Sabotage

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~ Nieve Rigos
view post Posted on 27/3/2020, 13:05 by: ~ Nieve Rigos
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entropia.

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Nieve Rigos
17 Anni
3 Dicembre, IV anno
Segue: ~ Ỳ m a



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«Dobbiamo cominciare a pensare al vestito che indosserai per il tuo diciassettesimo compleanno.»
La considerazione di Astaroth irrompe nella stanza, importunando il silenzio pigro che vi regna. Un po’ a malincuore, assecondando la sensazione di sorpresa venuta con l’enigma appena sottopostole, Nieve schiude le palpebre e si volta nella direzione dalla quale proviene la voce. Attraverso l’abbraccio prepotente del sole all’imbrunire, scorge la sagoma della sua mentore fiancheggiare il camino — è impossibile non soffermarsi sulla perfezione della silhouette disegnata dal velo di chiaroscuro.
«Non ti pare un tantino prematuro?» le fa notare, dunque, intanto che un sorrisetto le incurva le labbra e, beata, giocherella distrattamente con lo stelo del calice che trattiene tra le dita. È un anonimo pomeriggio di metà inverno, sul castello batte la fiacca delle ultime ore del giorno, e la Rigos si trova esattamente dove desidera stare. Da qualche parte su un tavolino giace, abbandonato, il suo mantello della disillusione. «Cos’avevi in mente?»
Lo scintillio di divertimento che giunge a esaltare il taglio felino degli occhi di Astaroth provoca una risata nella più giovane delle due: un quesito è bastato a smentirla, a dispetto di qualsiasi apparente forma di noncuranza. Nieve le mostra la lingua, impertinente, attraverso le labbra illividite dal vino elfico.
«Be’, Villa dei Gigli sarebb-» fa il tentativo di rispondere l’una, ma le viene impedito di continuare.
In men che non si dica, la Rigos scatta a sedere e, nel farlo, rovescia parte del contenuto del bicchiere sulla camicia linda della divisa — non se accorge neppure.
«Cosa?» trilla l’altra, fuori di sé dall’esaltazione. «Organizzeresti qualcosa a Villa dei Gigli per me
L’ombra del disappunto solca rapidamente i lineamenti della Morgenstern, prima di dissiparsi al cospetto dell’evidenza. Lo scetticismo della sua pupilla non cela alcuna offesa; è la naturale reazione di chi, non avendo mai posseduto nulla al mondo, non sappia aspettarsi qualcosa di bello dalla vita. Nieve è così genuinamente attonita da non accorgersi neppure della trasformazione innescata nella sua interlocutrice, allorché il fastidio sul viso di Astaroth assume le sembianze della tenerezza.
Se l’avesse osservata con più attenzione in questo momento, non avrebbe mai dubitato del suo amore in futuro, né si sarebbe lasciata annientare dal sospetto di essere stata tratta in inganno; di aver adorato unilateralmente. Invece, non è così che si declina la sua storia in travaglio di giovane donna.
«Ti sei versata del vino addosso» le viene fatto notare da Astaroth, un cenno regale della mano in direzione del petto chiazzato e, sulla bocca, la smorfia invaghita di chi abbia di fronte un cucciolo buffo dei cui pasticci non sappia proprio arrabbiarsi. «Ma, sì, pensavo di tirare su una bella festa alla villa per celebrare il tuo ingresso nel mondo degli adulti» le concede, infine, levandola dal fastidio di starsene scomodamente sulle spine. «Pensi che, dopo averti presentata a tutti come mia protetta, potrei comportarmi come se nulla fosse? Avrai il tuo personalissimo gala!»
L’estremità dei polpastrelli di Astaroth sfiora la sommità del capo di Nieve. Non ha fatto neppure in tempo a terminare la spiegazione ché l’altra le aveva già gettato le braccia al collo — la tiene stretta, adesso, Nieve, con tutta la forza che possiede nelle membra tormentate, col disperato timore di vederla sparire in uno sbuffo d’allucinazione. Per rassicurarla, la Morgenstern le cinge le spalle e la trascina in un dondolio accennato; la dolce culla umana che la piccina d’Islanda ha sempre agognato.
«Grazie, Roth» le sussurra, allora, trasognata.
«Mi ringrazierai quando avrò dato l’invito a Christopher…»
Il bolide dello sgomento induce Nieve a farsi indietro con tutto il corpo. Osserva Astaroth con occhi sbarrati, puro terrore nella malachite delle sue iridi. Poi, un insistente bruciore alla tempia destra le rammenta il vero; cos’è che ha fatto senza mai confessarlo.
«Non-pensarci-neppure» finge.
In fondo, importano solo loro due.

