→ attenzione: il seguente post contiene scene forti e a tratti crude che potrebbe urtare la sensibilità del lettore.
Jane Read
Era come avere degli spilli conficcati nelle tempie, uno per lato: se non fosse stato per il decotto che aveva bevuto prima di andare a letto qualche ora prima, probabilmente ci sarebbe stata anche la nausea a farle compagnia. Maledizione, Sarah! La collega la sera precedente aveva festeggiato il tanto agognato pensionamento e aveva invitato Jane e il resto dei medimaghi a quello che doveva essere un piccolo e semplice party che in realtà si era concluso alle tre di mattina con la strega che veniva caricata sul Nottetempo, collassata, dal marito visibilmente in imbarazzo. Un sorriso comparve sul volto pallido di Jane al ricordo, trasformandosi subito in una smorfia dolorosa per la tensione provocata alle tempie. Non sarebbe stata una giornata semplice, ne era certa. Con appena tre ore di sonno in corpo, visibili nelle linee violacee che si erano delineate sotto i suoi occhi, camminava a passo spedito tra le vie di Nocturn Alley, avvolta in un mantello nero, il cappuccio calato sul volto. Per lo meno sembrava essere troppo freddo e troppo presto per poter incontrare qualcuno, il cielo ancora buio nonostante fossero quasi le sette di mattina: il rumore ritmico dei suoi passi era stato preventivamente attutito da un Felpato castato appena smaterializzata, la bacchetta stretta nella mano celata dalla veste. Ogni metro più vicino al luogo d’incontro si trasformava in un metro più lontano dal sorriso con cui solitamente si avvicinava ai pazienti, dalla pazienza nell’ascoltarli, dalla gentilezza con cui si rapportava con loro e con i suoi colleghi. La Jane che tutti conoscevano rimaneva lontana, alle sue spalle, momentaneamente dimenticata anche da sé stessa. Il suo volto diventò piano piano neutro, senza espressione, quando riconobbe il vicolo alla sua destra, e lo imboccò senza esitazioni: contò nella sua mente i passi mentre seguiva con lo sguardo lo snodarsi del muro umido color grigio topo alla sua sinistra. Arrivata a venti, si fermò. Puntò la bacchetta contro la mano libera e con un movimento secco un taglio fece la sua comparsa sul palmo, alcune gocce di sangue pronte a cadere a terra: trattenendo una smorfia di disgusto, appoggiò la mano sul muro. Fu questione di attimi, e il disegno stilizzato di un serpente comparve dal selciato, strisciando lungo la parete e delineando il profilo di una porta d’ingresso composta da assi di legno marcio. La osservò per qualche istante, scettica, mentre con un altro gesto della bacchetta una maschera ben conosciuta prese posto sul suo volto, celandolo agli altri, prima di puntare l’elce contro il legno e far scattare la serratura. Ebbe a malapena il tempo di superare la porta nascosta nella parete sudicia e ammuffita prima di rendersi conto che, come aveva previsto, l’organizzazione non rientrava tra le loro qualità. Urla e lamenti si mescolavano nell’aria, tra le spirali di fumo di sigaretta e l’odore penetrante della paura che impregnava il corridoio stretto e buio pieno di figure incappucciate. Un grido spaventato la raggiunse all’ingresso, seguito poco dopo da un altro, e si chiese se la scelta di non insonorizzare le stanze fosse davvero stata così geniale come credeva chi l’aveva proposta.
