Ariel Astride Vinstav
22 y.o. ☘ giornalista e fotografa ☘ scheda [
x]
D
isastro.
Il suo tavolo era un assoluto e completo disastro: pergamene, piuma autoinchiostrante, stilografiche e boccette di inchiostro di diverso colore (una delle quali vuota e abbandonata in fondo al cumulo di oggetti), taccuini, foto e ritagli della Gazzetta, tutti impilati e accatastati d'un lato per lasciar spazio davanti a suo posto a sedere ad una ciotola di terracotta già bella vuota.
Davanti a questa sostava il volto accasciato sul braccio sinistro della giovane giornalista.
Le labbra erano arricciate in un broncio bambinesco, mentre dalla posizione sbilenca in cui si trovava la testa manteneva lo sguardo verso il lato destro della tavolata, oltre la ciotola, dove l'ombra del lavoro messo da parte le ricordava di essere ancora lì, nonostante la distrazione della cena.
*Avrei dovuto ordinare qualcosa di immenso, così da perderci più tempo.*Gli occhi venivano aperti e chiusi pigramente, mentre con riluttanza si riportava dritta sul posto a sedere.
Sembrava fra lo scocciato e l'assonnato, probabilmente per colpa della leggera frustrazione che il lavoro le stava donando e la stanchezza arretrata che cominciava a farsi notare.
*Forse dovrei dedicarmi di più alla fotografia di un tempo. A volte c'è più in un'immagine che in una parola – a volte no. Riprendere a scrivere qualcosa che non sia lavoro, magari.*Passò le mani contro il volto, stropicciando i grandi occhi blu e risalendo contro la fronte, scostando le ciocche frontali dei capelli biondi, schiariti da una pozione per apparire più chiari del normale.
Se non fosse che al Paolo i Giornalisti del Profeta erano clienti continuamente di passaggio, sarebbe potuta perfettamente passare per il proprietario e il garzone come una strega con la puzza di Traccia ancora addosso, tanto giovane poteva finire col sembrare.
Il badge della Gazzetta, però, le pendeva ancora al collo e nella sedia accanto del suo tavolo all'angolo della sala si trovava una grossa ventiquattro ore dalla quale aveva estratto il resto del suo materiale, rendendo palese come fosse tutto tranne che una ragazzina.
Era sola, accompagnata solo dal peso delle bozze e la sua incapacità a concluderle.
Amava scrivere, ascoltare e raccontare storie, ma non aveva mai avuto la fortuna e l'esperienza di un impiego fisso come quello, dove le date di scadenza erano un incubo giornaliero e il rigore della forma scritta una ghigliottina a pendere sul collo.
La pressione delle aspettative del suo mestiere stavano cominciando a farsi sentire.
*Per ora penso sia il caso arrangiarmi con una Burrobirra.*Portò la schiena contro la sedia, accasciandosi su questa, prima di tirare un sospiro.
Indossava abiti semplici, ma curiosi per le tonalità e per l'essere stati indossati tutti insieme: un paio leggings felpati neri –tipici della moda babbana – erano stati sovrastati da una gonna di tulle verde menta che cadeva in numerose pieghe, un paio di scarpe da ginnastica bianche dalla suola alta, una t-shirt bianca, un cardigan color terra e un cappello da mago blu elettrico –piuttosto consunto– poggiato sulla testa.