banshit, I won't say it!
Ufficio Ariel Vinstav » Londra
1 Luglio - la lettera è stata cestinata.
Cara Mary
Mary
Bentrovata,
Ti prego non scusarti. Io stessa non ho mantenuto una corrispondenza, faccio veramente schifo con i rapporti sociali. Sono stata sommersa dalle responsabilità del mio nuovo lavoro, quindi ti capisco tantissimo. Ti prego non sentirti in colpa. Sarebbe bello vedersi per pranzo, o una cena, ma ammetto di aver ancora difficoltà nel mettere in pratica molte delle lezioni venute fuori dal nostro incontro.
Possiamo rimandare l’invito ad un’altra occasione e limitarci a conversazioni via lettera per ora?
Mi dispiace,
Ariel.25 luglio, ore 12.38“Un urlo nel vuoto, quando il governo isola le voci del coro.”
Rileggi più volte il titolo sulla pergamena.
La macchina da scrivere ha impresso con precisione i caratteri dimostrando una meticolosità che adesso invidi.
Suona come un insulto, una richiesta priva di fondamenta: se non sei tu in grado di toccare con precisione i punti di interesse di un articolo di giornale, chi altri, Vice Redattrice Vinstav?
Una galleria di ritagli di giornale e foto ti osserva dalle pareti del tuo nuovo ufficio, criticandoti con lo stesso silenzio che ti soffoca dall’inizio della giornata.
Stringi le labbra, forzandole in una smorfia di mal contento che fingerai essere rivolta alla bozza d’articolo, anziché te stessa.
Ripieghi la pergamena con una cura che non ti appartiene e delicatamente la abbandoni nel cassetto laterale della tua scrivania.
“Non ancora, passo dopo passo. A mente più lucida.”E’ la quinta volta che te lo dici nell’arco di pochi miseri minuti.
Un mantra puntuale che vorresti funzionasse come una ninna nanna, una nenia che ti culli in un finto stato di calma, lontano dal malessere dei tuoi pensieri.
“Prima Jolene, poi Mary, poi il giornale, poi la tua famiglia, poi la campagna editoriale.”Ripassi un piano che fallisce a rassicurarti. E’ ormai più un ricordo di ciò che ti sei prefissata di affrontare senza alcun successo, il reminder della tua procrastinazione e con questa del tuo fallimento come adulto funzionale.
Dovresti semplicemente seguire un percorso, spuntare obbiettivo dopo obbiettivo e invece no, eccoti qui, impigliata in una rete di pensieri che il tuo raziocinio sa perfettamente mettere a fuoco, ma che il tuo cuore fatica a districare.
Prendi un profondo respiro, prima di lasciarti ad andare.
Vorresti dire che il tuo rapporto con l’aria sia intimo e conflittuale e che fare esercizi di respirazione per calmarti ti venga facile come scattare una foto.
Invece no, ultimamente per te respirare è come sentire mani invisibili che ti schiacciano il busto e ti costringono di tirare fuori tutto quello che hai.
Che poi, la hai l’aria in quei polmoni, Ariel?
Ti trema il fiato e più che espirare, sussulti.
Pochi attimi dopo ti ritrovi costretta a nascondere il volto pallido fra i palmi delle mani.
Inspiri. Espiri. Inspiri. Espiri.
“Passo più passo. A mente più lucida.”Inspiri. Espiri. Inspiri. Espiri.
“Sono preoccupazioni lecite, Ari. Va tutto bene. I razzisti sono ovunque nel mondo tanto quanto le persone decenti. Per ogni insulto ci sarà qualcuno con un complimento.”La testa si abbassa, accompagnata dal risalire delle mani che ora trovano rifugio contro gli incavi del collo.
E’ un peccato, Ariel. C’è così tanto potenziale nel sapere scrivere come dovrebbe andare la storia, come sia giusto pensare ed agire: peccato che alla fine non fai nulla; è tutto lì nella tua testa, inesplorata come questa vita che ti fa paura.
Proprio quando la fronte accoglie il bordo della scrivania con un tonfo, qualcuno bussa alla tua parte.
Sussulti. Ti tiri tu con eccessiva forza, facendo traballare la poltrona di pelle su cui sedi. La nuca cozza contro l’imbottitura e la pelle marrone, attutendo la botta.
Le dita sbattono contro il legno e in quello stesso istante, la porta viene spalancata.
