White Butterfly, Privata - Segue il Ballo delle Rose e delle Spine.

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Megan M. Haven
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È solo un brutto sogno, devo svegliarmi.
Lo ripeto, in silenzio, mentre le immagini del caos davanti a me non smettono di proiettare quanto da poco è accaduto. Devo alzarmi, fuggire da lì, eppure resto immobile di fronte a chi per qualche istante mi ha regalato serenità, leggerezza. Piango e lo faccio senza accorgermene; gli occhi fissi su Oliver, il corpo inerme a terra e il sangue sulla pelle candida che macchia la pista da ballo. Voglio urlare ma dalle labbra esce solamente un suono flebile: è lui che chiamo ma non mi sente.
Nessuno lo fa.
Nessuno mi vede.
Sono qua!
Sola, in ginocchio, e ho paura. Diventa chiara l’immagine proiettata davanti a me: sono lì, vedo i miei genitori affianco a Oliver, a terra. È la morte ed è così vicina, tanto che ne percepisco l’orrore, la crudeltà. Qualcosa sta succedendo nella mia testa, sta elaborando ciò che non dovrebbe vedere, ciò che è solo frutto di un trauma che di vero non ha nulla. Non posso sapere come è andata, non posso sapere come è successo ma Mamma e Papà sono affianco a lui e non si muovono. Non riesco a scorgere i loro volti ma so che sono loro, riconosco le loro vesti. Cosa mi sta succedendo? Non è reale. Provo ad allungare la mano, a sfiorare il vuoto, ma rimango inerte. Tutto sta precipitando e i pezzi cadono senza darmi la possibilità e la forza di reagire per tenerli ben saldi. Devo raccoglierli, non posso crollare, ma non riesco a fare altro che sentirli rovinare sul terreno, ne avverto il suono senza poter fare nulla per arrestarli. Fa male, è insopportabile.
Poi una voce calda invade la mia mente, le palpebre lentamente si chiudono e si riaprono: tutto svanisce meno che la realtà. Gliene sono grata. Un paio di occhi azzurri incrociano l’abisso dei miei, un uomo mi chiede qualcosa e io rispondo ma non so perché lo faccio e non so cosa gli ho appena detto. Voglio chiedergli aiuto ma prima che possa agire lui è già andato via. Così, c’è di nuovo caos attorno a me: tante persone si muovono veloci, parlano, urlano e si dimenano. Oliver è sparito, un muro di gambe coperte da lunghi abiti mi copre la vista e di lui riesco a scorgere solo la mano abbandonata lungo il candore delle pieghe dei vestiti. Per favore, qualcuno mi sente? Tacita continua a essere la mia richiesta d’aiuto e piano inizio a soffocare. La testa gira e credo di poter svenire da un momento all'altro, poi, d'improvviso, vedo una mano tendersi verso di me e io l'afferro con tutte le mie forze, spinta dal desiderio di voler andare via da lì. L’aria torna nei polmoni, la sento fluire agitata non appena torno sulle mie gambe. Tremo ma non mi fermo, mi lascio trascinare via da una ragazza, chi? La vista ancora annebbiata dalle lacrime mi fa scorgere una chioma rossa poi, piano, metto a fuoco ogni dettaglio.
La vedo.
Emily Rose.