Mi desto, avvolta nell’abbraccio delle coperte. Il sole del primo mattino prorompe nel dormitorio attraverso le finestre, scomponendosi per mettere in mostra il proprio spettro. Mi stiracchio sotto il lenzuolo, pigramente. Ho ancora voglia di dormire, oggi che posso; oggi che è Domenica. Eppure, una strana urgenza mi intima di non indulgere troppo a lungo nel tepore della camera addormentata. Non me ne illustra le ragioni. Vuole soltanto che mi alzi dal letto.
Intanto che decido di concedermi un’ultima parentesi di ispirato languore, sul punto di riabbassare le palpebre, mi rapisce l’esecuzione di un movimento inatteso e mi volto nella sua direzione. Costernata, aggrotto fronte e sopracciglia, poi spalanco gli occhi e mi guardo intorno con circospezione. Sono… sono io. O, meglio, è il mio corpo quello che scorgo incamminarsi verso il bagno, insistendo sulle punte per non svegliare le compagne. Tasto la consistenza morbida del materasso per assicurarmi di poterlo toccare, dunque scatto a sedere e, nella speranza di svelare il segreto di quest’assurdità, m’inseguo.
Faccio appena in tempo a insinuarmi nell’ultimo residuo di spazio, prima che la porta si chiuda e la serratura mi… be’, ci isoli dal resto della camerata. Che sta succedendo? La domanda risuona nella mia mente confusa e potrei impazzire, arsa dal bisogno di capire, se l’espressione sul mio viso — l’estraneo, quello che si muove al di fuori di me — non catalizzasse tutta la mia attenzione.
C’è qualcosa che non va. Me ne rendo conto osservando i lineamenti dell’altra Nieve: cogitabonda, si rimira nello specchio che sta sopra le ceramica del lavabo. Perfino nel mezzo della nuvola di vapore che promana dal cubicolo della doccia, noto la sfumatura di mestizia che esacerba la tonalità violacea delle palpebre inferiori. Mi avvicino — solo un po’ — per cogliere attraverso uno sguardo diretto quello che il riflesso appannato sul vetro non saprebbe mai rivelarmi; e ne capto la tristezza. Perché è, perché siamo tristi? Il quesito mi assilla, così compio un passo in avanti, ma Nieve si discosta e si trincera sotto la protezione dell’acqua calda. È così che scopro di non poterla toccare.
Per quanto tenacemente lo desideri, non mi è permesso di ricongiungermi al mio corpo. Così, mi limito a pedinarlo per l’intera giornata: su per le scale, via lungo i corridoi, ancora attraverso le stanze ora vuote ora gremite. Sto sempre un passo indietro — io Achille, Nieve la maledettissima testuggine che non mi riesce di superare per quell’unica falcata di vantaggio. E, in questo infinito peregrinare, la osservo godersi un’esistenza apparentemente piena, viva in modo quasi doloroso per me che non riesco più a percepirla; che mi muovo in un limbo intangibile.
È proprio seguendola che mi è concesso il privilegio di un’altra epifania: è il nostro compleanno. Lo realizzo nel momento in cui il corpo di Nieve viene cinto dalle braccia di Thalia, allora sorrido. Mi ritrovo a osservarle, a capo inclinato, con un’invidia mista a stupore, mentre i fasci del giorno investono tutte e tre noi. Un augurio, la promessa mantenuta di non farci nessun regalo, il bisogno cocente di dissimulare. Guardo Nieve fingere una risata a una battuta sulla vecchiaia incipiente ed è così realistica che, per un istante, mi domando se ogni cosa non stia tornando al proprio posto. Tuttavia, quando azzardo il tentativo di accostarmi alla sua schiena, la vedo allontanarsi con una scusa — da me e anche da Thalia. Ha da fare, dice, un appuntamento immancabile col capo alle soglie di Hogsmeade; se dovesse disertarlo, correrebbe il rischio di venire licenziata e, diamine, mi affretto anch’io perché non voglio che accada.
