebbe tanto, tanto vestirsi come lui. Però…» tentennò e, nel farlo, agganciò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e chinò il capo. Si era ripromessa di scacciare la tentazione di fungere da impedimento nel legame che univa Kurt e la fidanzata, persuasa di non possedere gli strumenti per amare davvero qualcuno; convinta che, se mai si fossero realizzate le condizioni per iniziare una storia con lui, non sarebbe stata in grado di impedirne la rovina. D’altra parte, poteva considerarsi un tentativo di sabotaggio indossare un abito che ne esaltasse la venustà? «Però, magari, non mi si addice qualcosa di diverso. Non lo so, ecco. Non sono sicura nemmeno io…»
Lucrezia si mantenne taciturna per un altro paio di istanti e scrutò l’espressione della nipote. Con la sensibilità d’animo e d’intelletto che le si confaceva, comprese quali dissidi stessero agitando l’animo della ragazzina senza che quella vi avesse fatto cenno.
«Mi sembra una bella idea, invece, anche per spezzare un po’ rispetto all’ultimo ballo. Ti avevo cucito quella bella giacca dal taglio maschile, se la memoria non mi inganna. Optare per un’altra giacca sarebbe ripetitivo e, Merlino mi sia testimone, mia nipote non passerà mai per scontata a un evento con la mia complicità».
Nieve, che aveva gli zigomi colorati d’imbarazzo, sogghignò. Era grata che il discorso stesse vertendo altrove dal vero nocciolo della questione. Che la nonna avesse compreso le sue intenzioni o meno, in quel momento, poco importava di fronte al bisogno di aggirare l’ostacolo! Non voleva dar voce ai suoi pensieri e correre il rischio che, facendosi suono, si mostrassero più biasimevoli dell’eco nella sua testa.
«Hai qualcosa in mente, non è così?» domandò Nieve, mentre nonno Gaspare faceva ingresso nel salotto e si dirigeva a passi spediti in direzione del grammofono con un vinile sospeso tra le dita nodose. Era un maldestro tentativo di ascoltare la conversazione senza che la moglie lo scacciasse malamente, lo sapevano tutti e tre. «Ma non voglio essere un angioletto pieno di brillanti o una principessa delle fiabe con un gonnellone da meringa, sia chiaro! Piuttosto, ritorniamo allo Schiaccianoci e tanti saluti» si affrettò a precisare.
Lucrezia, per tutta risposta, s’accigliò.
«Dovrebbe offendermi che tu mi creda capace di fare una cosa del genere, perché implicherebbe non conoscerti affatto» la rimproverò, appena più duramente di quanto richiedessero le circostanze.
Nieve, per parte sua, deglutì e incrociò lo sguardo del nonno, che le fu silenziosamente solidale dalla distanza. Poi, le prime note si dipartirono dalla tromba del grammofono e tornò la quiete.


Ricordi, sbocciavan le viole
Con le nostre parole
Non ci lasceremo mai
Mai, e poi mai
Vorrei dirti ora le stesse cose
Ma come fan presto, amore,
ad appassir le rose


«Come vi siete conosciuti tu e il nonno?»
La domanda di Nieve spezzò l’atmosfera venuta con la voce del cantautore che erano trascorsi pochi secondi dall’ultimo scambio di battute. La nonna, in segno di pace, fece planare una robusta teiera, un paio di tazzine e un piatto di pasticcini sul tavolo.
«Abitavamo entrambi nello stesso paesino, quindi era pressoché impossibile non conoscersi. E tuo nonno non ha mai fatto nulla per impedire che lo notassi!» Scoccò un’occhiata al marito: era un modo sottile di fargli intendere che l’intrusione non fosse passata inosservata; solo allora appellò una terza porcellana e gliela spedì, non prima di averla riempita fin quasi all’orlo e avergli concesso un’unica zolletta di zucchero e un po’ di latte. «All’inizio, però, eravamo solo amici. Io ero promessa a un altro».
«Tu cosa, scusa?» sbraitò Nieve, trasalendo sul cuscino della poltrona ove s’era spostata. Lasciò scorrere lo sguardo dall’uno all’altro dei due adulti, gli occhioni verdi sbarrati per l’incredulità. Il nonno, che nel frattempo aveva appellato un’altra zolletta e addentato un rotolo alla cannella, si limitò ad annuire con aria contrariata. «Stavi con un altro? Ma come? Ma perché?»
Lucrezia rise e attinse alla porcellana, dunque aggiunse: «Proprio così! I miei genitori mi avevano promesso a un altro ragazzo di buona famiglia: era un matrimonio di comodo, come se ne organizzavano tantissimi in Italia ai nostri tempi, e noi non avevamo molta voce in capitolo. Ribellandomi, ero riuscita solo ad ottenere che la celebrazione non avvenisse prima dei miei diciotto anni. In verità, non avevo alcuna intenzione di sposarmi, all’epoca: ero focalizzata sui miei studi e speravo di essere assunta come educatrice in una buona famiglia. Mi dicevo che questo avrebbe convinto i miei genitori della non necessità di usarmi come merce di scambio, ma sapevo bene che le mie fossero speranze vane. C’erano interessi che coinvolgevano l’intera famiglia e io, in sostanza, potevo solo prendere tempo… Serviti un rotolo alla cannella, bambina, su. Li ho cucinati per te!» L’intimazione della nonna servì solo parzialmente a risvegliare Nieve dallo stato di attonimento nel quale era piombata. Allungò la mano, agguantò un pasticcino e se lo portò alla bocca senza averne alcuna effettiva cognizione, tanto desiderava conoscere il prosieguo della vicenda. «Ti piacciono?»
«Buoniffimi» bofonchiò, le labbra sporche di glassa zuccherina. Deglutì il boccone. «Ma è una cosa orribile! Non si possono usare le persone come se fossero articoli di un negozio. Perché i tuoi genitori volevano farti un torto simile?» la incalzò.
«Non è come pensi, Nieve. Non è che i miei genitori non mi amassero abbastanza da tenere in conto i miei sentimenti. Era un retaggio culturale tipico della società in cui vivevamo. Era così che si usava fare. Spesso, era anche una questione di sopravvivenza: unire le famiglie poteva garantire il sostentamento in periodi di magra; e un matrimonio poteva portare nuova forza lavoro per aiutare e, col tempo, sostituire le vecchie leve». Dall’espressione della nipote, Lucrezia comprese che l’argomento fosse di gran lunga troppo spinoso da affrontare nei giusti termini: Nieve la squadrava come se avesse appena assistito a una scena terrificante del cui sadismo non le riuscisse di capacitarsi. «Comunque, non è questo il punto» soggiunse, riportando l’argomento sull’unico binario percorribile in quella sede. «Il punto è che io ero promessa a un altro e non a tuo nonno».
«E ti piaceva? Quest’altro ti piaceva?»
«Non mi dispiaceva
— uno sbuffo provenne dalla zona del salotto occupata dal nonno, alto a sufficienza da essere udito oltre la musica emanava dal giradischi — e mi era andata meglio che a molte altre. Era un ragazzo molto garbato, avvenente — fu il tempo di un altro sbuffo — e affidabile. Aveva un solo difetto: non era tuo nonno» concluse Lucrezia.
Nieve, il cui sbalordimento indignato aveva resistito fino a quel momento, sorrise e cedette all’incantamento nell’udire le ultime parole della nonna. Essere romantica era un lusso che le capitava di concedersi di rado in presenza degli altri, ma i coniugi Del Vespro — come sempre, del resto — costituivano un’eccezione che, nel presente, non mancò di sottoscrivere una conferma.
«E cos’è successo? Com’è riuscito a conquistarti il nonno e a portarti via al suo rivale?»
«Si è comportato da amico. Era solo un amico» rispose Lucrezia, colta da un flutto di nostalgia «ma il migliore che si possa immaginare d’avere. Era sempre presente quando avevo bisogno di un appoggio. Sapeva ascoltarmi e dare il giusto peso ai miei problemi, facendomeli apparire risolvibili anche quando io ritenevo che fossero insormontabili. Conosceva il modo di farmi ridere, ridendo di sé stesso e delle cose con una leggerezza che non era superficialità. E non ha mai, mai, mai detto nulla di crudele sul mio promesso sposo, perfino se capitava che io me ne lamentassi. Ed è successo che più parlavo con lui e più diventava parte della mia vita. Un giorno, d’un tratto, mi sono resa conto che pensavo a tuo nonno così spesso da avere l’impressione che fosse sempre con me. Vedevo il berretto di un bracciante e mi balzava il cuore in petto di gioia all’idea che fosse lui. Bussava qualcuno all’uscio e pregavo di trovarmelo davanti. Prendevo parte a una festa di paese e desideravo che m’invitasse a ballare. E bruciavo di gelosia al pensiero che un’altra potesse contare per lui più di me, o che un giorno potesse fare con un’altra quello che faceva con me, anche solo parlare delle cose di cui discorrevamo noi. E mi terrorizzava la prospettiva di perderlo. Nel capirlo, ho deciso di non commettere l’errore di aspettare troppo a lungo. Ne ho parlato ai miei e, non senza sforzi, eccoci qui» concluse, versandosi una seconda tazza di tè.
La Rigos batté le palpebre per darsi il tempo di metabolizzare le ultime informazioni, sicché le scappò un sospiro. Era inevitabile che, nell’immaginarsi i contorni del rapporto tra i Del Vespro, soccombesse alla tentazione di indugiare nel confronto. C’erano delle similitudini nella dinamica con Kurt che avrebbero potuto dare adito alla speranza? Nel modo in cui si prendeva cura di lei e si assicurava che stesse bene? Affondò il volto nella porcellana, godendo del tepore che promanava dalla superficie della bevanda, mentre il sapore dolce della cannella trovava il retrogusto amarognolo del tè nero.
«Sembra una fiaba» esordì, allora, sul finire di una sospirata riflessione. «Questo momento, la storia che mi hai raccontato, la musica, voi due… è tutto così bello che non sembra quasi vero» le confessò con la punta del naso arrossata e gli occhi lucidi di piacere. Inclinò il viso all’indirizzo del nonno per domandargli: «Tu confermi tutto?»
Gaspare annuì e diede un’ultima leccata ai baffi zuccherati. Poi, sollevò un dito e aggiunse: «C’è solo una piccola correzione che farei, se mi fosse concesso: non ho mai voluto essere “solo un amico” per tua nonna. Era tutta una strategia per sottrarla a quello scimunito e, come vedi, ha funzionato».
Di lì a pochi secondi, un Compungo partì dalla bacchetta di Lucrezia all’indirizzo del consorte. Nieve, dal canto suo, rise della genuinità della loro interazione e depose la tazza, rapita dalle tinte iridate dei propri pensieri. Avrebbe appreso solo più in là il significato della canzone che aveva fatto da colonna sonora a quel pomeriggio — la storia di un vecchio amore finito in tenerezza, pronto a dischiudersi alle dolcezze di un altro — e l’avrebbe trovato un segno del destino a significare che la corrente relazione di Kurt potesse evolversi in un epilogo inatteso, rispetto al quale avrebbe trovato lo spazio di inserirsi non nel ruolo di chi distrugga ma di chi subentri perché è giunto il suo tempo.
«Non pensereste di me che sono ridicola, quindi, se vi dicessi che vorrei fare colpo su una persona? È per questo che avevo pensato di provare qualcosa di diverso, stavolta» trovò il coraggio di confessare. Aveva il viso in fiamme e il cuore che pompava freneticamente nel petto. «Vorrei solo che mi notasse e che capisse che non sono una bambina, tutto qui» precisò in un disperato tentativo di giustificarsi al cospetto della voce che le intimava di non ammantare di altruismo l’egocentricità dei suoi sogni.
Lucrezia e Gaspare si scambiarono uno sguardo d’intesa.
«Io lo trovo molto furbo» le disse il nonno, che intanto le si era fatto vicino e aveva preso posto sul bracciolo della poltrona, dopo un po’ e le afferrò il naso con delicatezza. «Te lo dico io: non ha scampo come non ne aveva quella che oggi posso chiamare moglie».
Nieve ridacchiò, dopodiché il suo sguardo mutò traiettoria. Di tutte le persone che esistevano al mondo, nonna Lucrezia era quella della cui approvazione avrebbe sempre sentito il bisogno. La stupì trovarla intenta nell’appellare il metro, a fronte aggrottata e con uno spillo tra le labbra serrate.
«Vieni qua e lasciami prendere le misure. Abbiamo un cuore da conquistare e la reputerei già una faccenda molto seria, se non avessi intenzione di fartene conquistare a decine» sentenziò, gli occhi splendenti di risolutezza.