Il percorso che sto compiendo ha il sapore di libertà. Un peso che lentamente si solleva dalle mie spalle e cade dietro di me a ogni passo, divenendo polvere. Emily è davanti, mi guida, tiene stretta la mia mano e io faccio lo stesso. La tranquillità è qualcosa che riesco a percepire chiaramente e non desidero altro che lasciarmi andare.
Grazie!, vorrei dirle ma mi limito semplicemente a seguirla. Non ho intenzione di fermarla è il mio unico appiglio, qualcuno che ha frenato lo stato di abbandono che in quegli attimi aveva avuto solo lo scopo di distruggermi definitivamente. In parte già lo ero, devastata dagli eventi, dalle domande e dalla rabbia. Tutto questo mi aveva certamente cambiata e da tempo nello specchio vedevo una figura che non conoscevo affatto. Così ogni giorno mi scoprivo: esploravo ogni linea del mio corpo, valutavo azioni e provavo dolore, sentivo rimorso e rimpianto, senza però cercare più alcuna ragione. So di essere diversa da come ero un tempo e sono certa di un continuo cambiamento, lo vedo. Attorno a me ho uno scudo che mi protegge e lo fa senza cognizione, ma questa sera è successo qualcosa, gli eventi accaduti hanno in qualche modo provocato un foro nel mio muro. Oliver è entrato e non sono stata capace di controllare nulla; sapevo perfettamente che bastava solo un rifiuto, mancare a un dovere, e quello che sarebbe accaduto avrebbe potuto toccarmi relativamente. Ipotesi, probabilità, niente di certo. Ciò che rimaneva tangibile e mi dava una corretta percezione della realtà era quello che provavo adesso. Mi accorgo, così, di quanta fragilità ho dentro tanto da rimproverarmi. Che stupida! Non è così che ti aiuti Megan. Hai bisogno davvero che qualcuno ti dia una mano? Provo a non pensare, a scacciare via quei pensieri e continuo ad andare avanti. Mi faccio spazio fra la calca di gente che invade ogni singolo angolo di quel posto, molti sono feriti ma non me ne importa nulla, così come loro non è importato nulla di me. Lascio a Daddy il compito di riportare i Corvonero nei dormitori, perché lì, adesso, non ho voglia di tornare. Quando riesco a percorrere di nuovo il vialetto che mi aveva condotta al Campo da Quidditch ho la sensazione di riuscire finalmente a respirare e allora allento la presa dalla mano di Emily. Mi affianco a lei in un tacito silenzio, nell’incertezza più assoluta. C’è un’insolita quiete ad accompagnarci, a me va bene, voglio solo quella da condividere e nient’altro. Sorpassato l’arco in pietra ci inoltriamo nel castello, sono sicura che mi lascia andare e invece quando è il momento di dividerci lei mi segue. Sono certa di non voler prendere le scale e salire sulla Torre ma mi trovo costretta a farlo. Forse è quello che lei vuole: vedermi al sicuro nella mia Casa; provo a dare ragione a quella sensazione ma entrerò nella Sala Comune e poi, più tardi, riprenderò l’uscita. Diretta dove? Non lo so ma lontano da tutti, quello è certo.

🥀

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Emily Claire Rose
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Il fuoco continua a lambire i miei pensieri. Il sentiero verso il castello, sfuocato, confuso, è cosparso di fiamme. Sento ancora il calore invadere le mie membra, le urla inascoltate di Oliver, il suo terrore, il suo orrore.
Stringo più forte la mano del Prefetto affinché ciò mi riporti alla realtà e continuo a camminare, cercando di procedere senza tentennare, chiudendo gli occhi solo quando la cenere ardente mi pizzica la gola e le urla si fanno troppo assordanti.
La Corvonero al mio fianco mi segue, qualche passo più indietro, affidandosi ciecamente alla mia direzione e, nella tenerezza del suo silenzio, mi convinco di doverla portare al sicuro.
Credo di rivedermi in lei, ma è un’idea ancora troppo sottile per afferrarla. Stringo più forte, sento l’eco della sua sofferenza. Il mio ego, allora, si ribella, grida all’ingiustizia e mi tenta, sussurrandomi di lasciarla a se stessa e andare via. Devi far chiarezza, continua, devi capire cosa è accaduto, cosa succede a te.
Vorrebbe che l’abbandonassi e, spinto dall’invidia, animato dal livore, intacca il mio animo tormentato.
Nessuno ha fatto questo per te, smettila!
Ed io, allo strenuo delle mie forze, continuo a dirmi che è proprio per questo che devo andare avanti.
Il cuore si calma, forse convinto ma ferito, solo; ancora soffre per il proprio abbandono, ancora si strazia per la promessa caduta in frantumi, per il distacco del Tassino, per la resa incondizionata.
Cosa credevo di fare? Presentarmi al ballo e sperare che lui vi fosse, che mi accogliesse tra le sue braccia, che mi dicesse che andava tutto bene?
Illusa.
Voglio tornare indietro, cercarlo, pregarlo di avvicinarsi a me, di dimenticare tutto, la distanza, gli errori, l’avversione che aveva accompagnato il nostro ultimo ballo. Non posso e continuo ad avanzare. Il vestito si impiglia e lo tiro via con dolcezza, rovinando i lembi dello strascico.
Il Prefetto allenta la presa sulla mia mano e mi accorgo solo in quel momento di quanto quel silenzio condiviso stia aiutando anche me. Sospiro, trattengo il fuoco, gli occhi lucidi dalla rabbia e abbandono il nostro legame, certa che continuerà, comunque, a seguirmi.
Sono un intralcio per lui.
Allora perché continuo a sentirlo?
Perché?
Oltrepasso l’arco di pietra e mi chiedo cosa ne sarà di me una volta abbandonata la Corvonero alla sua solitudine. Non ho le forze per lasciarmi trasportare dell’ennesimo mistero che si presenta nella mia vita e che, contro ogni aspettativa, questa volta non mi tocca.
Oliver non è nulla per me, solo uno dei tanti la cui presenza ho imparato a sopportare.
Megan non è niente, solo il riflesso di quel che sono stata un tempo e che ho provato, a mio modo, a salvare.
Vorrei convincermene e sento i nervi delle mie braccia tendersi davanti a pugni chiusi per la disfatta.
Avverto un forte bruciore alla spalla e mi fermo, rendendomi finalmente conto di essere a una centinaia di metri dalla sala comune Corvonero senza avere la minima idea di come io ci sia arrivata.
« Dovresti andare », le dico senza guardarla, cercando di avvalorare la mia stupida tesi.
Non mi importa nulla di lei.
« Cerca solo di … », tiro a me il vestito con la mano avvolta nella benda sporca; cerca solo di?
« … Riposare. »
Finalmente cerco il suo sguardo, avvolta dal terrore di riconoscermi. Non è questo ciò che voglio dirle, ma chi voglio prendere in giro.
Il paradosso infine giunge e al mio tono severo, brusco, s’accompagna un sorriso pressoché invisibile eppure sincero.
La mano brucia ancora per la presa su quella di lei, ne avverto il fastidio.
Il mio cuore non ha smesso di urlarmi di tornare indietro.
Eppure resto qui, in piedi, le mie membra ora incapaci di muovere un altro passo ancora. Sento la necessità di aggiungere qualcosa ma il peso sul mio petto me lo vieta e allora alzo ancora una volta lo sguardo su di lei.
Le mie iridi, lucide, fissano il contorno del suo viso perfetto e ferito e il terrore diventa tangibile nell’esatto momento in cui vedo il mio riflesso.