Scopro un istante più tardi che abbiamo mentito; cioè, una di noi lo ha fatto. Invece che prendere le scale destinate a raggiungere i piani inferiori, invero, imbocchiamo il cammino che conduce presso una delle torri. Nieve sembra assorta, assente. Ha lo sguardo perso nel vuoto, le mani abbandonate lungo i fianchi, il passo incurante di una marionetta. Un paio di ragazzi la salutano amabilmente nel pianerottolo tra una rampa e l’altra, ma lei continua imperturbata. Osservo i due scambiarsi un’occhiata confusa, dunque esibire una scrollata di spalle e liquidare la questione. Due gradini più tardi, hanno già dimenticato l’inconveniente.
Stringo i pugni e serro le labbra, furente. Com’è possibile che non vedano? Accelero il passo per recuperare la distanza. In tutto questo incollerirmi, l’ho persa di vista. Il legame che ci unisce, però, rende impossibile smarrirsi. Me ne rendo conto dal modo tutto istintivo in cui giro a sinistra invece che a destra, sulla cima delle scale, e la ritrovo.
Oh!
Adesso comprendo — sento il battito accelerare nel petto, le mani farsi fredde e le gambe molli come burro —, perciò chiudo gli occhi, scorata. Finalmente capisco perché mi stia tenendo a distanza, per quale ragione abbia deciso di separarsi da me proprio in questo giorno, e la consapevolezza di non esserci arrivata prima mi strappa un sospiro. Avrei dovuto intuirlo; avrei dovuto saperlo.
Le iridi di Nieve fissano le assi di una porta chiusa dal di fuori. Un lieve strato di polvere insiste nel foro vuoto della serratura, segno che nessuno l’abbia più aperta da tempo. È l’entrata che conduce allo studio di Astaroth o, dovrei dire, a quel che ne è rimasto. Dischiudo le palpebre e indugio nell’impresa titanica di ricongiungermi a lei perché non senta il peso della solitudine in tutto quel dolersi, ma i miei desideri rimangono sviliti dallo scarto lesto del corpo che non riesco a sentire. E vorrei tanto biasimare Nieve per uno sfoggio di ostinazione atto solo a tardare l’inevitabile, ma mi manca il coraggio.
È terribile essere me. Inerme, soccombo al bisogno di gettarmi sul pavimento e diguazzare nel pantano della mia miseria fino a esorcizzare la mancanza. Intanto che Nieve guarda il legno solido e inconsciamente rimpiange ciò che non potrà mai più venirle restituito, mi ritrovo carponi sulla pietra antica del castello e la innaffio con le lacrime che rigonfiano il borsello delle mie emozioni per impoverirmi e ricominciare daccapo. Non serve a niente, eppure, se non è anche Nieve a volerlo, a sentirlo.
Ancora china sulle ginocchia e sui palmi, la osservo riscuotersi e scrutare l’uscio con un misto di sgomento e rassegnazione. Ha l’espressione di chi non sappia come sia finito dove si trova, ma riesca a immaginarselo perfettamente. Per questo, assumendo la posa rigida del militare, ruota su sé stessa e s’incammina per ridiscendere le scale. Mi ferisce notare quale atteggiamento assuma nell’oltrepassarmi — incurante, altero, distaccato. Allora, mi sollevo e riprendo a inseguirla nel dedalo di finzione cui costringe entrambe.
Riprende a salutare allegramente chiunque incontri lungo cammino e c’è una tale spontaneità nella maniera con la quale prende in prestito sentimenti che non ci appartengono da darmi l’illusione di essere in errore. Forse, sospetto, sono io a non metterci abbastanza impegno e dedizione; a logorarmi nel patimento che Nieve vorrebbe lasciarsi alle spalle. Così, m’impongo di emularla con l’obiettivo di essere uguale a lei e migliorarmi.
Agito la mano in direzione dei conoscenti, imbocco i passaggi meno frequentati di Hogwarts a suon di saltelli, accarezzo il vetro istoriato di una finestra e mi beo della sensazione di fresco dovuta al contatto, zufolo un motivetto antico che riesco a ricondurre soltanto a Ỳma. Quest’ultimo pensiero deve turbarci più del previsto perché, d’improvviso, fatico a mantenere invariata la mia posizione e perdo terreno. Tutte le volte che tento di ripristinare la distanza di un solo passo da Nieve, una forza respingente m’impone — perentoria — di stare al mio posto. Chiedo spiegazioni senza capire. Cos’ho fatto? È forse per la melodia? Non… non volevo renderci di nuovo tristi. Chiedo scusa.