Nieve si abbandonò un ultimo istante contro la poltrona e gettò il capo all’indietro, sollevata. E l’argento cedette il passo al rosa tra le onde della sua chioma leonina.

Per un amore nuovo


 
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view post Posted on 27/3/2020, 13:05
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entropia.

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Nieve Rigos
17 Anni
3 Dicembre, IV anno
Segue: ~ Ỳ m a



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«Dobbiamo cominciare a pensare al vestito che indosserai per il tuo diciassettesimo compleanno.»
La considerazione di Astaroth irrompe nella stanza, importunando il silenzio pigro che vi regna. Un po’ a malincuore, assecondando la sensazione di sorpresa venuta con l’enigma appena sottopostole, Nieve schiude le palpebre e si volta nella direzione dalla quale proviene la voce. Attraverso l’abbraccio prepotente del sole all’imbrunire, scorge la sagoma della sua mentore fiancheggiare il camino — è impossibile non soffermarsi sulla perfezione della silhouette disegnata dal velo di chiaroscuro.
«Non ti pare un tantino prematuro?» le fa notare, dunque, intanto che un sorrisetto le incurva le labbra e, beata, giocherella distrattamente con lo stelo del calice che trattiene tra le dita. È un anonimo pomeriggio di metà inverno, sul castello batte la fiacca delle ultime ore del giorno, e la Rigos si trova esattamente dove desidera stare. Da qualche parte su un tavolino giace, abbandonato, il suo mantello della disillusione. «Cos’avevi in mente?»
Lo scintillio di divertimento che giunge a esaltare il taglio felino degli occhi di Astaroth provoca una risata nella più giovane delle due: un quesito è bastato a smentirla, a dispetto di qualsiasi apparente forma di noncuranza. Nieve le mostra la lingua, impertinente, attraverso le labbra illividite dal vino elfico.
«Be’, Villa dei Gigli sarebb-» fa il tentativo di rispondere l’una, ma le viene impedito di continuare.
In men che non si dica, la Rigos scatta a sedere e, nel farlo, rovescia parte del contenuto del bicchiere sulla camicia linda della divisa — non se accorge neppure.
«Cosa?» trilla l’altra, fuori di sé dall’esaltazione. «Organizzeresti qualcosa a Villa dei Gigli per me
L’ombra del disappunto solca rapidamente i lineamenti della Morgenstern, prima di dissiparsi al cospetto dell’evidenza. Lo scetticismo della sua pupilla non cela alcuna offesa; è la naturale reazione di chi, non avendo mai posseduto nulla al mondo, non sappia aspettarsi qualcosa di bello dalla vita. Nieve è così genuinamente attonita da non accorgersi neppure della trasformazione innescata nella sua interlocutrice, allorché il fastidio sul viso di Astaroth assume le sembianze della tenerezza.
Se l’avesse osservata con più attenzione in questo momento, non avrebbe mai dubitato del suo amore in futuro, né si sarebbe lasciata annientare dal sospetto di essere stata tratta in inganno; di aver adorato unilateralmente. Invece, non è così che si declina la sua storia in travaglio di giovane donna.
«Ti sei versata del vino addosso» le viene fatto notare da Astaroth, un cenno regale della mano in direzione del petto chiazzato e, sulla bocca, la smorfia invaghita di chi abbia di fronte un cucciolo buffo dei cui pasticci non sappia proprio arrabbiarsi. «Ma, sì, pensavo di tirare su una bella festa alla villa per celebrare il tuo ingresso nel mondo degli adulti» le concede, infine, levandola dal fastidio di starsene scomodamente sulle spine. «Pensi che, dopo averti presentata a tutti come mia protetta, potrei comportarmi come se nulla fosse? Avrai il tuo personalissimo gala!»
L’estremità dei polpastrelli di Astaroth sfiora la sommità del capo di Nieve. Non ha fatto neppure in tempo a terminare la spiegazione ché l’altra le aveva già gettato le braccia al collo — la tiene stretta, adesso, Nieve, con tutta la forza che possiede nelle membra tormentate, col disperato timore di vederla sparire in uno sbuffo d’allucinazione. Per rassicurarla, la Morgenstern le cinge le spalle e la trascina in un dondolio accennato; la dolce culla umana che la piccina d’Islanda ha sempre agognato.
«Grazie, Roth» le sussurra, allora, trasognata.
«Mi ringrazierai quando avrò dato l’invito a Christopher…»
Il bolide dello sgomento induce Nieve a farsi indietro con tutto il corpo. Osserva Astaroth con occhi sbarrati, puro terrore nella malachite delle sue iridi. Poi, un insistente bruciore alla tempia destra le rammenta il vero; cos’è che ha fatto senza mai confessarlo.
«Non-pensarci-neppure» finge.
In fondo, importano solo loro due.

Mi desto, avvolta nell’abbraccio delle coperte. Il sole del primo mattino prorompe nel dormitorio attraverso le finestre, scomponendosi per mettere in mostra il proprio spettro. Mi stiracchio sotto il lenzuolo, pigramente. Ho ancora voglia di dormire, oggi che posso; oggi che è Domenica. Eppure, una strana urgenza mi intima di non indulgere troppo a lungo nel tepore della camera addormentata. Non me ne illustra le ragioni. Vuole soltanto che mi alzi dal letto.
Intanto che decido di concedermi un’ultima parentesi di ispirato languore, sul punto di riabbassare le palpebre, mi rapisce l’esecuzione di un movimento inatteso e mi volto nella sua direzione. Costernata, aggrotto fronte e sopracciglia, poi spalanco gli occhi e mi guardo intorno con circospezione. Sono… sono io. O, meglio, è il mio corpo quello che scorgo incamminarsi verso il bagno, insistendo sulle punte per non svegliare le compagne. Tasto la consistenza morbida del materasso per assicurarmi di poterlo toccare, dunque scatto a sedere e, nella speranza di svelare il segreto di quest’assurdità, m’inseguo.
Faccio appena in tempo a insinuarmi nell’ultimo residuo di spazio, prima che la porta si chiuda e la serratura mi… be’, ci isoli dal resto della camerata. Che sta succedendo? La domanda risuona nella mia mente confusa e potrei impazzire, arsa dal bisogno di capire, se l’espressione sul mio viso — l’estraneo, quello che si muove al di fuori di me — non catalizzasse tutta la mia attenzione.
C’è qualcosa che non va. Me ne rendo conto osservando i lineamenti dell’altra Nieve: cogitabonda, si rimira nello specchio che sta sopra le ceramica del lavabo. Perfino nel mezzo della nuvola di vapore che promana dal cubicolo della doccia, noto la sfumatura di mestizia che esacerba la tonalità violacea delle palpebre inferiori. Mi avvicino — solo un po’ — per cogliere attraverso uno sguardo diretto quello che il riflesso appannato sul vetro non saprebbe mai rivelarmi; e ne capto la tristezza. Perché è, perché siamo tristi? Il quesito mi assilla, così compio un passo in avanti, ma Nieve si discosta e si trincera sotto la protezione dell’acqua calda. È così che scopro di non poterla toccare.
Per quanto tenacemente lo desideri, non mi è permesso di ricongiungermi al mio corpo. Così, mi limito a pedinarlo per l’intera giornata: su per le scale, via lungo i corridoi, ancora attraverso le stanze ora vuote ora gremite. Sto sempre un passo indietro — io Achille, Nieve la maledettissima testuggine che non mi riesce di superare per quell’unica falcata di vantaggio. E, in questo infinito peregrinare, la osservo godersi un’esistenza apparentemente piena, viva in modo quasi doloroso per me che non riesco più a percepirla; che mi muovo in un limbo intangibile.
È proprio seguendola che mi è concesso il privilegio di un’altra epifania: è il nostro compleanno. Lo realizzo nel momento in cui il corpo di Nieve viene cinto dalle braccia di Thalia, allora sorrido. Mi ritrovo a osservarle, a capo inclinato, con un’invidia mista a stupore, mentre i fasci del giorno investono tutte e tre noi. Un augurio, la promessa mantenuta di non farci nessun regalo, il bisogno cocente di dissimulare. Guardo Nieve fingere una risata a una battuta sulla vecchiaia incipiente ed è così realistica che, per un istante, mi domando se ogni cosa non stia tornando al proprio posto. Tuttavia, quando azzardo il tentativo di accostarmi alla sua schiena, la vedo allontanarsi con una scusa — da me e anche da Thalia. Ha da fare, dice, un appuntamento immancabile col capo alle soglie di Hogsmeade; se dovesse disertarlo, correrebbe il rischio di venire licenziata e, diamine, mi affretto anch’io perché non voglio che accada.
Scopro un istante più tardi che abbiamo mentito; cioè, una di noi lo ha fatto. Invece che prendere le scale destinate a raggiungere i piani inferiori, invero, imbocchiamo il cammino che conduce presso una delle torri. Nieve sembra assorta, assente. Ha lo sguardo perso nel vuoto, le mani abbandonate lungo i fianchi, il passo incurante di una marionetta. Un paio di ragazzi la salutano amabilmente nel pianerottolo tra una rampa e l’altra, ma lei continua imperturbata. Osservo i due scambiarsi un’occhiata confusa, dunque esibire una scrollata di spalle e liquidare la questione. Due gradini più tardi, hanno già dimenticato l’inconveniente.
Stringo i pugni e serro le labbra, furente. Com’è possibile che non vedano? Accelero il passo per recuperare la distanza. In tutto questo incollerirmi, l’ho persa di vista. Il legame che ci unisce, però, rende impossibile smarrirsi. Me ne rendo conto dal modo tutto istintivo in cui giro a sinistra invece che a destra, sulla cima delle scale, e la ritrovo.
Oh!
Adesso comprendo — sento il battito accelerare nel petto, le mani farsi fredde e le gambe molli come burro —, perciò chiudo gli occhi, scorata. Finalmente capisco perché mi stia tenendo a distanza, per quale ragione abbia deciso di separarsi da me proprio in questo giorno, e la consapevolezza di non esserci arrivata prima mi strappa un sospiro. Avrei dovuto intuirlo; avrei dovuto saperlo.
Le iridi di Nieve fissano le assi di una porta chiusa dal di fuori. Un lieve strato di polvere insiste nel foro vuoto della serratura, segno che nessuno l’abbia più aperta da tempo. È l’entrata che conduce allo studio di Astaroth o, dovrei dire, a quel che ne è rimasto. Dischiudo le palpebre e indugio nell’impresa titanica di ricongiungermi a lei perché non senta il peso della solitudine in tutto quel dolersi, ma i miei desideri rimangono sviliti dallo scarto lesto del corpo che non riesco a sentire. E vorrei tanto biasimare Nieve per uno sfoggio di ostinazione atto solo a tardare l’inevitabile, ma mi manca il coraggio.
È terribile essere me. Inerme, soccombo al bisogno di gettarmi sul pavimento e diguazzare nel pantano della mia miseria fino a esorcizzare la mancanza. Intanto che Nieve guarda il legno solido e inconsciamente rimpiange ciò che non potrà mai più venirle restituito, mi ritrovo carponi sulla pietra antica del castello e la innaffio con le lacrime che rigonfiano il borsello delle mie emozioni per impoverirmi e ricominciare daccapo. Non serve a niente, eppure, se non è anche Nieve a volerlo, a sentirlo.
Ancora china sulle ginocchia e sui palmi, la osservo riscuotersi e scrutare l’uscio con un misto di sgomento e rassegnazione. Ha l’espressione di chi non sappia come sia finito dove si trova, ma riesca a immaginarselo perfettamente. Per questo, assumendo la posa rigida del militare, ruota su sé stessa e s’incammina per ridiscendere le scale. Mi ferisce notare quale atteggiamento assuma nell’oltrepassarmi — incurante, altero, distaccato. Allora, mi sollevo e riprendo a inseguirla nel dedalo di finzione cui costringe entrambe.
Riprende a salutare allegramente chiunque incontri lungo cammino e c’è una tale spontaneità nella maniera con la quale prende in prestito sentimenti che non ci appartengono da darmi l’illusione di essere in errore. Forse, sospetto, sono io a non metterci abbastanza impegno e dedizione; a logorarmi nel patimento che Nieve vorrebbe lasciarsi alle spalle. Così, m’impongo di emularla con l’obiettivo di essere uguale a lei e migliorarmi.
Agito la mano in direzione dei conoscenti, imbocco i passaggi meno frequentati di Hogwarts a suon di saltelli, accarezzo il vetro istoriato di una finestra e mi beo della sensazione di fresco dovuta al contatto, zufolo un motivetto antico che riesco a ricondurre soltanto a Ỳma. Quest’ultimo pensiero deve turbarci più del previsto perché, d’improvviso, fatico a mantenere invariata la mia posizione e perdo terreno. Tutte le volte che tento di ripristinare la distanza di un solo passo da Nieve, una forza respingente m’impone — perentoria — di stare al mio posto. Chiedo spiegazioni senza capire. Cos’ho fatto? È forse per la melodia? Non… non volevo renderci di nuovo tristi. Chiedo scusa.
L’aria gelida di Dicembre rinfresca i pensieri e li disancora dall’affanno di saperci lontane. Vorrei combattere contro la barriera che ci divide e disintegrarla; o urlare fino a perdere l’uso della voce per farmi sentire da Nieve e costringerla a prestarmi attenzione. Più di tutto, vorrei correre verso di lei e abbracciarla; stringerla così forte da farci male entrambe per assicurarmi che non mi respinga mai, mai, mai più; per prometterle di essere buona ed eseguire qualunque suo ordine; per spiegarle di non aver inteso causarle sofferenza neppure per un momento. Non è per questo che sono qui e lei… Cielo, lei non può mandarmi via in questo modo tutte le volte che è semplicemente troppo!
Mentre attraversiamo il suolo di cristalli che scricchiolano sotto il nostro peso, mi riscopro arrabbiata. E avanzo verso Nieve a passo di marcia. Quando il muro invisibile torna a ripudiarmi, dunque, io mi abbatto con più forza contro i suoi palmi invisibili e persevero — ancora, ancora e ancora — finché non lo percepisco infiacchirsi. Allora, Nieve accelera il passo e, per la prima volta da che è sorto il sole e ci siamo separate, si volta a guardarmi. Scorgo un accenno di panico nelle sue pupille brune, infinite polle di disperazione, dopodiché la vedo correre via in preda al terrore. Faccio altrettanto, caparbia al limite dell’ossessione.
Quando oltrepassiamo il limitare della Foresta Proibita, riesco a immaginare dov’è che stia andando. Abbiamo trascorso pomeriggi interi alla ricerca del lago reietto, nelle cui acque abbiamo quasi perso la vita, e un bisogno tutto nuovo di affrettare i tempi mette le ali ai miei piedi. Scopro presto che mi sto sbagliando, che i miei presagi peccano di presunzione. Per bene che la conosca, infatti, non colgo la natura delle sue intenzioni.
La superficie del bacino, indurita dal rigore invernale, si beffa di me. Nieve non è venuta qui per concludere ciò che non ha potuto compiere mesi addietro. Ma, allora, cos’è che vuole fare? Le orbito languidamente intorno, attratta da lei. Ha le palpebre calate sugli occhi, le mani ai lati del corpo sospese a mezz’aria, il respiro corto che si condensa a un soffio dalle labbra schiuse. Una smorfia di dolore increspa i lineamenti del suo viso piccino, giacché un’urgenza sfrenata mi prende e induce a dispormi a un passo dal profilo del suo orecchio — neppure mi accorgo del permesso accordatomi, del lusso di quella ritrovata vicinanza.
“Dillo” le ordino, suadente. “Di’ il suo nome!”
Nieve resiste. Nei pochi centimetri tra noi, c’è quanto rimane della risolutezza e della forza con cui mi ha scacciato nelle ore trascorse. Non vorrebbe arrendersi. Me ne rendo conto dalle increspature che le intarsiano la fronte, dagli spasmi delle dita lunghe, dalla tensione con cui mantiene, immobile, la posizione. Spera che ingannare il dolore — che io rappresento, trasporto, custodisco — con una perfetta mimesi basti a scacciarlo, a farlo passare oltre come lei ha fatto con me sulla torre di divinazione; che la scambi per la riproduzione di un’umanità altra e non la ritenga realistica abbastanza da curarsene. Ma non è così che funziona e, per quanto intensamente lei possa vagheggiare illudersi, io so che il nostro ricongiungimento non le risparmierà la sensazione di tirannica perdizione che ha già sperimentato e che, negli ultimi mesi, è riuscita ad arginare.
“Di’ il suo nome” ripeto e non è per capriccio — perché il ritrovamento tra noi due possa realizzarsi, dev’essere lei a disporlo. “Una volta soltanto…”
Nel silenzio sepolcrale che ci attornia, osservo, meravigliata, le onde d’argento dei suoi capelli allungarsi verso il basso e strapparle un mugugno. La criniera sbarazzina che solitamente le sfiora le spalle, ebbene, si trasforma in un folto intreccio di curve e scende giù fino a sfiorarle le ginocchia con una carezza rassicurante. Le labbra di Nieve, allora, si arricciano per un momento, piegate dall’esigenza di trattenere il pianto, e le ciglia si stringono più forte tra loro. Un’ultima, blanda resistenza, poi…
«Astaroth!»

