Sabotage

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~ Nieve Rigos
view post Posted on 4/3/2019, 20:54 by: ~ Nieve Rigos
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entropia.

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Nieve Rigos
16 Anni
Mese di Agosto
Segue: Hall Of Fame




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Il culto di Maria sortiva un forte fascino su Nieve, come tutto ciò che s’imperniava sul concetto di maternità. Viveva in lei, robusta, l’esigenza di capire cosa si celasse dietro un’esperienza che le era stata negata da principio e che desiderava fare propria in qualunque modo. Per questo, quando aveva scovato una chiesa cristiana a pochi chilometri dal quartiere magico di Londra e aveva casualmente origliato il motivo di una preghiera che non apparteneva al suo Credo, era venuto da sé interloquire col prete per saperne di più. Era rimasta esterrefatta dalle scoperte sul marianesimo, dalla centralità riservata alla Madonna nella religione cattolica e dall’assenza di quel particolare asse portante nel protestantesimo. Perché loro non la pregavano? Non così, almeno.
Era un bene che Nieve possedesse la giusta flessibilità d’animo per fare i conti con i possibili stridori dati dalla sua condizione di strega. Se era riuscita a favorire la convivenza tra il proprio culto e la magia senza il timore di essere avvolta dalle fiamme dell’inferno, sarebbe scampata a una punizione anche se avesse imparato l’Ave Maria e l’avesse recitato tutte le volte che sentiva di essere in difficoltà. Per Nieve, che pure conosceva la differenza tra le figure centrali del suo ceppo religioso, infatti, era pressoché indifferente operare una scelta: facevano tutte riferimento a quell’unico grande sentimento di appartenenza che le scaldava il cuore e le faceva giungere le mani.

Discese gli ultimi gradini antistanti l’ingresso della chiesa cristiana con l’animo paradossalmente in tumulto. Stava stretta nella giacca a fantasia militare, le braccia raccolte attorno al corpo. Il diverbio con Grimilde e lo sguardo che le aveva rivolto Julian poco prima che lasciasse la cucina erano ancora capaci di farle rivoltare lo stomaco. A tutto questo, si aggiungeva un intollerabile pizzicore al naso: il septum, oltreché una punizione, le stava costando la sanità mentale.
La speranza di rifugiarsi nella preghiera l’aveva spinta fin lì, eppure aveva fatto presto a dissolversi quando, trovato posto presso uno degli ultimi banchi, Nieve aveva potuto constatare che una celebrazione fosse già in atto; e non una delle più gioiose.
Sul catafalco bardato di viola, era esposto un feretro che richiamava le tonalità della quercia di cui erano rivestiti gli interni della chiesa. Un odore forte di fiori sprigionava dall’altare fino al portone d’ingresso, laddove sussurri e singulti mezzo soffocati facevano da sfondo alle parole del prete, che tentava invano di lenire la disperazione di una famiglia spezzata con le sole parole di consolazione che gli fosse stato dato di conoscere. Oltre la veletta nera, il viso di una donna dai lineamenti marcati piangeva le sole lacrime che le fossero rimaste.
Nieve si era scoperta commossa d’improvviso. Allora, perseguitata dal ricordo della morte della sua balia, aveva abbandonato la chiesa.
Inspirò lo smog cittadino, lieta del fatto che l’odore nauseante dei fiori non fosse riuscito a seguirla e avesse smesso quasi del tutto di inondarle le narici. Un bus di un rosso scarlatto suonò all’indirizzo di un motorino dall’incedere spericolato, attirando l’attenzione di alcuni passanti allarmati. Nieve voltò le spalle al quadretto, incurante, e imboccò la strada che conduceva al Black Skull. Distava a malapena un paio di isolati, quanto bastava per scrollarsi di dosso il malessere indotto dalla sequenza di eventi che si erano assiepati all’uscio della sua vita. Se c’era una cosa per cui si sentiva ancora grata ad Astaroth — oltre il fiele del tradimento e della delusione —, era il fatto di averla introdotta al mondo degli alcolici. Benché si sentisse fuori centro il più delle volte da che la rottura aveva avuto luogo, bere le garantiva l’accesso a quel genere di perdizione auto-indotta necessario per tirare avanti.
Batté due rapidi colpi con le nocche di indice e medio sulla porta, rompendo solo a metà l’incrocio in cui aveva relegato le braccia. Fissò brevemente l’attenzione sulle scritte al neon che davano sulla strada, al di sopra di un livello rispetto all’effettiva ubicazione del Black Skull. Si trattava di un locale clandestino, sopravvissuto alle ronde della giustizia grazie alle giuste conoscenze. Aveva il pregio — come molti locali clandestini, del resto — di non imporre agli altri l’onta del giudizio. Chiunque vi si fosse recato avrebbe potuto condurre i propri affari assolutamente indisturbato. Semmai, il rischio era di suscitare, più che il biasimo, l’interesse altrui. La prima volta che vi aveva messo piede, Nieve si era trovata in compagnia del datore di lavoro con l’obiettivo di consegnare un oggetto che non poteva essere esposto in negozio e che, in parte, spiegava il perché della nomea di Safarà.
Snocciolò la parola d’ordine senza troppa enfasi, sotto l’occhio attento di un mezzo gigante addestrato a fare da usciere. Quando si decise a farla entrare, osservandola con espressione curiosa non meno che naturalmente istupidita, Nieve lo oltrepassò senza degnarlo di uno sguardo. Aveva il naso in fiamme, le tempie che pulsavano e il petto oppresso da un miscuglio di emozioni che non abbisognava discernimento. Ne avrebbe saputo riconoscere ed etichettare ciascuna con la stessa precisione che sapeva di sfoggiare entro l’aula della professoressa Pompadour o nelle serre del professor Black.