L’aria gelida di Dicembre rinfresca i pensieri e li disancora dall’affanno di saperci lontane. Vorrei combattere contro la barriera che ci divide e disintegrarla; o urlare fino a perdere l’uso della voce per farmi sentire da Nieve e costringerla a prestarmi attenzione. Più di tutto, vorrei correre verso di lei e abbracciarla; stringerla così forte da farci male entrambe per assicurarmi che non mi respinga mai, mai, mai più; per prometterle di essere buona ed eseguire qualunque suo ordine; per spiegarle di non aver inteso causarle sofferenza neppure per un momento. Non è per questo che sono qui e lei… Cielo, lei non può mandarmi via in questo modo tutte le volte che è semplicemente troppo!
Mentre attraversiamo il suolo di cristalli che scricchiolano sotto il nostro peso, mi riscopro arrabbiata. E avanzo verso Nieve a passo di marcia. Quando il muro invisibile torna a ripudiarmi, dunque, io mi abbatto con più forza contro i suoi palmi invisibili e persevero — ancora, ancora e ancora — finché non lo percepisco infiacchirsi. Allora, Nieve accelera il passo e, per la prima volta da che è sorto il sole e ci siamo separate, si volta a guardarmi. Scorgo un accenno di panico nelle sue pupille brune, infinite polle di disperazione, dopodiché la vedo correre via in preda al terrore. Faccio altrettanto, caparbia al limite dell’ossessione.
Quando oltrepassiamo il limitare della Foresta Proibita, riesco a immaginare dov’è che stia andando. Abbiamo trascorso pomeriggi interi alla ricerca del lago reietto, nelle cui acque abbiamo quasi perso la vita, e un bisogno tutto nuovo di affrettare i tempi mette le ali ai miei piedi. Scopro presto che mi sto sbagliando, che i miei presagi peccano di presunzione. Per bene che la conosca, infatti, non colgo la natura delle sue intenzioni.
La superficie del bacino, indurita dal rigore invernale, si beffa di me. Nieve non è venuta qui per concludere ciò che non ha potuto compiere mesi addietro. Ma, allora, cos’è che vuole fare? Le orbito languidamente intorno, attratta da lei. Ha le palpebre calate sugli occhi, le mani ai lati del corpo sospese a mezz’aria, il respiro corto che si condensa a un soffio dalle labbra schiuse. Una smorfia di dolore increspa i lineamenti del suo viso piccino, giacché un’urgenza sfrenata mi prende e induce a dispormi a un passo dal profilo del suo orecchio — neppure mi accorgo del permesso accordatomi, del lusso di quella ritrovata vicinanza.
“Dillo” le ordino, suadente. “Di’ il suo nome!”
Nieve resiste. Nei pochi centimetri tra noi, c’è quanto rimane della risolutezza e della forza con cui mi ha scacciato nelle ore trascorse. Non vorrebbe arrendersi. Me ne rendo conto dalle increspature che le intarsiano la fronte, dagli spasmi delle dita lunghe, dalla tensione con cui mantiene, immobile, la posizione. Spera che ingannare il dolore — che io rappresento, trasporto, custodisco — con una perfetta mimesi basti a scacciarlo, a farlo passare oltre come lei ha fatto con me sulla torre di divinazione; che la scambi per la riproduzione di un’umanità altra e non la ritenga realistica abbastanza da curarsene. Ma non è così che funziona e, per quanto intensamente lei possa vagheggiare illudersi, io so che il nostro ricongiungimento non le risparmierà la sensazione di tirannica perdizione che ha già sperimentato e che, negli ultimi mesi, è riuscita ad arginare.
“Di’ il suo nome” ripeto e non è per capriccio — perché il ritrovamento tra noi due possa realizzarsi, dev’essere lei a disporlo. “Una volta soltanto…”
Nel silenzio sepolcrale che ci attornia, osservo, meravigliata, le onde d’argento dei suoi capelli allungarsi verso il basso e strapparle un mugugno. La criniera sbarazzina che solitamente le sfiora le spalle, ebbene, si trasforma in un folto intreccio di curve e scende giù fino a sfiorarle le ginocchia con una carezza rassicurante. Le labbra di Nieve, allora, si arricciano per un momento, piegate dall’esigenza di trattenere il pianto, e le ciglia si stringono più forte tra loro. Un’ultima, blanda resistenza, poi…
«Astaroth!»