È intollerabile, disumano, mortale.
Quello che sto provando va oltre ogni mia più fosca immaginazione.
Il profumo di Astaroth è così intenso da adombrare l’odore freddo dell’inverno.
Sento le sue dita lungo il corpo stringermi forte per placare col conforto l’impeto dei sussulti; ma è troppo distante perché basti il ricordo.
Celo il volto sotto la protezione delle mani, poi le porto tra i capelli.
Premo i polpastrelli sul cuoio capelluto alla ricerca di una parvenza di ristoro e li sento sbiancare nel fastidio sordo che produce quest’atto di violenza.
Dannata, dannatissima mente!
Nemica beffarda, traditrice ingrata, serpe tra i seni!
Cos’è che vuoi ancora, eh?
Cosa vuoi ottenere col tuo infinito, morboso tormento?
Non ti ho dato forse tutto di me?
La gaiezza, la speranza, l’amore, l’entusiasmo, il tepore!
Vagabonda, erro per questa vita che ti ho quasi sacrificato e mi faccio piccina per non scuoterti, per assecondare i tuoi bisogni. Ed è così che mi ripaghi. Per un attimo di gioia, ne seguono decine di patimento. E, quand’anche avessi la decenza di acquietarti per un solo istante, torni a riscuotere quello successivo, instancabilmente, con avidità — sempre di più, di più, di più.
Ma non lo vedi che non mi è rimasto nulla?
È la pace che bramo, la semplicità struggente di un sorriso timido al sole del tramonto, l’illusione chimerica di poter pensare a Lei senza che il resto smetta di esistere e non mi rimanga che il desiderio di annullarmi per non sentirti mai più.
Abbi pietà, ti supplico!
Abbine di me, di te, di noi.
Concedici una tregua dallo struggimento della perdita, ti prego, e aiutami a dirle addio per sempre.
Non è languendo nella memoria di quest’amore che troverai la cura.
Non è Astaroth la soluzione.
Lei è la malattia.
Lasciala andare e occupati di me —
di me — come faresti col suo ricordo.
Diciassette anni: un’età tragica per morire, penserai.
Un’età tragica per vivere, ti rivelo.
Ama me, o mente.
E, se per riuscirci dovessi odiarla, odiala.
Odia Astaroth, e poi dimenticala come si fa coi sogni al mattino.
E un giorno, te lo prometto, l’incontreremo ancora.
Intanto, chetati e dormi.
Ci penso io a me.


One need not be a Chamber – to be Haunted




N.d.r. Il disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione è un tipo di disturbo dissociativo che consiste in persistenti o ricorrenti sensazioni di essere distaccati (dissociati) dal proprio corpo o dai propri processi mentali, di solito si accompagna alla sensazione di essere un osservatore esterno della propria esistenza (depersonalizzazione), o di essere distaccato dal contesto in cui ci si trova (derealizzazione). Il disturbo è spesso scatenato da un rilevante evento stressante. — Fonte: MSD


Edited by ~ Nieve Rigos - 2/5/2020, 16:51
 
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If you go, I'll stay ~ You come back, I'll be right here

Felci e salici le cui fronde accarezzano lo specchio d’acqua lacustre: è ciò che osservo mentre, seduta su una roccia ai margini del bacino, muovo ritmicamente i piedi sotto la superficie dolce, mutevole. Le caviglie scompaiono per poi riapparire, adornate da cristalli impalpabili che scivolano sulla pelle d’avorio. Poco sopra le ginocchia, la seta candida aderisce al mio corpo con deferenza.
Nel mio angolo di Scozia, dove il profumo dei gigli scandisce il tempo a suon di lascivia, ritrovo un barlume di pace proprio là dove la morte ha segnato il mio —il nostro— destino. All’altro capo del lago, osservo il Thestral che ho portato via dalla Foresta Proibita aggirarsi tra gli ontani, incuriosito dai salti sgraziati delle rane che si alternano tra le ninfee.
Ti penso, Roth…
«Vuoi che il tuo gala abbia un tema? Mi occuperò io degli inviti. Voglio presentarti alle persone che contano.»
La tua voce è melodiosa come la ricordo e il tuo sorriso soddisfatto. La me del ricordo, di contro, ancora si stupisce che qualcuno possa avere questo genere di attenzioni nei suoi confronti. Che qualcuno come te possa averla a cuore. È un po’ il cliché della ragazza più cool della scuola che decida improvvisamente di farti entrare nella sua cerchia. Invero, io non ho mai desiderato la fama tra i corridoi, troppo lontana dalla frivolezza di questi ragionamenti. Ciononostante, di fronte a te mi sono sempre sentita inerme.
«Ingaggeremo il sarto migliore per farti confezionare un abito su misura. Degno della mia protetta» dici e mi sorridi. Un vuoto allo stomaco mi impedisce di rispondere, ma ti sorrido di rimando. Ho gli zigomi imporporati e il cuore colmo di emozioni che non riesco a discernere. Nessuno mi ha mai fatta sentire così importante, così voluta, così speciale. «Non dimentichiamoci che ci sarà anche Christopher…»
«Roth!!!» La mia reazione è immediata, identica tutte le volte. Come mi fossi svegliata da uno stato di catatonia, sbotto di indignazione e batto le palpebre per l’incredulità. Il mio viso guadagna qualche sfumatura di rossore. Il suono della tua risata mi trafigge, qui, nel presente. Sapessi quanto mi manca! «Primo, stiamo progettando con un anno e mezzo di anticipo rispetto al mio diciottesimo compleanno. Ed è da pazzi» rispondo, mettendo insieme un’arringa che possa reggere e mascherare parte del turbamento che pensare a Channing mi provoca. Con il senno di poi, so che saresti stata fiera di me oggi perché eccome se ci proverei. Il tempismo sa essere bastardo. «E, poi, sarebbe inopportuno. Cioè, non può andare al compleanno di una sua studentessa!»