« Sei in ritardo. » c’erano tanti aspetti positivi nelle maschere che indossavano, ma anche molte pecche: non schermare gli odori era una di queste. L’olezzo rancido dell’alito di Matt colpì senza pietà le sue narici, tanto che dovette fare uno sforzo per trattenere nello stomaco il caffè che aveva bevuto prima di uscire. « A Lui non piacerà venire a saperlo. » l’uomo sghignazzò dopo quelle poche parole, il tono di voce soddisfatto. « Non gli piacerà nemmeno sapere chi è stato a far morire l’ultimo prigioniero, che dici? » il mago ammutolì improvvisamente, la bacchetta pronta ad essere alzata contro di lei, « Fossi in te lascerei perdere. » più veloce dell’altro, Jane stava già puntandogli la bacchetta alla gola, sotto il profilo della maschera, « Se vuoi che quella storia rimanga sul fondale del Tamigi insieme al prigioniero, ed evitare di finire a far loro compagnia, ti conviene farla finita fin da subito. Dov’è? » il disgusto che provava per il collega trasudava da ogni parola da lei pronunciata e l’impazienza di iniziare il suo lavoro nel frattempo aveva iniziato a scorrere nel sangue che pochi istanti prima le aveva dato accesso a quel tugurio. « Laggiù. » Un sorrisetto soddisfatto le piegò le labbra mentre abbassava la bacchetta, un ultimo sguardo disgustato verso il mago, ben celato dalla maschera, prima di avviarsi nella direzione che le stava indicando, in fondo al corridoio.
Fu una passeggiata breve, pochi passi nella bolgia infernale che si era spostata dal sottosuolo a quell’edificio fatiscente di Nocturn Alley, ma poco distensiva: dai diversi gradi di grida, urla e implorazioni che poteva udire attraverso le porte marce che si stagliavano ai lati del corridoio, al momento ospitavano circa cinque prigionieri. La donna catturata meno di una settimana prima – moglie del prigioniero che ora si trovava sul fondale del Tamigi – piangeva disperata, come ogni giorno da quando era stata rinchiusa: il vecchio Spettrologo in pensione, sopravvissuto all’imboscata dal mese precedente, non aveva mai smesso per nemmeno un istante di battere con il bastone contro le assi della porta; dalla cella del suo assistente, proprio accanto a lui, uscivano lamenti agonizzanti da due giorni, probabilmente il risultato di qualche pozione sperimentata da uno degli altri medimaghi. La giovane Auror della cella numero quattro stava in silenzio, come sempre, il ticchettio ritmico delle catene con cui l’avevano legata sbattute contro la sedia in metallo unico segno della sua presenza. Infine, il pezzo grosso, il suo prossimo paziente: una figura incappucciata – una delle tante – stava in piedi davanti alla porta della cella, notte e giorno, la bacchetta levata in aria pronta a colpire. Era l’unico prigioniero ad essere sorvegliato ventiquattr’ore su ventiquattro, l’unico che riceveva tre pasti al giorno, l’unico che poteva venire interrogato solo da medimaghi. Quarant’anni, una brillante carriera all’Ufficio Misteri in corso, era caduto nella trappola sapientemente preparata per mesi da Jane e i suoi compagni: i sette membri della sua scorta erano morti come formiche sotto una lente d’ingrandimento, le loro ceneri già sparse al vento ancora prima che avessero il tempo di estrarre le bacchette. Era andato tutto liscio come l’olio, un successone: ogni volta che ci ripensava Jane non riusciva a trattenere un sorriso soddisfatto, l’odore di carne viva bruciata spazzata via dal Whisky Incendiario con cui poi avevano festeggiato. Poi però lo avevano rinchiuso tra quelle quattro mura sudicie, ed erano iniziati i problemi. Il Mangiamorte alla porta si fece da parte per lasciarla entrare: di nuovo, la bacchetta aprì il taglio sulla sua mano che ancora non si era perfettamente rimarginato, un altro pagamento rosso sangue pronto ad essere fatto per ottenere l’accesso alla cella. La porta si chiuse alle sue spalle con un rumore secco, facendo sobbalzare il prigioniero. « Buongiorno, Charlie. Non hai fame, oggi? » L’uomo sedeva con le spalle rivolte alla porta, legato ad una sedia di ferro arrugginita come il resto dei suoi prigionieri, le catene scintillanti alla luce delle uniche due candele che illuminavano l’ambiente. Davanti a lui un tavolino traballante, un vassoio posato sopra di esso con una tazza di tè fumante e una fetta