È intollerabile, disumano, mortale.
Quello che sto provando va oltre ogni mia più fosca immaginazione.
Il profumo di Astaroth è così intenso da adombrare l’odore freddo dell’inverno.
Sento le sue dita lungo il corpo stringermi forte per placare col conforto l’impeto dei sussulti; ma è troppo distante perché basti il ricordo.
Celo il volto sotto la protezione delle mani, poi le porto tra i capelli.
Premo i polpastrelli sul cuoio capelluto alla ricerca di una parvenza di ristoro e li sento sbiancare nel fastidio sordo che produce quest’atto di violenza.
Dannata, dannatissima mente!
Nemica beffarda, traditrice ingrata, serpe tra i seni!
Cos’è che vuoi ancora, eh?
Cosa vuoi ottenere col tuo infinito, morboso tormento?
Non ti ho dato forse tutto di me?
La gaiezza, la speranza, l’amore, l’entusiasmo, il tepore!
Vagabonda, erro per questa vita che ti ho quasi sacrificato e mi faccio piccina per non scuoterti, per assecondare i tuoi bisogni. Ed è così che mi ripaghi. Per un attimo di gioia, ne seguono decine di patimento. E, quand’anche avessi la decenza di acquietarti per un solo istante, torni a riscuotere quello successivo, instancabilmente, con avidità — sempre di più, di più, di più.
Ma non lo vedi che non mi è rimasto nulla?
È la pace che bramo, la semplicità struggente di un sorriso timido al sole del tramonto, l’illusione chimerica di poter pensare a Lei senza che il resto smetta di esistere e non mi rimanga che il desiderio di annullarmi per non sentirti mai più.
Abbi pietà, ti supplico!
Abbine di me, di te, di noi.
Concedici una tregua dallo struggimento della perdita, ti prego, e aiutami a dirle addio per sempre.
Non è languendo nella memoria di quest’amore che troverai la cura.
Non è Astaroth la soluzione.
Lei è la malattia.
Lasciala andare e occupati di me —
di me — come faresti col suo ricordo.
Diciassette anni: un’età tragica per morire, penserai.
Un’età tragica per vivere, ti rivelo.
Ama me, o mente.
E, se per riuscirci dovessi odiarla, odiala.
Odia Astaroth, e poi dimenticala come si fa coi sogni al mattino.
E un giorno, te lo prometto, l’incontreremo ancora.
Intanto, chetati e dormi.
Ci penso io a me.


One need not be a Chamber – to be Haunted




N.d.r. Il disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione è un tipo di disturbo dissociativo che consiste in persistenti o ricorrenti sensazioni di essere distaccati (dissociati) dal proprio corpo o dai propri processi mentali, di solito si accompagna alla sensazione di essere un osservatore esterno della propria esistenza (depersonalizzazione), o di essere distaccato dal contesto in cui ci si trova (derealizzazione). Il disturbo è spesso scatenato da un rilevante evento stressante. — Fonte: MSD


Edited by ~ Nieve Rigos - 2/5/2020, 16:51
 
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