Sospiro e rido, emulandoti. Ti sei presa gioco di me e delle mie motivazioni, dandomi sottilmente della sciocca. Avevi ragione, adesso lo so. Tutte le paranoie, gli schemi e i preconcetti nei quali avevo permesso che mi confinassero non erano che una gabbia. Non ero capace di accettare una cotta adolescenziale, di prenderla per quello che era; quindi mi fustigavo. E guardami adesso, disinibita oltre ogni previsione.
Con una mano accarezzo i capelli bagnati, che il sole sfiora a momenti. Poche nubi sparute sono sopraggiunte a coprirlo, ma non l’avranno vinta a lungo. Mi do slancio e torno a perdermi nell’abbraccio imperdonabile del lago.
«Riesci a sentire l’acqua?»
La tua domanda mi confonde. Siamo immerse fino al collo e nuotiamo a poca distanza dalla villa. Certo che la percepisco. Eppure, c’è qualcosa nell’intensità del tuo sguardo e nella modulazione sensuale delle tue labbra che mi avverte. L’implicazione è meno banale di quel che potrebbe sembrare. Così, mi limito ad annuire, lasciando indietro ogni forma di perplessità.
«Riesci a sentirla ovunque
Deglutisco. Uno spasmo tra le gambe mi tradisce. Il corpo comprende ancor prima che lo faccia la ragione. Schiudo le labbra, inspiro ed espiro. Poi, un brivido sorprende le mie spalle nude, blandendone le tenerezze. Tremo. Non ho bisogno di parlare. Hai capito senza bisogno di una conferma —mi manca il nostro modo d’intenderci.
«Funziona così nei giochi d’amore». Eccola, un’altra delle tue lezioni. Solo che stavolta non sono pronta. Non adesso che mi trovo nuda, con i seni esposti alla lussuria dell’acqua, senza alcuna barriera a proteggere il mio pudore. «Senti il tuo amante ovunque finché non perdi il senno e c’è solo spazio per il piacere. L’acqua è il piacere, liquida e inafferrabile. Inarrestabile».

L’ho sentito per la prima volta in quel momento, il piacere. E lo percepisco anche adesso, mentre la seta preme sulle mie carni come farebbero le mani di un amasio abile nell’arte del libito. Raggiungo un punto del lago sufficientemente profondo. Lì, il sole ha fatto la sua ricomparsa e si rifrange sul bianco dei miei capelli.
Chiudo gli occhi. Ho quasi diciannove anni, la mia educazione sta andando a puttane —la mia vita sta andando a puttane— e non ho più alcuno scopo. Anni fa, prima di venire in Inghilterra, sono stata tacciata di inutilità. Ai tempi, mi sono dibattuta per dimostrare il contrario. Oggi, quel giudizio torna a ossessionarmi e lo accolgo con un sorriso sardonico. Che altro si potrebbe dire di una ragazza la cui esistenza trascorra in questo modo?
«Non è stato facile trovarti.»
Mi volto di scatto, allarmata. Non avevo previsto di essere interrotta. Non avrei immaginato di trovarmelo di fronte.
«Mia cara, sei una padrona di casa incantevole. Come sempre, aggiungerei!»
Ti lusinga con occhi brucianti, prendendo la tua mano nelle sue e lasciando sul dorso un bacio che non ha mai conosciuto castità. Dev’esserci stato qualcosa tra voi e potrebbe sicuramente ancora esserci perché sento l’aria arroventarsi, ma sono certa che nessuna influenza abbiano le fiamme guizzanti nel camino.
Quando il suo sguardo si posa su di me, che sorseggio avidamente il secondo bicchiere di vino elfico per darmi coraggio, ho l’impressione che il mondo si sia rimpicciolito attorno a noi e che mi sia diventato impossibile il movimento.
«E chi è questa dolce creatura?»
La sua domanda rotola sulla lingua con una leziosità che scuote il mio corpo giovane. Qualcosa nei suoi occhi mi spaventa: la fissità forse, o il colore ambrato —antico come cimeli perduti.
«La mia protetta» rispondi con semplicità e colgo una fierezza nella tua voce che mi commuove. Fai sfoggio di me quasi che mancassi di imperfezioni. Invece lo sappiamo entrambe che nasco difettosa e che certi errori non si possono mascherare. «Verrà presentata in società molto presto. Non essere timida, Nieve, su!»

Lo ero, Roth. O, meglio, ero in soggezione perché al vostro cospetto le mie origini spiccavano come un’ustione sulla pelle tenera. Fatti d’oro e rugiada, vi vedo ancora muovervi con grazia —la stessa che, malamente, tento adesso di emulare.
«Cézanne» pronuncio il suo nome senza nascondere la sorpresa. Sono trascorsi più di tre anni dall’ultima (e unica) volta in cui ci siamo visti. «A cosa devo l’onore?»
I suoi occhi sono come li ricordo. Mentre il silenzio si espande e il suo studio si tinge di spudoratezza, mi accompagna la sensazione che riesca a sondare le profondità dell’acqua; a saggiare le curve del mio corpo. Stavolta, però, non mi intimidisce.
«Sei sbocciata come aveva previsto Astaroth» dice e il mio cuore rifiuta un battito. C’è un passato che preme per farsi presente, ma io non sono pronta a riviverlo. Non posso. «Le ninfee impallidiscono all’ombra della tua bellezza, ma questo lo sai già. Nei salotti corrono voci sui tuoi spasimanti. Sei la sua degna erede!»
Un altro pugno allo stomaco, di quelli che infieriscono sul respiro. Mi celo dietro il rifiuto dei suoi complimenti, oltre il sarcasmo che ben mi si addice. Se di peccati mi si possono imputare, la vanità è il solo che non mi appartenga. E, se di qualità mi si vogliano attribuire, la bellezza non figura tra esse.
«Mi cercavi per dire stronzate?»
Non lo risparmio, ma sfuggo presto ai suoi occhi. Ne temo l’intensità almeno quanto temo le ragioni della sua presenza. Cézanne non si è mai scomodato per poco, di questo Roth non ha fatto mistero.
Un ghigno taglia il suo viso di un fascino eterno. «Aspra...» dice e sembra assaporarmi sulla lingua. Il suo volto trasmette l’eccitazione del cacciatore di fronte alla preda. Una smania che, lo vedo, fatica a trattenere. Mi irrigidisco, sulla difensiva, finché lo sforzo di acquietarsi non produce i suoi frutti e il suo corpo torna a rilassarsi. «Ti cercavo perché non posso fare a meno della compagnia di Villa dei Gigli e, quando ho scoperto che non era più disabitata, ho fatto di tutto per trovarti. Ma non è semplice arrivare a te, Nieve Rigos».
Nuoto nella sua direzione, divertita. I residui della fanciulla che ero lasciano sfumature di insicurezza in me tutte le volte che mi trovo a guardarlo. La giovane donna che sono diventata, tuttavia, ha giocato a lungo con Mefisto e non teme uno dei suoi seguaci. Non lo temo, badate bene, ma non lo sottovaluto; men che meno adesso che la mia magia mi pone in una posizione di inferiorità.
Esco dal lago e ho le iridi cristalline fisse nelle sue. La seta conferma le sue supposizioni: sono cambiata nel tempo trascorso dall’ultima volta che ci siamo incontrati. Lui, invece, è rimasto perfettamente uguale a se stesso.
«Hai riflettuto sulla possibilità che, forse, io non voglia essere trovata?»
La mia provocazione è sfacciata. Non intendo giustificarmi, né assecondare le sue esigenze come gli fossero dovute. Villa dei Gigli appartiene a me. Sono io a decidere chi entra, quando e perché.
«È comunque un bene che io sia riuscito a raggiungere il risultato» mi fa notare, abbassando i toni. Non mi sfugge il modo in cui indugia sul mio viso, sul mio corpo, sul mio collo.
«Fa senz’altro onore alla tua caparbietà» gli concedo. È un gioco di equilibri sottili, il nostro, e mi domando se io stessa possa trarre qualche vantaggio dall’amicizia con Cézanne. «Vorrai che ti offra qualcosa per riprenderti dal viaggio, suppongo».
Il baluginio che colgo nei suoi occhi scuote le mie gambe, allentando per un istante la solidità dei miei propositi. «Ci sono molte cose che vorrei mi offrissi, ma un doppio bourbon, quello della riserva speciale che Roth teneva da parte per me, andrà bene per ora».
«Avrai quello che io ti concederò» lo correggo, avviandomi in direzione della villa. Il suo sguardo percorre la mia spina dorsale come il ruggito devastante di un drago, lo stesso che mi ha portato via Ỳma. Mi volto senza preavviso, sorprendendo me stessa e lui. «Io non sono Roth».
Il mio cipiglio è tirannico, la mia voce irremovibile.
Pronunciare il Suo nome mi strazia.
L’ambra dei suoi occhi è così calda che chiunque potrebbe perdere la ragione a fissarla troppo a lungo.
Riprendo fiato più silenziosamente che posso, le labbra screziate di tormento. «Quindi, qualsiasi privilegio tu abbia avuto con lei, non aspettarti di vederlo ripristinato. Tu, per me, sei un appiglio. Una delle poche cose ancora in vita che mi leghino a lei. È questa l'unica carta che puoi giocare con me, ma sono io a fissare i confini».
La sua mano raggiunge il mio volto, sfiora lo zigomo, poi alcune ciocche sature d’acqua dolce. Sappiamo entrambi che le mie sono soltanto parole, che nell’evoluzione continua del presente molti calcoli verranno rifatti e nuovi risultati condurranno a esiti imprevisti. Una verità rimane, immutabile: io e Astaroth siamo sempre state diverse.
«So che non sei lei. Riesco a sentirlo» risponde e inspira. Il suo accento francese s’intensifica nel sospiro con il quale pronuncia le ultime parole, quasi stesse reprimendo un bisogno e insieme perdendo il controllo che di norma lo aiuta ad essere molto vicino all’impeccabilità. Le sue dita, fredde come la pietra delle fortezze in inverno, scendono lungo il collo e lì indugiano. Mi chiedo se riesca a cogliere anche la furiosa corsa del sangue nella vena sotto la pelle, che rabbrividisce a contatto con il gelo della sua. Lo osservo deglutire. «Portami nel tuo regno, mia signora!»

A questo non mi hai preparata, Roth: ai giochi di potere, ai contatti con l’aristocrazia, ai Cézanne della tua vita, a difendermi da chi ambisce alla tua dimora. Ma la proteggerò, dovessi raderla al suolo e portare con me il ricordo del suo ultimo giglio.
Il mio voto, dunque, il mio nuovo scopo.