«Un bicchiere di Goblingrappa,» ordinò quando si fu appollaiata su uno sgabello isolato. Raccolse i capelli in uno chignon alto, infastidita perfino dalla dimensione corporea della sua esistenza. «Barricata, se possibile.»
La barista più vicina — una fata dai lunghi capelli arancioni, le ali trasparenti e le gambe affusolate in bella mostra attraverso lo spacco vertiginoso del vestito turchese — prese l’ordinazione con un sorriso furbo sul viso piccino, dimostrando di averla riconosciuta.
«Non pensavo ti avrei mai vista prendere qualcosa di diverso dal vino,» fece l’elfo domestico alle spalle della fata, rivolto a Nieve. Preso atto dell’ordinazione, afferrò una bottiglia panciuta e spedì la minuscola collega presso un cliente all’altro capo del bancone, invitandola a servirgli un cocktail già pronto. «Non sei qui con tuo padre, stavolta?»
Nieve gli rivolse un’espressione confusa, prima di cogliere la natura del riferimento.
«Non è mio padre,» precisò, ridacchiando per la prima volta da che aveva messo piede a casa di Grimilde. «È solo il mio datore di lavoro.»
L’elfo annuì. «Ha senso. Quel bestione non avrebbe mai potuto generare una creaturina come te. E io me ne intendo di creaturine,» ribatté, accennando alla fata. Nieve rise, ma arcuò un sopracciglio per imporgli di ridimensionarsi. L’esperienza coi clienti di Safarà le aveva insegnato a mantenere le dovute distanze dagli sconosciuti per impedire che la sottovalutassero, al netto della differenza d’età. «Con tutto il rispetto, eh! Volevo dire che sei delicata.»
«Di tutte le persone che conosco,» lo rimbeccò senza offesa, sfilandosi la giacca e deponendosela in grembo, «sei il solo che mi abbia definito in questo modo, credimi.» Ripensò al pugno che aveva assestato a Vagnard, alla presa in cui aveva stretto la matricola Serpeverde durante l’ultimo ballo di fine anno, perfino alle scopettate che aveva tirato in faccia a Horus nello sgabuzzino al primo piano. E convenne con un ghigno di non possedere quella peculiare dote, insieme a moltissime altre. «In ogni caso, come dicono tutti, l’apparenza inganna.»
«Magari, non sarai delicata nei modi,» la assecondò l’elfo e schioccò le dita perché il bicchiere che aveva preparato — i lineamenti scavati del teschio che dava il nome al locale emergevano dal vetro spesso — si materializzasse davanti a Nieve, «ma lo sei nell’aspetto. Guarda quei capelli!»
Nieve schiuse le labbra, pronta a contraddirlo. Avrebbe voluto dirgli che, come mille altre sfumature di sé, anche quella fosse un’illusione, dovuta a un’abilità della quale non aveva il controllo. Tuttavia, tacque e scosse il capo, risolvendosi a prendere un sorso generoso di Goblingrappa. Giravano voci che, presso il Testa di Porco, ne servissero una qualità altrettanto pregevole, ma non aveva ancora avuto modo di verificare. Fece appena in tempo a scorgere la fatina avvicinarsi all’elfo, prima di vederla tornare alle proprie occupazioni.
«E non sono l’unico ad averlo notato, a quanto pare,» lo ascoltò continuare poco dopo.
Nieve mandò giù l’ennesima sorsata, serrando le labbra per il fastidio. Non era abituata a quel genere di sapori, che di molto differiva dalla corposità acidula del vino. Eppure già pregustava il senso di ebrezza che anticipava l’estraniamento.
Fissò lo sguardo sull’elfo domestico: indossava un completo elegantissimo, compreso di monocolo, e la osservava coi suoi enormi occhi nocciola. Il proprietario di Safarà le aveva accennato quali atipiche circostanze si celassero dietro l’impiego della creatura: benché apparisse (e si atteggiasse) come il proprietario, non era che l’umile servitore di chi aveva troppo da perdere per esporre i propri connotati alla vista della clientela; era comodo per tutti — tranne che per l’elfo, forse — che si fosse creato quel qui pro quo circa la titolarità del Black Skull.
Furtivamente, l’elfo le fece segno di fissare l’attenzione su un cliente a una quindicina di sgabelli da lei, oltre il punto in cui il bancone faceva angolo. Era un giovane che, a occhio e croce, aveva superato da un pezzo la soglia della maggiore età; non aveva né i colori, né i lineamenti di un inglese. Nieve distolse presto lo sguardo, imbarazzata dall’impudenza di un’osservazione che tradiva una maturità a lei ancora estranea.
«Ha detto alla mia collega che offre lui,» le comunicò, dando le spalle alla persona di cui stavano discutendo. Un sorrisetto compiaciuto incurvava le labbra sottilissime dell’elfo. Nieve pensò che avesse carattere e non poté fare a meno di chiedersi — benché sapesse poco della specie di riferimento — quanto quell’atteggiamento rispecchiasse i modi della famiglia di appartenenza. «Quanti anni hai detto che hai?»
«Venti,» mentì. Ne aveva sedici, ancora per poco. «Freschi freschi, tra l’altro. Oggi è il mio compleanno.»
«Per tutti i panciotti! Questo merita un festeggiamento!» Uno schiocco di dita bastò a che due calici di chiarissimo champagne apparissero davanti a loro. A fatica, Nieve mandò giù la Goblingrappa, poco incline alla prospettiva di rifiutare l’offerta. «Buon compleanno, tesoro!»
Poco prima che i rispettivi flûte si toccassero, sentì il bisogno di presentarsi.
«Il mio nome è Nieve.»