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Megan M. Haven
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Emily finalmente parla e mi sento costretta ad alzare lo sguardo. La vedo, sono solamente un gradino più in alto. Vorrei chiederle il perché è qui e per quale motivo mi hai portata via dal Ballo senza alcuna spiegazione. Mi limito a guardarla e basta. Negli occhi cinerei vedo il tormento, lo stesso che mi appartiene, e per qualche istante il pensiero che lei possa capire cosa sto provando mi sfiora.
Credo di aver cambiato espressione adesso. È un sorriso appena accennato quello che mostro in volto. Mordo il labbro inferiore prima di alzare lo sguardo per trattenere le lacrime. L’istinto di respingerla mi attraversa la mente, il corpo. Inevitabile, mi ritrovo a percorrere di nuovo una situazione già vissuta seppur in maniera diversa. Sono sola e una parte di me sa perfettamente quanto tutto questo mi stia portando alla distruzione. Eppure...
Vai via, ti prego. Non ne avevo bisogno, non ne ho bisogno.
Invece sì. Questo mi spaventa.
Non di nuovo Megan, non sbagliare ancora.
Torno a guardarla e gli occhi lucidi tradiscono la maschera che ho provato a mantenere ben salda in volto. Tradiscono il silenzio a cui mi sono aggrappata in quel breve viaggio. Sì, perché voglio urlare ma non ci riesco, non posso.
Forse lei lo avverte. Lei mi ha sentita mentre ero immobile in mezzo alla confusione.
In qualche modo, senza trovare alcuna spiegazione, mi aggrappo a quella risposta e riesco a farmela bastare.
«Grazie» questa volta riesco a dirlo. Mi costa molto ma per una volta provo a essere diversa, a combattere l’istinto di respingere l’ennesimo aiuto, di allontanare Emily da me.
«Non credo di riuscire dopo tutto questo…» respiro profondamente, la voce trema nelle ultime sillabe. Mi guardo le mani e il ricordo di quanto vissuto pochi attimi prima mi terrorizza. Tuttavia, nello stesso istante in cui pronuncio quelle parole, mi pento. Cosa sto facendo? Perché?
«Mi spiace» cerco di riprendermi. Sorrido sforzandomi e le mani si uniscono. Afferro la sinistra e la tengo ben salda: il pollice sfrega il palmo mentre le altre fanno pressione sul dorso.
«Sto bene, puoi andare.»
Resta.
In quegli istanti fuggo dal suo sguardo. Cerco di non rivelare la verità dietro a quel tono calmo e convincente. I miei occhi incontrano il batacchio della Sala Comune e poi proseguono verso la lunga scala a chiocciola che risale verso la cima della Torre di Divinazione. Solo quando osservo i gradini sparire dietro alla stretta curva muovo i primi passi e rivolgo a Emily le spalle.
Lo sento.
Il peso dell’ennesimo errore si aggrappa alle mie spalle. Lo percepisco, prova a fermarmi ma io avanzo. Sicché il mio cuore inizia a rallentare, ciascun passo pesa come un macigno.
Vado avanti. Respiri lenti.
Ad ogni gradino mi sembra di scalare una prominente montagna. E scivolo ma continuo a salire. Sono stanca ma continuo a resistere.