'Cause I've got my mind on you


Edited by ~ Nieve Rigos - 29/8/2023, 15:27
 
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I see your face when I close my eyes

Il borbottio del cielo preannuncia bufera —una di quelle estive che ti colgono all’improvviso, inzuppando vestiti e annacquando memorie.
Aspiro una boccata di fumo. Seduta sul pavimento in marmo con il capo rivolto verso il soffitto affrescato, ascolto il vuoto denso della villa. Siamo diventati amici col tempo. Mi ha insegnato quanto prezioso sia il silenzio. Ha reso più semplice mantenere il proposito di isolamento. Ha lasciato correre i pensieri più angusti senza mai disturbarli. Mi ha ricordato che la voragine della quale sono custode si rispecchia nella desolazione della casa in cui vivo. In qualche modo, ci capiamo.
Espiro. La nuvola di aconito e belladonna con un tocco di polvere di fata si innalza, volteggia, danza alla luce pigra che precede la pioggia. Infine svanisce. Sento i passi leggeri della mia elfa domestica farsi più vicini. Non sono del tutto sola.
Non sento nulla. Nulla, come fossi morta anch’io. Com’è possibile che non ci sia più. Che questo mondo continui a muoversi senza di Lei. Qual è il senso di un’esistenza —dell’esistenza stessa— che non La comprenda.
Calore. Si fa spazio oltre all’incredulità e al dolore sordo che batte al ritmo del mio cuore, se frammenti ne sono rimasti. Scorre lentamente ai lati di quello che suppongo essere il mio viso. Sto piangendo dagli stessi occhi che bruciano come tizzoni ardenti, che non smettono di fissare il soffitto, che non lo so ancora ma hanno perso ogni traccia di colore.
La voce lontana di un estraneo parla di catatonia e io non so cosa significhi. Nonna Lucrezia, però, piange. Le sue carezze provano a risvegliarmi. Le parole di nonno Gaspare a confortarmi — “Bambina mia, abbiamo ancora tante cioccolate da bere insieme. Non arrenderti. Io rimango finché questo dolore non lo curiamo”. Le loro lacrime a ricordarmi che, di vita, ce n’è ancora.
«Andate a riposare. Penso io a padroncina stanotte.»
Tilly mi accudisce. Non lascia il mio capezzale neppure per un istante.
«Padroncina ha bisogno di qualcosa?»
Le mie labbra si aprono in un sorriso. La sua dolcezza è la sola fiaccola che rischiari il nero della mia notte. Mi volto a guardarla e i suoi occhioni nocciola mi restituiscono un’espressione preoccupata, che spera di essere riuscita a mascherare. Non mangio dal giorno prima.
«Mi manca» le rivelo.
La voce si rompe e le lacrime fanno presto a impossessarsi dello spazio tra le ciglia. Aspiro un’altra boccata di fumo, generosa, ad occhi chiusi. Le prime gocce vengono giù dai cumulonembi e si abbattono sulla pietra d’ingresso della villa. La prima lacrima solca il mio viso.
«Mi manca così tanto che a volte non riesco a respirare, a pensare ad altro. Come se fosse un’ossessione» provo a spiegarle. «Rivivo i momenti che abbiamo passato insieme, quelli belli, e mi devasta sapere che non ne avrò altri».
Devo fermarmi. Porto una mano al viso e lo copro. La bocca si contrae per trattenere un singhiozzo, ma quello scappa e io lo lascio andare. Perché sei andata via? Perché mi hai lasciata sola? Un tuono risuona nel salotto, seguito dallo scoppio del lampo. Forse Gesù non mi ha abbandonata, anche se io ho rinunciato a Lui.
Alzo lo sguardo su Tilly. «Rivivo i momenti in cui le ho riversato addosso tutto quell’odio e l’ho abbandonata, e mi — serro le labbra e assesto un pugno al mio sterno, poi un altro e ancora, ancora, ancora — MI ODIO, CAZZO, MI FACCIO SCHIFO PERCHÉ SONO ORRIBILE» grido a pieni polmoni.
Stavolta non è il cielo a ruggire. Sono le mie parole a risuonare tra le pareti della villa, risalendo le scale. Serpeggiano tra gli intestizi, spezzando il vuoto e il silenzio —percuotendoli. Piango, incontrollata, le spalle scosse dal cataclisma. La sigaretta giace sul pavimento.
«L’HO UCCISA IO, L’HO UCCISA IO, L’HO UCCISA IO…»
Mi rannicchio, stretta nell’abbraccio candido dei miei capelli. Il tocco leggero di Tilly sopraggiunge presto a consolarmi. Mi accarezza il capo con tenerezza.
«Tilly» sussurro al ninnolo che porto al collo.
Lo schiocco che segue mi conforta. Giaccio ai margini di un vicolo che puzza di piscio e sudiciume. I miei vestiti sono fradici e io semincosciente. Non saprei nemmeno ricostruire le vicende che mi hanno condotta qui. Mi accompagna solo la sensazione sgradevole di essermi cacciata nei guai e il desiderio di voler tornare a casa, di sentirmi al sicuro.
«Padroncina! Sta bene? Qualcuno fatta male? Noi andare via subito!»
La preoccupazione nella sua voce restituisce una parziale conferma ai miei dubbi. Realizzo di avere freddo. Quando apro gli occhi, scorgo la neve e un sorriso si dipinge sulle mie labbra. Adoro la neve. Sembrerà scontato, pensando al mio nome, ma non ha nulla a che vedere con la vanagloria. La sua purezza mi ricorda quei momenti d’innocenza con Ỳma dove non esisteva nient’altro che gioia; e io cercavo gli elfi sotto le rocce, mentre lei se la rideva con la sua bocca sdentata, un'oncia di saliva a sussulto
Tilly non prova la stessa gioia, mi rendo presto conto. Sta tentando di scaldare le mie dita bluastre. Sono i miei denti che battono questo ritmo frenetico?
«Portami a casa» le dico.
Un altro schiocco. Il calore di Villa dei Gigli.
Vorrei che non fosse così. Vorrei illudermi di non aver giocato nessun ruolo nella scelta di Roth. Più di tutto, vorrei tornare indietro e cambiare il corso della storia, la nostra: soffocare il mio stupido orgoglio, essere più matura, impedire a un’antipatia per uno sconosciuto di mettersi tra noi, starle accanto, essere presente.
Con le braccia avvolgo il corpo ossuto di Tilly. Il drappo di lino bianco che indossa raccoglie le gocce di pianto che non sono in grado di trattenere. È la sola con cui riesca a parlare di Roth senza sentirmi giudicata, senza che i sentimenti degli altri verso la mia mentore s’intromettano, senza che il bisogno di consolarmi diventi un motivo per ignorare il mio dolore.
La morte porta con sé urgenza. Non c’è tempo per il cordoglio. Non si può rimanere impantanati nella pena della perdita. Ciò che è stato è stato. Dello sprofondo che l’evento ha generato, dovrai occuparti in silenzio e possibilmente con una certa dignità. Non disturbare, non assillare, non intristire. Non diventare pesante. Smettila di essere la persona più triste del gruppo. Comincia a goderti le cose. Cos’è quello sguardo spento. Sono passati due anni, dai. Dovresti averci fatto i conti. Bisogna andare avanti.
«Padrona voleva bene a padroncina.»
La mia elfa domestica è seduta su una poltrona troppo grande per lei. Le gambe pendono a un paio di spanne dal pavimento e il corpicino non arriva nemmeno allo schienale. Non sposto lo sguardo dal camino, benché le sue parole mi abbiano colpita.
«Io ricordo com’era lei con padroncina. Molto dolce e gentile e sorrideva di più.»
Il muscolo che ho nel petto combatte, indeciso. Tra uno sfarfallio e un salto, sceglie qualcosa che sta a metà e che mi costringe ad attingere al bicchiere di whiskey che ho già rabboccato. È un febbraio gelido, lungo e quieto. La scuola è lontana dai miei pensieri. Esisto a stento.
«Anche padroncina voleva molto bene a padrona. Tilly lo sa. Tilly lo vede ogni giorno.»
Chino il capo. Un paio di gocce turbano la superficie dorata del distillato, salandolo.
Io sono ancora qui, ferma al giorno in cui sono diventata ricca perdendo tutto. Gli occhi non bruciano più, i capelli hanno smesso di crescere e sono rinvenuta dallo stato di catatonia. Eppure, nulla è cambiato. L’eco delle parole che hanno annunciato la Sua morte, pronunciate da bocche diverse e spente, trapassano l’agglomerato molle cui devo le mie pene ma anche la mia sopravvivenza —i meccanismi di difesa che, pur da storpia, permettono che io sia ancora qui.
Le mie spalle tremano quando libero Tilly dal mio abbraccio. Lei si allontana in silenzio. Più di altri, conosce il bisogno di spazio che l’isolamento ha forzato nel mio animo. Per una parte di me che vuole la vicinanza, ne esiste un’altra che la rifugge con terrore.
«Preparami un bagno, per favore» le dico, ancora raccolta nell’antro della mia disperazione. Incrocio il suo sguardo. Ha gli occhi inumiditi. Realizzo che deve aver pianto nel consolarmi, commossa dal mio dolore. Provo una tale pena per lei, per essere costretta ad accudirmi, per tutta l’afflizione che sta indirettamente subendo. «E una brocca di vino elfico. Quella grande».
Sul suo viso s’incastra una scheggia di preoccupazione. Sa che mi perderò, che ottunderò i miei sensi fino al suicidio della coscienza. Ma non ha potere di ribattere. Così, nel suo sguardo di nocciole appena colte, la commozione si trasforma in rassegnazione.
«Sì, padroncina.»

Ti voglio bene, Tilly.

You’re still the oxygen I breath


Edited by ~ Nieve Rigos - 29/8/2023, 21:40
 
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All this love, I'm so chocked up

Scroscia, la pioggia, cosi fitta da produrre un suono tutto suo — forte, reboante, impossibile da ignorare. Guardo la superficie del Lago Nero. È come se migliaia di incantesimi stessero crollando giù a precipizio dal cielo e il suo specchio non potesse fare a meno di inghiottirli coraggiosamente.
Non ho più alcuna percezione del mio corpo. L’acqua ha penetrato ogni più sottile strato di pelle, ogni fibra di tessuto. Tremerei, se non stessi bruciando dall’interno. Il calore che mi colma è tale da sciogliere la neve sotto di me, o così mi sembra nel pieno del mio delirio. Stringo i pugni, le labbra violacee per il naturale rigore di dicembre. Ne abbiamo 3, oggi. È il mio compleanno.
Respiro veloce, in affanno. Fa così male che potrei impazzire. Magari, lo sono già. Cosa sia rimasto dell’essere umano che mi affanno ad essere giorno, dopo giorno, dopo giorno, proprio non lo so. Potreste non capire, ma il 3 dicembre per me non rappresenta soltanto la data in cui sono venuta al mondo — dove e da chi, poi, è un altro mistero che non m’importa di svelare. Per me, oggi, è l’anniversario di…
Stringo i pugni. Le lacrime si confondono con le gocce dolci di un cielo iroso. Mi rigano il viso. Fa male, l’impietoso discendere della pioggia che attacca le mie carni. Farà sempre meno male della bestia che graffia nel mio petto e nella mia calotta cranica, lasciando solchi grossi come crepe nella montagna. Il nodo che mi serra la gola assume una consistenza più solida. È una pietra che cresce, cresce, cresce. La sua mole minaccia di lacerare la grossa vena che pulsa lungo il profilo del mio collo — blu su bianco.
Scatto in direzione della Foresta Probità, tra le mani oggetti che divorano le pelle, i polpastrelli, le nocche. Cancellano le mie impronte digitali, ricordandomi che non sono nulla e mai lo sono stata. Per i primi sei anni della mia vita, il mio nome non è apparso su nessun registro ufficiale. Sono stata un fantasma e lo rimango anche adesso che, un’identità, dovrei averla.
Scappa, il singhiozzo che ho combattuto negli ultimi minuti. Rompe il ritmo perfetto della mia corsa a perdifiato. Che mi importa di essere beccata, del mondo che gira intorno a me con le sue stupide regole, se ogni più piccola porzione del mio corpo si contrae, e dibatte, e implode.
Chiudo le palpebre — non la migliore delle idee per chi stia andando avanti verso l’ignoto, le gambe in movimento. I ricordi scivolano dietro gli occhi con una promessa: sarò per sempre maledetta.
«Astaroth Morgenstern è morta.»