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Sussultò, rabbrividì e chiuse gli occhi, spingendo il capo all’indietro in una preghiera che non avrebbe trovato spazio nella corona del suo rosario.
Aveva il collo arcuato, la bocca schiusa e il corpo in fiamme.
Portò la mano al viso, carezzando distrattamente la fronte in preda al piacere, dopodiché la condusse alle labbra e intrappolò un lembo di pelle tra i denti.
Le scappò un lamento gutturale, prima che la lingua riuscisse ad imbrigliarlo sul fondo della gola.
A una stimolazione ardita seguitò una reazione altrettanto virulenta.
Era un dolore asintomatico, capace di consumarla senza esaurirne le energie.
Stava bruciando, ma non provava pena.
Ansimò.

Strinse le dita attorno al tessuto tiepido del lenzuolo e aprì gli occhi sul soffitto di travi scure. Sentì il corpo che le danzava intorno strisciare contro il suo — fremette.
Si sporse in avanti per intrappolare il singulto che minacciava di farsi suono tra la propria bocca e quella dell’altro. Lo baciò, mentre le braccia si cercavano, incastravano e, infine, scansavano.
I polpastrelli di Nieve premettero sulla parte bassa della schiena del giovane, risalirono lungo la colonna vertebrale e si agganciarono alle spalle di lui.
Gettò il capo all’indietro, di nuovo, esponendosi a un attacco più violento: lo sconosciuto insistette sulla carne tenera sopra le clavicole; le carezzò con decisione la coscia prima di agganciare le dita dietro il ginocchio.
Il corpo di Nieve giocò d’anticipo sulla sfera del raziocinio, annebbiato dai fumi dell’alcol, e reagì.
I confini che la delimitavano non le erano mai stati tanto presenti.
Le tornarono in mente — in un frangente di lucidità — gli incontri con Rupert al sapor d’indecisione e inesperienza. Per una ragione che non era riuscita a spiegare nemmeno a sé stessa, allora era stata reticente a spingersi oltre.
Condusse entrambe le mani al capo. Le dita affondarono tra i capelli: dello chignon scomposto che aveva messo su qualche ora prima non rimaneva che il disordine.
In un unico spasmo, Nieve cercò con l’altra persona un contatto che fosse in grado di appagare i richiami che promanavano dalle profondità del suo io. Una risata risuonò a poca distanza dall’orecchio di destra. Le stava chiedendo se stesse bene, sottacendo così la richiesta di un consenso.
Per un attimo, l'intelletto le impose di considerare l’offerta e tirarsi indietro. Cosa avrebbe pensato Astaroth di lei, quando gliel’avesse raccontato? La consapevolezza dell’inutilità della domanda le planò addosso sulle ali del turbamento.
Sotto la curva appena accennata del seno, il cuore rallentò la sua corsa, infine tornò a sabotarla.
Rotolarono. Sovrastandolo, Nieve si strinse a lui, torace contro torace. Gli sorrise allora, maliziosa: le dita percorsero, carezzevoli, la curva della spalla, insistettero sulla tensione del costato, poi si spinsero in basso sul profilo del fianco. Fece appena in tempo a strappargli il più rauco dei lamenti che avessero preso vita in quella stanza, che le posizioni si ribaltarono ancora.