Mary ti può osservare senza alcuno ostacolo, mentre la osservi con un’espressione di sconcerto e confusione.
Per un momento sembra essere cambiato poco dal vostro ultimo incontro: gli occhi grandi come due sfere di cristallo per la sorpresa, i capelli bianchi per i preparati da calderone e il taglio irregolare di un caschetto con due singole lunghe ciocche a pizzicarti il collo.
«Mary?»La voce però è diversa, gli abiti sono diversi e così anche l’ufficio.
Con la promozione è venuto un trasferimento di scenario e con lo scenario sei cambiata un po’ anche tu.
E’ tutto più ordinato, meno affollato e claustrofobico.
I colori portanti non sono più sfumature cupe fra il nero, il marrone e il rosso.
Bianco, verde e marrone si alternano in una palette desaturata e armonica, fatta di mobili fatti su misura, nuovi e con poche macchie e sbeccature.
Persino tu, Ariel, sembri imitare la stanza, a partire dal trucco leggero ma impeccabile e la nota di rosso sulle labbra, o sull’abito di un arancione tenue perfettamente accordato ai tuoi sandali marroni e i piccolo gioielli d’oro a mani e orecchie e collo.
E’ una scelta di stile minimal che seppur piacevole ed estetica, su di te appare essere solo costruita, privativa, non tua.
L’impressione si può concretizzare come realtà quando una volta osservato l’ambiente e messo meglio a fuoco quanto accaduto, la tua reazione istintiva sia non tanto quella di rivolgersi all’Auror, ma alla receptionist.
«Mi scuso per il disguido, cara. Hai fatto bene a dubitare dell’Agente Grenger - bisogna seguire delle procedure.» Scocca un’occhiata di sbieco all’ex grifondoro. Il tuo tono non è brusco, né aggressivo, ma pacato e morbido come sempre; eppure, qualcosa stona comunque. C’è un formalismo di fondo che ti fa sembrare più grande, più stanca, meno spontanea e genuina, meno te.
«Ma per il futuro, può segnare l’Auror Grenger come un’eccezione alla mia lista? Tranne che durante i meeting di redazione e con gli altri redattori, ovviamente.» Pieghi le labbra in un sorriso di circostanza, falso forse quanto la compostezza della tua postura, rigida in una posa plastica da persona sicura di sé.
«Non possiamo chiedere tempo alle indagini, a volte, no?» Incalzi poi con una mezza battuta, rivolgendo lo sguardo stavolta non più alla receptionist che annuisce, comprensiva, ma a Mary.
E’ in questo momento che stavolta ti permetti un momento di espressività più sincera: non è rabbia, ma nemmeno gioia quella che provi. E’ un misto di perplessità e preoccupazione che sembra chiaramente esprimere un: perché sei qui?
Fatto sta che non la scacci. Non hai il cuore di farlo, è inutile mentirci.
Nel momento in cui la porta si chiude alle spalle di Mary, Ariel rimane immobile a guardarla.
Poi sospira, stavolta con meno fatica di prima.
«Da oggi sei nella mia lista privata, ti prego di non abusare della cosa.»Il tuo tono di voce si abbassa nel volume, perdendo della finta durezza che il ruolo imponeva, seppur ti muovi ancora dietro i formalismi di un linguaggio d’ufficio.
«… sei arrabbiata, vero?»Ti volti verso la finestra, aperta a mostrare il cortile interno del palazzo della Gazzetta del Profeta: un trespolo di metallo imbrunito con piccole vasche di sementi è al momento impegnato da un piccolo gufo reale della redazione.
«Non ti biasimerei. Non ti ho risposto dopo un mese. E prima di allora non ti ho scritta. E … sei un Auror, nemmeno ti ho fatto le congratulazioni.»Parli e parli, senza avere il coraggio di guardarla in volto.
Ti stringi nelle spalle, chiudendoti poi dietro braccia conserte che vogliono illudere Mary di avere davanti qualcuno di distaccato e assolutamente a proprio agio.
«Puoi sederti dove vuoi. Poltrona, sedia, divano … tieni solo conto che dietro il divano dorme il mio serpente.» Fai un cenno verso il trittico di poltrone e divano sotto la finestra che osservi: proprio dietro lo schienale del divano, un mobile regge la teca incantata di Lord Bleppington, il tuo pitone.