È Grimilde a tranciare di netto il filo in divenire delle mie aspettative con una frase terribile e… inverosimile, a dir poco. La sua eco mi raggiunge e gela il lavorio delle mie sinapsi, dunque induce le mie palpebre a spalancarsi e, da ultimo, a battere il ritmo rapido della confusione.
Dev’essere uscita fuori di senno: è questa la sola spiegazione che io riesca ad elaborare, non appena lo sconvolgimento allenta la presa per trasformarsi in altro. Se ho ricevuto un’epistola da parte di Astaroth in merito a quella che so essere la sua villa, com’è possibile che sia… morta? È così sciocco e palesemente privo di logica. Un morto non può scrivere lettere e ordinare che vengano spedite a destra e a manca, coinvolgendo addirittura un’autorità del calibro del Ministero della Magia. È troppo assurdo perfino per il nostro strambo mondo.
Allora perché, perché non riesco a guardare Grimilde?
I miei occhi rimangono cocciutamente puntati sulla carta.
Non me ne rendo conto giacché non posso vedermi, ma sono pietrificata. Il mio corpo, guardato dall’esterno, rammenta una statua di marmo, lavorata dalle sapienti mani di uno scultore dal gusto sopraffino — sembro viva e, a un tempo, non lo sono mai stata.
Forze contrastanti si muovono al mio interno, trasformandosi ora in calore ora nel gelo più penetrante che le mie ossa abbiano mai conosciuto. Ho le falangi fredde; e il volto e il petto in fiamme. Non mi sono mai sentita così spezzata in tutta la mia vita.

«Tu sei pazza.»
Scivolo anch’io. Il suolo è impregnato d’acqua. Sotto di me, una distesa di fango e ciuffi d’erba. La suola delle scarpe perde aderenza con il terreno. Finisco distesa, ricoperta di terra bagnata. Vorrei dire che la cosa mi disturba, ma sarebbe una menzogna. In quello stesso mare sporco, batto i pugni più e più volte, incurante dello strappo ai collant che consente alla fanghiglia di trovare le ferite sulle ginocchia. Piango, rumorosa. Poggio la fronte sulla piccola pozzanghera che ha già accolto il mio viso. Non ha fatto meno male solo perché l’acqua ha ammorbidito la secchezza stoica del terreno. Acqua, neve, fango arrossano le gambe nel punto di impatto. Ma che importa?!
Stringo i denti, li sento dolere. Il muscolo sulla guancia vibra. Tengo gli occhi chiusi e so che non dovrei. Se li aprissi, forse riuscirei a distinguere la realtà dal passato che mi perseguita. Se li aprissi, magari mi renderei conto della mattìa della quale solo in balìa. È che fa così male… così male.
«Quella è una lettera del Ministero, Nieve. Ti annuncia il mio arrivo, poiché è mio dovere informarti che la signorina Astaroth Morgenstern è… è venuta a mancare. L’anno scorso, per la precisione.»

Le parole dello sconosciuto mi hanno attraversato da parte a parte, così ho chiuso gli occhi. Non è stato l’annuncio della morte di Astaroth a toccarmi, ma il suo sincero dispiacere e il modo in cui ha lasciato che trapelasse dal silenzio che è seguito.

Le mie ciglia tremano e la superficie del mio corpo fa altrettanto, perché d’improvviso sento e vedo tante, tantissime cose: un sapore conosciuto sulla lingua, l’impressione di essere stata espropriata di una parte della mia vita, ricordi che non possono appartenermi.
Le immagini somigliano alla fantasia distorta di ciò che sarebbe potuto essere, non di ciò che è stato, e i suoi frammenti si mescolano, confondendomi. Disegnano episodi fuori fuoco ma tangibili, che prendono forma a un passo dalle mie dita.

Un dolore ignoto, come di magia diventata materia, mi percorre le membra fredde e ho l’impressione che — intorno a me, sopra di me e sotto di me — il mondo sia in trasformazione, dalle fiamme della lanterna ai vetri delle finestre alle fondamenta della casa.

[…] Sono una statua di marmo, fissata per sempre nel tempo non dalle mani di uno scultore, ma dalle parole di Aurelius Morgan.

«Come?»

È colpa mia.
È colpa mia.
È colpa mia.
Che cosa ho fatto?
Mi alzo. Recupero i frammenti che ho portato con me, cimelio di una vita distrutta. Non posso continuare e, allo stesso tempo, non posso smettere. La mia corsa riprende. È come se sapessi istintivamente dove andare; come se le mie gambe conoscessero la strada meglio di me — di quel che ne rimane. Cosa voglia farci con i pezzi di ciò che fu non mi è chiaro, ma lo scoprirò a breve.
È la radura ad accogliermi, uno spiazzale contornato da grossi alberi e dalle loro radici nodose — smuovono il terreno come tentacoli sinuosi. Qui ho conosciuto il mio Thestral. Mi fermo. Getto alla rinfusa quel che le mie mani custodiscono; le sparpaglio qua e là involontariamente. Porto le mani alla testa, muovo i capelli sporchi all’indietro, affondo le unghie nel cranio. Sto andando a fuoco. Muoio e vivo insieme. Voglio solo che smetta.
Urlo. Il grido attraversa la foresta, inerpicandosi fin sopra le fronde degli alberi. Si confonde con la pioggia e il suo scroscio. Prendo la bacchetta. La sfilo dalla manica del cardigan zuppo come se il nostro legame non si fosse spezzato due… tre anni fa. Ringhio. Punto la bacchetta verso le polaroid ammucchiate. Non se ne distinguono più i protagonisti; non sono che un movimento indistinto, distorto dall’acqua.
«INCENDIO» strillo. Le corde vocali si tendono così forte che quasi ne sento il punto di rottura. Non ho ancora finito. «INCENDIO Le fiamme attecchiscono, dapprima furiose, poi tremule, su una sottoveste ecrù — porta ancora il suo profumo, l’essenza di eleganza che emanava da lei, il puzzo della mia disperazione. L’ho stretta a me così spesso in questi ultimi anni. Oh, così spesso!
«Benvenuta, padroncina

Rimango delusa.

No, dicono le mie labbra, perentorie, ma il mio mondo interiore vacilla. No, ripetono, infine lo urlano come se tanto bastasse ad allontanare lo spettro del loro significato.
Getto le chiavi sul pavimento e mi slancio in direzione delle scale. Attraverso l’ingresso finché non le raggiungo. Prendo a salire i gradini in fretta, a due a due, inseguita da una verità alla quale non sono disposta a soccombere.
No, continuo a dirmi, la mascella contratta nello sforzo del rifiuto e i pugni stretti nei guanti rubati.
No,. Semplicemente e irremovibilmente no.

[…] Avanzo, trascinandomi, e scivolo sul ghiaccio dei gradini.
Cado e batto contro il loro profilo acuminato: gli avambracci, le costole, un gluteo. Sto singhiozzando, così forte che la mia gabbia toracica potrebbe schiudersi e cacciare via i polmoni e il cuore — ospiti sgraditi, rumorosi, incontentabili.

Un lamento si diparte dalla bocca piegata.
Striscio sulla ghiaia del cortile antistante la villa, graffiandomi le mani.
Ho il cuoio capelluto in fiamme, le dita che affondano tra le onde d’argento dei capelli.
Poi, un singulto e un’insopportabile bruciore al viso — agli occhi.

Rotolo su me stessa, portando i palmi sulle palpebre chiuse.
Lungo il percorso ho perduto il maglione. L’ho strappato nella speranza di trovare aria.
Contraggo la schiena, creando un arco innaturale, sulla spinta di un male che mi ottunde i sensi.
Non riesco a pensare. Non riesco a respirare. Non riesco più neppure a piangere.

Aiuto, latro e ho paura.
Aiuto, ripeto e sento le corde vocali logorarsi.
Aiuto, chiedo e tremo.

Sento un corpo caldo avvicinarsi al mio, avvolgerlo come si farebbe con una neonata abbandonata in fasce sull'uscio di una casupola diroccata. L’odore sa di casa, di tenerezza, di amore. Ma non è il suo odore, l'odore della mia Roth.

Le spalle riprendono a sobbalzare per il pianto.
E le palme premono sul viso, sulle pupille arse da un male che non ho mai provato prima.
Brucio dentro e fuori. Bruciano gli occhi.
Come se non dovessi vedere mai più.

Aiuto, rantolo di nuovo, più attaccata alla vita di quanto sia disposta ad ammettere.
Ỳma, la invoco e mi stringo al petto che mi accoglie, convinta che sia quello della mia balia.

Ỳma. Ỳma. Ỳma.

È tutto finito. Io sono finita.
Nessuno mi ha mai detto che si può morire anche da vivi.
«INCENDIO Una lettera, la pergamena sfatta dalla tempesta in corso. «INCENDIO INCENDIO INCENDIO.»

Non mi chiedo neppure come sia possibile. Che la bacchetta stia rispondendo al mio richiamo dopo un così lungo silenzio. Non mi stupirebbe scoprire che la vampa distruttiva che solo ceneri sta lasciando al suo passaggio sia scivolata, impetuosa, fino alla punta di tiglio argentato. Brucio dentro e brucio fuori.

Cado sulle ginocchia, i fuochi appiccati quasi del tutto spenti dalla furia liquida del cielo. Batto di nuovo i pugni serrati sul pavimento di fango. Fa male, ma mai quanto la consapevolezza di averLa perduta per sempre. Getto il capo all’indietro. Urlo di nuovo, stavolta così forte da strapparmi le corde vocali. Com’è già accaduto, la metamorfomagia risponde al mio inconsapevole richiamo. Lunghe onde d’argento scorrono sul suolo, crescono, rivoli lucenti presto sporcati dal terreno smosso.

Cado seduta sui talloni, le mani al collo. Fa male, mai quanto la Sua assenza.
Sento il sussurro di nonna Lucrezia nelle orecchie, come fosse ancora qui.
“Che cosa hai fatto?”
Che cosa ho fatto.


Baby, it's hard to breath when you are gone


Edited by ~ Nieve Rigos - 10/1/2024, 16:24
 
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view post Posted on 5/2/2024, 13:53
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entropia.

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Nieve Rigos
18 Anni
Mese di Dicembre, IV anno, bocciata dopo due anni di assenza da Hogwarts
Villa gentilizia in Scozia
Canzone d'ispirazione: Valentine (Aridaje!)
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nieve rigos | lost in darkness | outfit