di torta dall’aspetto delizioso. « Uh, oggi chi abbiamo qui? Mercy, sei tu? » Era ironico, si ritrovò a pensare: i prigionieri più importanti erano quelli nutriti meglio, ma al tempo stesso quelli con cui certi si prendevano la libertà di andarci più pesante negli interrogatori sperando di ottenere le informazioni migliori. Poi però si lasciavano prendere la mano e chiamavano gente come lei a rimediare: era così che si era guadagnata quel soprannome dal mago. Mercy, pietà. Se solo avesse saputo… « Sono allergico ai lamponi. » il mago riprese a parlare mentre lei si avvicinava, la punta della bacchetta illuminata per controllarlo meglio, « E i tuoi amichetti si sono casualmente dimenticati di lasciarmi almeno un dito nella mano destra per riuscire a mangiare. » Fu solo allora che le notò: cinque dita sanguinanti erano posate su un piattino di ceramica, i fiori azzurri sporchi di sangue rappreso. A giudicare dal loro aspetto, era sicuramente opera di Matt: sospirò, rassegnata. Quel Mangiamorte era davvero un deficiente. « Ci penso io. » avvicinò un’altra sedia arrugginita al mago, prendendovi posto. « La prossima volta potrebbero dimenticarsi anche di lasciarle qui però. » con gesti precisi iniziò a ricucire le dita alla mano del mago, una alla volta. L’uomo iniziò a lamentarsi, il sangue che iniziava a scorrere lungo i monconi ancora aperti. La strega alzò lo sguardo, scontrandosi con il volto contorto dal dolore di Charlie. Le orbite vuote, nere come la pece, sembravano osservarla imploranti. « Non ti è bastato perdere gli occhi? » Riprese a lavorare, concentrandosi sulle ferite. « Non me ne frega un caz- » un urlo interruppe il discorso: una delle dita oltre ad essere separata dalla mano era anche stata fratturata prima di essere tagliata, e non appena la magia ripristinò il collegamento tra le due sezioni di carne un nuovo dolore prese vita nel corpo del mago. « Dovrebbe, invece. » con un gesto secco della mano Jane fece rientrare la frattura lussata, poi con un colpo della bacchetta rinsaldò le ossa, « Perché prima o poi mi stuferò anche io di venirti a curare ogni volta che ti conciano così. E potrei iniziare invece ad aiutarli… » Un altro urlo sfuggì dalle labbra dell’uomo che non riuscivano a rimanere serrate mentre, ignorando ogni sua conoscenza in campo anestetico, dalla mano Jane passava ai tagli sul volto e sulle braccia, cauterizzandoli con la punta della bacchetta. Ci vollero dieci minuti abbondanti per completare il lavoro, e il risultato finale non era proprio perfetto: il massimo che poteva ottenere in poco tempo e alla luce fioca delle candele. « Non sto scherzando, Charlie. La prossima volta potresti non volermi più chiamare Mercy. » si alzò, avvicinando maggiormente il tavolino al mago, spostandolo con un piede. « Ora mangia, per favore. Hai bisogno di energie. » E ne avrebbe avuto davvero bisogno: mentre si chiudeva la porta della cella alle spalle in lontananza riconobbe la figura storta di Xavier che camminava in sua direzione: espulso dall’ordine dei medimaghi anni prima per esperimenti poco etici, aveva una conoscenza millimetrica dell’anatomia del corpo umano. Combinata alla passione per l'intreccio di più incantesimi, era il torturatore perfetto. « Concedigli cinque minuti per mangiare. » parlò decisa quando il Mangiamorte arrivò accanto a lei, la bacchetta già pronta ad essere usata, « E cerca di non fare le stesse schifezze di Matt. Sono stufa di sistemare i suoi maldestri tentativi di tortura. » Il mago scoppiò a ridere, una risata tetra, vuota, senza alcuna scintilla di vera gioia ad animarla. « Se va avanti così gli insegno io qualcosina. Ma tu, non dovresti essere altrove in questo momento? Nessun paziente da salvare con la tua gentilezza? Corri Read, corri! »
Il turno di mattina. Merda. Ringraziò che la maschera nascondesse la sua espressione preoccupata, e trattenendosi dal mandare a quel paese Xavier – meglio amico che nemico, era risaputo – si precipitò lungo il corridoio, ignorando le prese in giro di Matt ancora appostato all’ingresso. La porta di legno di stava ancora chiudendo cigolando mentre iniziava a svanire nella trama del muro grigio alle sue spalle, ma si era già tolta la maschera, facendola svanire con un colpo di bacchetta. Due passi, e si smaterializzò.