A quel punto, ansante, cedette a un gioco di contrazioni che invertì l’ordine delle sue pulsazioni. Premette i polpastrelli contro il materasso, da ultimo cercò la schiena di lui che si muoveva sopra di lei.
Il gemito che abbandonò la bocca di Nieve racchiudeva il contrasto delle sensazioni che la stavano predando.
Un tremito le scosse le ciglia.

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Il petto di Nieve seguiva il ritmo di una respirazione ora più quieta.
Giaceva scompostamente sul letto, reduce da una battaglia combattuta per il bene di nessuno e su una terra di nessuno.
Aveva le labbra accostate e gli occhi socchiusi. Attraverso la fessura delle palpebre, intravedeva a stento i fasci di luce pallida scivolarle sulla pelle e regalarle quella sfumatura eterea che viene con la notte e i suoi spettri.
Non aveva coscienza del luogo in cui si trovava, perché il suo corpo sfuggiva alle maglie della percezione. Non le era mai apparso così vigoroso, reattivo, vivo come in quel preciso istante, eppure non lo sentiva. Sospesa in una dimensione di nebbia, aveva consapevolezza della propria mortalità soltanto nei rintocchi prepotenti di un cuore restio a chetarsi.
La bocca di Nieve si concesse una leggera inclinazione verso l’alto: il septum non le provocava più alcuna sofferenza. L’alcol e il sesso avevano trasformato i tratti di una sensazione meschina in una dolenzìa latente.
Trovò il coraggio di muoversi, pianissimo e con cautela, solo dopo aver intrappolato il labbro inferiore tra i denti ed essersi concessa una risata silente. Nieve la sentì rimbombare nel petto, su per la gola e giù in basso, dove stavano i suoi segreti più intimi.
Fece schioccare la lingua contro il palato, mentre lisciava le lenzuola accaldate e ne tirava una parte su di sé per preservare il calore corporeo. Della Goblingrappa non era rimasto che un sentore lontano, insignificante rispetto all’impronta che l’altra persona aveva lasciato su di lei e dentro di lei.
Mosse il capo prima a destra, poi a sinistra. Cercò con le dita i punti in cui ricordava di averlo sentito insistere e vi tracciò un cerchio; le scappò un brivido che la spinse a stringersi nelle spalle.
Avrebbe voluto dormire, ma non poteva fintanto che la sua anima non fosse tornata a risiedere nel corpo. Le parve di vederla librarsi, in pace, a poca distanza dal punto in cui languiva.
Un refolo di vento le sfiorò il seno, facendola intirizzire.
Doveva tornare a casa, si disse. Era presto, ma non lo sarebbe stato ancora a lungo.
Batté le palpebre lentamente e respirò perfino più piano.
Fu a quel punto che il pensiero di Astaroth tornò ad assillarla. “La prima regola è divertirsi, ma, quando hai finito, devi essere la prima a filarsela”. Lo sguardo di Nieve corse inevitabilmente al corpo disarmato che dormiva al suo fianco, mentre già scattava sulla falsariga di un ordine impartito da un istinto plagiato.

«Bastarda!»

Si lasciò ricadere sul materasso, turbata.


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Edited by ~ Nieve Rigos - 10/4/2019, 23:58
 
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