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«Cézanne… Cosa sussurrano?»
Ingenua. Sono stata ingenua ad accettare l’invito vergato su pergamena, giunto sulle ali di una civetta dagli occhi caldi come i suoi. Ingenua e incauta. Eppure, sorrido — i denti mandorle candide su un viso trasfigurato dalla perdizione. Ho ceduto: al mistero, al pericolo, alla promessa del più totale annullamento. A Cézanne, invece, non ancora. Le sue lusinghe scivolano con malizia sulla mia pelle. Lasciano tracce al loro passaggio, le carezze di una lingua che non riesco a sentire ma percepisco.
È difficile resistere, ammetto per la prima volta da quando ci siamo rivisti sulle rive del lago, a poca distanza da Villa dei Gigli.
So essere stupida. Lo accetto con rassegnazione, mentre avanzo dietro di lui, gli occhi fissi sulla nuca coperta dai lunghi capelli carbone. Umetto le labbra, sensibile all’idea di farlo mio. Tra le mura e i soffitti di questa villa gentilizia in penombra, le intenzioni che ho declamato allora perdono valore nella molle consistenza dello spazio.
Non sono completamente lucida. Ecco perché le pareti mi appaiono della stessa consistenza dei fantasmi e riesco a percepire il suono di ogni respiro, ogni bisbiglio, ogni risata, ogni gemito. Perfino il tocco leggero dei miei capelli sulle spalle nude strofina di lussuria la mia carne. Qui, tutti vogliono perdersi nell’atto ultimo del piacere, urlarlo senza inibizioni.
Cézanne mi mostra il profilo perfetto, continuando a camminare. La smorfia smaliziata sulle sue labbra rosse mi induce a velocizzare il passo, inconsapevolmente. «Te l’ho detto che sei famosa nei salotti dell’aristocrazia che conta.» Parla con la sicurezza che ha inchiodato la me ragazzina nel salone di Villa dei Gigli, togliendole il fiato. Mi piace la sua voce stasera. Non dovrebbe. «Hai un soprannome.»
“Io?” vorrei domandargli. Io che non sono mai stata niente più che un relitto. Io che esisto solo come corpo, senz’anima. Rido piano, sarcastica. Il timore del mio passato sbuca oltre l’orizzonte della coscienza, ma ne è rimasta così poca che non riesce ad aggrapparvisi. Potrei essere anche qui il mossro sulla bocca di tutti e non mi importerebbe, non stanotte. I salotti di cui parla Cézanne, quelli cui mi ha introdotta negli ultimi sei mesi, non giudicano. Perciò, ho smesso di farlo anch’io. Qui, posso essere chi voglio, smarrirmi nella promessa dell’ottundimento.
«E sarebbe?» chiedo, curiosa.
«La Dama Senz’Occhi» risponde, intanto che attraversiamo l’ampio corridoio nel cui sfarzo una coppia produce i suoi lamenti. Li guardo con curiosità. Scopano bene, penso e mi fermerei a guardare se Cézanne non avesse altri piani in serbo per me. La durezza con cui mi sono posta durante il nostro rincontro è scomparsa. Che sciocca a pensare di poterlo (volerlo) tenere distante. «Hai notato che alcuni distolgono lo sguardo?»
«Sì.»
«Temono che tu possa controllarli. Una volta scelta la preda, la Dama Senz’Occhi non lascia scampo. “Quegli occhi risucchiano” dicono con timorosa deferenza.»
Rido, di nuovo. È buffo come la percezione degli altri differisca da quella che abbiamo di noi. Ho fatto talmente l’abitudine a questi occhi, conoscendo la ragione dietro il loro ghiaccio, che ho smesso di curarmene. Sapere che siano diventati motivo di discussione nell’aristocrazia inglese — quella abietta, disposta a travalicare i limiti della morale — è ridicolo.
«Che stron-»
Cézanne mi interrompe, dandomi di nuovo il profilo senza smettere di procedere. Stiamo percorrendo una stanza immersa nell’oscurità, eccezion fatta per le fiamme argento che lambiscono le pareti di marmo di un camino.
D’improvviso s’arresta. La sua mossa è così inattesa che riesco a stento a non finirgli addosso. Questa nuova vicinanza, però, è pericolosa. Lo percepisco guardando i suoi occhi d’ambra, scendendo sulle sue labbra dipinte, trattenendo a stento il desiderio di toccarlo e di sentirmi toccare. È sbagliato, lo so, ma oggi non importa.
«Lo dicono i tuoi amanti, la scia che ti sei lasciata alle spalle.»
La noto, la durezza nelle sue parole. Sei geloso, Cézanne? L’angolo della mia bocca si arriccia. So bene che il sentimento che gli screzia gli occhi non ha nulla a che vedere con una taciuta forma di tenerezza. È che non sopporta l’idea che stia negando a lui quello che invece concedo ad altri. Mi domando se lo sappia, se lo senta e veda, che stasera non sono più tanto sicura di mantenere i miei propositi.
Schiudo le labbra. «Allora, dovrebbero avere più paura della mia bocca che dei miei occhi» commento, la voce carezzevole, gli occhi dardeggianti.
Cézanne scatta. Si avvicina, stringendo le mie braccia tra le dita gelide. Sobbalzo, un singulto trattenuto a stento in gola. Il suo respiro rarefatto accarezza il mio arco di Cupido. Non tenermi così, non guardarmi così.
«Ti fidi di me?»
La sua domanda mi spiazza. No che non mi fido. Non gli affiderei nulla di me, nulla che mi riguardi. L’inferno brucia nell’ambra dei suoi occhi. Li usa per trafiggermi da parte a parte, per inchiodarmi come ha fatto con la ragazzina spaurita di qualche anno fa. Allora perché annuisco?
Ghigna e io lo imito. Non dovremmo stare insieme, io e te. Eppure, attraversiamo l’arco vuoto di una porta. Rabbrividisco al contatto con il velo di magia che deve nascondere, suppongo, i suoi segreti. Poi, mi blocco: al mio cospetto, un altare simile a quello di una chiesa e una folla di occhi taglienti come i suoi. Dietro l’ara, sulla parete, lo scheletro bruciato di un quadro. C’era Cristo su quel po’ che rimane della tela, non è così? Dovrei andare via.
«Seguimi.»

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Cézanne avanza. Non mi prende per mano, non mi guida con l’attenzione di un padre che non voglia perdere la figlia. Non è questo che vuole essere per me, del resto.
Lo seguo come ho già fatto, ignorando il tremore che scuote i residui del mio spirito di credente. Sto rinnegando me stessa, aggrappandomi a una rinuncia che non ho mai saputo onorare dal giorno in cui ho scoperto che Lei era morta. Patetica.
O Dio, che cosa ho fatto?
Non merito salvezza. Non merito te.
Devo lasciarti andare prima che sia troppo tardi.
È per il tuo bene, lo giuro.
Non tornerò mai più, ma ti ho amato.
Sinceramente, con ogni fibra del mio essere, anche nella confusione, ti ho amato. Ed è proprio per amore che ti libero dalla mia presenza — hai già sofferto abbastanza.
Non vegliarmi più.
Non perdonarmi più.
Non aspettarmi più.
Non tornerò da te.
È troppo tardi per me. Lo è sempre stato.
Qualcun altro mi attende.

[Skyfall]

È per questo che sono qui, lo sai? Per Lei.
Non sono riuscita a scrollarmi di dosso la disperazione della notte nella Foresta Proibita, il giorno del mio compleanno. Il mio equilibrio mentale è così precario, ora che la sola persona capace di divorare me e i miei demoni è lontana. E io sono debole, così debole da vergognarmene. Il freddo della pioggia, l’eco delle mie grida, il rosso del fuoco stanno ancora aggrappati alla mia pelle, al mio cuore.
Ecco perché ti seguo, Cézanne. Tu sei perdizione e io ho bisogno di smarrirmi.
Scosto un lembo di tessuto della coscia per scavalcare il corpo nudo di un amasio corrotto dal godimento. I suoi occhi sono vacui, vittime della disgregazione che segue l’orgasmo — lo invidio. Mi faccio spazio tra le anime sfinite stese sul pavimento, tra gli sguardi penetranti che scorrono sul mio corpo, indugiano sulla scollatura, annusano l’aria al mio passaggio. Mi fermo solo quando raggiungiamo l’altare e Cézanne torna a guardarmi. La malvagità che gli trasfigura il viso mi mette in allerta, ma è troppo tardi. È troppo tardi da un po’.
«Bevi» mi intima, porgendomi una coppa d’oro. Le sue dita di neve spiccano tra i rubini di cui è adorna. «Supera il confine della tua morale.» È pericolosa, la mossa che vuole farmi compiere. Lo è di più il vuoto che sento dentro e che ho bisogno di colmare, fosse solo per il coccio di un secondo. «Bevi, Dama Senz’Occhi» ripete.
Prendo la coppa, lo sguardo testardamente puntato nel suo. Sa perché sono qui, ora lo comprendo. Riesce a fiutare l’angoscia che mi ha condotta da lui. L’ha vista nei miei occhi, nel mio viso smunto, nella brama con la quale ho aspirato la polvere di fata prima e bevuto la fiala di Psilocibina poi. Per questo, non fingo più. Per questo, ignoro i simboli religiosi distrutti, profanati presenti nella stanza.
«Salute» ironizzo, poi porto il calice alle labbra.
La sostanza che valica la barriera dei denti e raggiunge la lingua è viscosa, densa più dell’acqua. Capisco subito cos’è, dunque mi fermo e lo guardo.
Non temi che io possa fermarmi, vero? Sai quanto sia disperata, divorata dai sensi di colpa. Riconosci nel quarzo delle mie iridi l’assenza che mi tormenta. È un gioco per te, me ne rendo conto. Vuoi soggiogarmi e assicurarti che sia io a scegliere di sottomettermi a te.
Bevo, di nuovo. Mando giù un boccone più abbondante del primo, infine deposito la coppa sull’altare — o quello che ne è rimasto. Arriccio le labbra, stavolta per il disgusto, non per il divertimento. I suoi occhi saettano in direzione delle mie labbra e così fa la sua mano. Col pollice, accarezza quello inferiore.
Prima di te, un altro ha compiuto lo stesso gesto, ma lui non ha mai voluto farmi questo.
Al suo tocco, il sangue che bagna la mia bocca si fa strada sulla pelle. La tinge, ne deturpa il candore. È finita anche se è appena iniziata, non è così?

Accolgo il tuo bacio urgente con identico slancio. Ti concedo di stringermi i fianchi, di depositarmi sull’ara. Rabbrividisco ad ogni centimetro conquistato dalle tue mani. Sei freddo più della pietra sotto le mie cosce. Non li accarezzo, i tuoi capelli. Li strattono con una violenza feroce. Voglio farti male… oltre il limite della morale. Il tuo collo assume un arco quasi innaturale ad ogni oncia di forza che uso per tirarteli, ma tu ridi. Ridi così forte da scuotere le pareti della mia coscienza, da abbatterle. Non sei l’unico a ridere. Insieme a te, gli esseri traviati dall’immoralità fanno lo stesso. Io sospiro, assecondo i movimenti bruschi del tuo corpo che si distende insieme al mio — sopra il mio — su ciò che fu dell’altare.
Hai smesso, però, di condurre i giochi, di attaccare la carne delle mie spalle, dei miei seni, del mio collo. Ringhi ogni volta che vi accosti il viso, incapace di trattenere un suono cavernoso che sa di furia e di sofferenza. Non mi importa, come a te non importa di me. Voglio dominarti. Voglio sancire la scelta che ho preso stanotte, sentire il vuoto venire divorato dalle fiamme.
Fottiti, Dio! Io fotterò sul piano dei tuoi sacrifici. Stasera non ti amo. Ti odio perché impazzisco all’idea che Lei sia con te e non con me.
Scosto il tessuto della gonna, sovrastandoti. Lo lascio frusciare contro la tua pelle e la mia. Poi ti prendo, mugugno e getto il capo all’indietro. I capelli ricadono sulla schiena. Un sorriso sale alle mie labbra e rido anch’io — insieme a voi. Tienili, i miei fianchi, e illuditi di potermi imporre il ritmo che desideri. Io, invece, ti punisco ad ogni colpo di reni, ad ogni impatto della mia carne sulla tua, le mani a strattonare la giacca disfatta che cade ai lati del tuo sterno snudato dalla mia frenesia. Non ti bacio più. Nella tua bocca non trovo nulla se non desolazione. Sei una notte che porta gelo e morte con sé.
È tutto giusto. È tutto sbagliato. Sono dove devo stare.

Valentine, my d e c l i n e is so much better with you



Edited by ~ Nieve Rigos - 14/4/2024, 21:07
 
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view post Posted on 24/3/2024, 22:06
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Nieve Rigos
18 anni
Dicembre-Gennaio
Parigi
Ambientazione: dopo Control
Canzone di ispirazione: P l a y


Me voilà même si mise à nue j'ai peur, oui

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«Bienvenue, mademoiselle.»
«Come facevi a sapere che sarei venuta?»
«Non hai nessuno con cui passare le feste.»

Sorrido e il sapore della sua insinuazione, scivolata nella fessura tra le mie labbra schiuse, ha un lascito amaro sul fondo le lingua. Cézanne non va mai per il sottile. Non mi risparmia perché sa che non ne ho bisogno. Riesce a scorgere la mia forza dietro la fragilità che il mio aspetto vuole suggerire. Una volta mi ha detto che posseggo la bellezza delicata di un giglio ma le radici inestirpabili di una quercia che stia sullo stesso terreno da secoli. L’ho preso come un complimento, il primo uscito dalla sua bocca stucchevole, perché ho compreso — solo allora. Non è per le gambe affusolate, per i fianchi curvilinei, per le cosce accoglienti che mi desidera. È per la forza vitale che m’invidia, la stessa cui ha rinunciato.
«Vogliamo andare? Paris est gentil avec le lys.»
Mi porge la mano, il palmo rivolto verso l’alto. Indugio sul ricciolo che adorna la sua bocca inaffidabile. Infine gli concedo la mia.