Il magazzino dismesso che lei e i suoi colleghi utilizzavano come punto di materializzazione per raggiungere il San Mungo era fortunatamente vuoto in quel momento – del resto, erano tutti puntuali a differenza sua – e stava infilando l’ultimo centimetro di stoffa dentro la borsa modificata da un incanto d’estensione quando uscì dall’edificio, la facciata del San Mungo pronta ad accoglierla con sguardo severo. « E anche oggi la dottoressa Read ci ha deliziati con la sua presenza. Buongiorno dolcezza, dormito bene? » Ora era ufficialmente una pessima giornata. Comodamente appoggiato al bancone d’ingresso, in mano la busta di dimissione di un paziente, il medimago Lancaster era pronto a godersi al cento percento il suo arrivo in ritardo. « Fatti gli affari tuoi, Richard. » Gli passò accanto camminando veloce, il cappotto già in mano pronto ad essere sostituito con il camice della divisa. Il mago scoppiò a ridere, urlandole alle spalle parole che sicuramente trovava d’incoraggiamento. « Non ti preoccupare, ci penso io ad avvisare il direttore del tuo ritardo! Sono sicuro che ne sarà felicissimo! »
Poteva ancora udire la soddisfazione nel suo tono di voce mentre entrava in spogliatoio, cambiandosi il più velocemente possibile: stetoscopio al collo, quaderno degli appunti in tasca. Era pronta. Uscendo dalla stanza si scontrò con l’infermiera Bones, il suo punto di riferimento fin dal primo giorno al San Mungo. « Jane! Finalmente sei arrivata! Come mai sei in ritardo? » la strega non ebbe nemmeno il tempo di rispondere, che la collega riprese a parlare senza attendere una giustificazione, « Non importa, me lo dirai dopo: ti aspettano al terzo piano, hanno chiesto di te per un consulto. Forza, dai! » le mise in mano un foglio con pochi dati sopra, spingendola verso le scale. « Grazie Marie! Poi ti spiego! » Iniziò a salire gli scalini a due a due, mentre la coscienza le rideva addosso: cosa mai poteva raccontare alla collega, che era in ritardo perché impegnata con i Mangiamorte?
Quando arrivò al piano dedicato agli avvelenamenti, trovò un’altra infermiera ad attenderla impaziente fuori dalle doppie porte d’ingresso: camminava su e giù, agitata, lo sguardo preoccupato. Quando notò la strega avvicinarsi, iniziò a parlare in preda all’agitazione. « Dottoressa Read? E’ lei? Finalmente, mi segua! » le fece strada, aprendo con un gesto della bacchetta la porta, « L’abbiamo chiamata più di quaranta minuti fa! Il dottor Minotaus ha chiesto di lei, è arrivata una giovane ragazza con sospetto avvelenamento da pozione: la sta già visitando nella stanza 3B, da questa parte, venga. » Le porse un sovracamice e un paio di guanti, che Jane indossò senza fare domande: la ringraziò con un cenno, poi entrò nella stanza.
« Mike? Scusa il ritardo, eccomi. » si avvicinò al collega, intento a controllare la paziente. Il dottor Minotaus aveva iniziato a lavorare al San Mungo da relativamente poco tempo, ma fin dai primi giorni aveva mostrato di essere un medimago capace e affidabile: Jane aveva trovato in lui un valido collega e sapeva che aveva tutte le carte in regola per una brillante carriera tra quelle mura, se avesse voluto. Era davvero uno dei migliori esperti di pozioni e veleni che l’ospedale aveva assunto negli ultimi anni e le collaborazioni nei casi più disparati in quelle poche settimane di conoscenza avevano confermato la sua idea. « Che succede? »
words of magic | universi paralleli, n° 3
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