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La lingua di freddo che penetra attraverso le imposte accostate mi accarezza i polpacci nudi. In lontananza, scorgo la candela di lucine gialle che vigila su Parigi — quell’accozzaglia di ferro per cui i turisti tanto si entusiasmano.
Porto la sigaretta alle labbra. La camera è quieta; odora di sesso. Le mie stesse carni ne portano i segni nei brividi che ancora non riesco a frenare. Non è solo piacere quello che provo con Cézanne. È paura. So cosa potrebbe farmi. Forse, voglio che lo faccia; che si nutra di me e mi lasci andare nel modo più dolce in cui si possa morire. Lo desidero tutte le volte che nomina Roth, torturandomi per accrescere la furia con cui mi abbatto su di lui la notte; lo fa perché ha dimenticato come si faccia a provare emozioni umane, perché riesce ad annusare il dolore che rilascia il mio corpo e lo affascina la sua essenza. Vuole coglierla, ricordarla.
So cos’è. Non me l’ha mai detto né l’ho fatto io. Non ce n’è bisogno. Ha lasciato abbastanza indizi da permettermi di arrivare alla giusta conclusione come si giunge a un banchetto la cui portata principale stia disposta al centro del tavolo su un vassoio d’argento. Certo che ho temuto la scoperta. Certo che mi spaventa ancora adesso stare insieme a lui. Ma Cézanne ha ragione: sono sola come lo è lui.
Thalia ha la sua famiglia, Isabella i suoi cari. Gli stralci smembrati di affetti abbandonati alle mie spalle dopo la morte di Roth potrebbero avermi dimenticata; per non dire che non ho il coraggio di tornare sui miei passi temendone il livore, il rifiuto. Mi affaccio all’alba di un nuovo anno nella città più romantica del mondo alla stessa maniera in cui sono nata: in un fagotto di vagiti inascoltati. Le braccia di Cézanne non sono quelle di Ỳma. Lui non mi ama e, per questo, non può colmare il vuoto scavato dentro dalle unghie affilate del senso di colpa. Ci facciamo compagnia e, insieme a noi, le nostre perversioni.
«Parigi non è una città fatta per pensare.» La sua voce è un tocco leggero sulle palpebre chiuse. Qui, in Francia, il suo accento s’intensifica e i suoi occhi d’ambra brillante quasi emanano calore; solo quasi. «Parigi è fatta per essere vissuta.»
Lo guardo in silenzio, intensamente, a lungo. Non è con te, che di vita non ne sai più nulla, che vorrei godermela, penso. Una voluta sottile di fumo lascia le mie labbra. Porto l’attenzione sul paesaggio oltre il vetro della finestra. Uno strato candido di neve imbianchisce i lati delle strade, i tetti, i piccoli o grandi monumenti lasciati qui e lì negli angoli più sorprendenti. Le palpebre calano piano, raccolgono i ricordi. Li scaccio via con una boccata di belladonna e psilocibina.
«Esci di qui. Devo vestirmi.»
È contraddittorio. È da me.

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«Io l’ho conosciuto: Shakespeare.» Cézanne pronuncia queste parole al piano superiore della Shakespeare and Company, dando un’occhiata in giro con un’espressione sul viso che ricorda alla lontana la nostalgia. «Eppure, ci credi che gli esseri umani sono così sciocchi da mettere in discussione pure l’ovvio? “Forse non è esistito”.»
Ride piano in quel modo che ho imparato a riconoscere come estrinsecazione di alterigia. Adesso che colgo le sfumature dietro l’accurata elaborazione delle sue frasi — “gli esseri umani sono”, non “siamo” —, non mi interrogo più. Lo interrogo, invece, curiosa.
«Com’era?»
«Sognatore, romantico.»
«Uguale a te.»

La mia provocazione lo diverte. Mi scocca un’occhiata ardente. Gli piace che, nonostante abbia capito cosa sia, non lo tema; o, comunque, non abbastanza da non dargli filo da torcere quando le circostanze lo richiedono. Sfilo un libro dalla scaffalatura davanti a me. Poco più in là, c’è un divano (o un letto improvvisato tale) circondato da specchi. Sopra il tessuto che lo ricopre, un gatto a striature grigie guarda Cézanne, torvo. Apro la copertina, sfoglio le pagine. Non conosco il francese. Non potrei mai capire.
Il mio accompagnatore sembra leggermi nel pensiero. «Posso insegnarti» sussurra al mio orecchio. «Sono bravo con le lingue.»
L’insinuazione parla così chiaro che non ha bisogno di essere sottolineata. Io trattengo a stento il sobbalzo cui il mio corpo vorrebbe lasciarsi andare. È così freddo. Riesco a percepire l’inumanità della sua temperatura perfino se non mi tocca. Non gli darò la soddisfazione di sentirmi tremare per lui.
Chiudo il libro di scatto e lo ripongo al suo posto. Mi volto lentamente, consapevole della sua vicinanza. Non dovrei essere qui. Non dovrei essere con lui. Ma con chi altro potrei trovarmi senza sentire il peso della mia ridicolezza? Cézanne ha un grande pregio: non giudica e non compiange. Non prova pietà per me. Voleva che venissi a Parigi, da lui. Qualunque motivo mi ci abbia portato non è di suo interesse.
«Dovrò esercitarmi parecchio.»

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Il sesso con lui non mi soddisfa. O, meglio, soddisfa il mio corpo. Lascia, però, inappagata quella parte di me che ha ripreso a lampeggiare da poco meno di un anno nell’abbraccio delle tenebre. Lei ha bisogno di calore e Cézanne non può dargliene.
«Ordina qualcosa da mangiare o non avrai forze» flauta, tuttavia non è la mia salute che ha a cuore. Sono le mie performance, il gioco che rappresento ai suoi occhi.
«Tu non puoi scegliere il servizio in camera, immagino.»
Sogghigna di nuovo, riallacciando piano i bottoni della camicia inamidata di fresco. Dovrebbe importarmi, lo so. Dovrei farmi delle domande sulle sue vittime, su quali atrocità commetta senza rimorso perché sono le stesse che potrebbe agire su di me. È che, quando sono in sua compagnia, la mia morale perde la bussola e semplicemente non m’interessa — delle mie sorti, di quelle degli altri, dei peccati di cui mi macchio. La sola cosa che mi spinga verso di lui è l’assenza di confini che allontana la prorompenza dei miei problemi. Le feste sono un brutto periodo da passare da soli con i propri mostri. Tra loro e la bestia che incarna Cézanne, preferisco la seconda.
«Potrei, ma sarebbe… complicato.»
La Nieve ironica vorrebbe augurargli una buona cena, ma è di cattivo gusto perfino per lei.

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«Questo chapeau ti dona. La Francia è un vestito che ti sta d’incanto.»
«Hai finito con queste cazzate svenevoli?»

Mi affaccio sulla Senna. Il parapetto di Pont d’Arcole accoglie le mie braccia e lascia che vi scarichi parte del peso. Il cappotto che indosso — nero come gli occhi miei quando perdo il controllo — mi protegge a stento dal freddo. Il berretto bordeaux casca all’indietro sui capelli bianchi. Lo indossavano i pittori negli anni Settanta del 1800, mi ha spiegato Cézanne. Probabilmente anche prima e sicuramente dopo, ha aggiunto. Il punto è che l’impronta del loro passaggio è rimasta in Francia in tanti piccoli dettagli cui nessuno presta più attenzione.
«Ti piace, non è così?»
La sua domanda suona più come una constatazione. Si riferisce a Parigi, all’aria che si respira qui, alla sensazione di libertà che mi infonde. Qui, potrei iniziare tutto daccapo. Sa che lo sto pensando, che non ho smesso di domandarmi se questa potrebbe essere la mia nuova casa. Mi costa ammetterlo, ma è riuscito a tentarmi. È entrato nel mio petto, ha grattato le croste che Isabella e l’Umanoide hanno fatto tanto per creare con l’intenzione di proteggere le mie ferite. Cézanne ne ha rimosse alcune. Vuole che s’infettino ancora.
«Sì, molto» confesso. Non avrebbe senso mentire. Capirebbe ugualmente. «Profuma di sconfinato.»
Lo sento ridere. «Anni fa, nessuno avrebbe mai detto che Parigi profumasse.»
Mi insegna tante cose. Giorno per giorno, colma parte delle mie lacune. Lo fa non con l’attitudine dello studioso. Lo fa perché, le cose di cui mi parla, le ha vissute davvero. E mentirei se dicessi che non lo trovi affascinante: la dinamica dietro la sua natura, i punti oscuri dei quali vorrei sapere di più, la naturale eleganza con cui la incarna. Non domando mai, però. Sarebbe come compiere un passo oltre il confine tra ombra e luce; dargli un vantaggio per tirarmi a sé.
«Dove mi porti a cena?»

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Montmartre brilla di luce propria. So che è un modo di dire non troppo originale, che chissà quanti devono aver usato per descriverla, ma è così. Per questo motivo, è tanto diffuso, suppongo. O, magari, il mio vocabolario è troppo povero per elaborare un pensiero meno comune.
Seduta a un tavolino ai margini delle stradine ricoperte di un sottile strato di ghiaccio, sorseggio un bicchiere di vin brulé. Non è stagione di cene all’aperto e, infatti, è all’interno che abbiamo ho mangiato. Un tipo qualunque ha preso posto al pianoforte del locale per suonare una melodia a me sconosciuta. Poco dopo, una donna si è alzata e ha cominciato a cantare. La disperata confusione portata dalle sue parole, a me incomprensibili, mi ha vista stringermi nelle spalle. Mi sono chiesta se stesse raccontando della sua sofferenza, se le nostre fossero simili, se mi comprendesse anche senza conoscermi. Non mi sono accorta di aver pianto finché la falange gelata di Cézanne non ha raccolto una lacrima dal mio viso e se l’è portata alla bocca.
Mi assaggia. Lo fa di continuo. «Voilà» gli ho detto.
«Voilà» mi ha risposto. «Resta» chiede, invece, adesso.
I miei occhi fissano i suoi. Mesi addietro, ho rivolto la stessa supplica a qualcuno che non è lui. La differenza è che io non ho mai voluto imprigionare né corrompere la persona cui sto pensando adesso. Cézanne, di contro, vuole attirarmi nelle sue spire e stringermi. Vorrebbe che lasciassi la scuola, Villa dei Gigli, quel po’ che mi aspetta a Londra. Vorrebbe che rinunciassi alla mia vita.
Il fatto è che la sto soppesando, la sua richiesta. Un’esistenza di raffinate dissennatezze è una tentazione imperiosa per un animo come il mio. Assecondarlo significherebbe spegnere la luce, vagabondare nelle tenebre insieme a lui, mano nella mano. Mi esibirebbe nei salotti francesi come fa in quelli inglesi. Sarei il gioiello rubizzo di vita in una corona di morti inverecondi. La solitudine sarebbe soltanto quella dell’anima, finché non decidesse di togliermi anche quella. Ma, abbandonata, non lo sarei mai con Cézanne.
«N’est pa possible» gli faccio eco con una delle poche frasi apprese in questo viaggio
«Tout est possible.»
Forse ha ragione. O, forse, ce l’ho io.

Regardez moi, ou du moins ce qu'il en reste
Regardez moi, avant que je me déteste


Edited by ~ Nieve Rigos - 25/3/2024, 12:41
 
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