Compio quella salita e il ricordo dello scorso Natale mi assale. I battiti accelerano improvvisi e per qualche istante colgo il desiderio di riviverlo. Mi pento di molte cose ma più di tutto di essermi fidata di lui. Ricordo perfettamente il suo profumo, così come le mani che cingono i miei fianchi, il respiro sul collo e l’incertezza che come allora mi assale.
Cosa avevo provato? Ero solo debole.
Quando spalanco la porta della Torre chiudo gli occhi e respiro a pieni polmoni la brezza estiva che mi avvolge. Seppellisco quelle immagini e mi convinco di doverle eliminare per sempre, proprio come chi ne faceva parte aveva fatto con me.
Apro gli occhi adesso e la luna mi illumina il volto. La vedo lì, immobile così come lo era stata anche durante il caos. Allora mi spingo lungo il parapetto e vi poggio i palmi respirando piano.
Oliver, spero tu stia bene.
Le lacrime, adesso, rigano il volto copiosamente.
Mi dispiace.
Non le fermo, non ci riesco. Alzo il mento a contemplare il cielo; un Dio che non conosco, a cui non credo.
Sono perfettamente cosciente che quelle parole rimarranno dentro di me. Continuerò a scappare.
Sono una codarda.

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Emily Claire Rose
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« Grazie »
La sua voce mi giunge come un eco lontano, portatore di parole che non sento spesso.
La osservo, attentamente, e inclino da un lato la testa, forse sorpresa dall'assenza di sarcasmo a bagnare le sue labbra.
La capisco e forse dovrei dirglielo, forse si sentirebbe meno sola, meno in colpa. Mi maledico, ancora una volta, per questo mio eccessivo percepirla ma, lentamente, lo so, mi sto lasciando andare.
Non parlo, anticipando il suo silenzio colmo di leggera tensione. Non vuole muoversi. Non vuole andarsene. Ma non riesce nel suo tentativo di restare, forse alla ricerca di scusa, forse incapace di chiedermi il favore di non voltarle le spalle.
Mi dice che sta bene, che posso andarmene e, in quel preciso istante, il mio orgoglio s'offende e i miei occhi si chiudono in un'espressione corrucciata. Per chi mi ha preso? Dovrei ubbidire al suo ordine?
Non mi muovo, convincendomi che il mio è solo un volermi ribellare a quel comando, un cruccio. E invece, voglio restare perché non ho di meglio da fare.
No.
Voglio restare perché...
Perché?
Sospiro e le mie iridi si sciolgono come nebbia.
Mi sto lasciando andare.
E proprio quando realizzo, come quel lontano giorno di guerra alle porte di una condannata fortezza a Gerusalemme, che voglio restarle accanto, mossa da un antico istinto di protezione, lei decide di andarsene.
Nei suoi passi non v'è alcuna fermezza. Osservo la sua schiena svanire oltre l'angolo e il silenzio inizia a gravare presto sulle mie spalle. Le mura di pietra viva si oscurano, come se la luce che prima le bagnava, fosse improvvisamente svanita.
Sospirò, sonoramente, e volgo gli occhi al cielo, frustrata.
Mai come in questo istante sento l'abito essermi di intralcio. Stringo la gonna tra le mani, forte, così forte da sentire le borchie di spine premere minacciosamente contro la pelle. E salgo.
Le scale che portano alla sommità della torre nord sono una spirale odiosa che anticipano il senso di claustrofobia tipico dell'aula di divinazione. Il serpente di scalini raggiunge la sommità del cielo così come le viscere della terra e si ha come l'impressione di esservi intrappolati, senza inizio o fine.
Così conciata raggiungo la sua sommità, contenta di aver dato abbastanza vantaggio a Megan da non doverne seguire la figura con fare inquietante, ma non così tanta da non udirne i passi leggere salire con foga.
Il ritratto delle sorelle sinistre mi accoglie alla meta. Posso giurare di averne vista una volgermi lo sguardo adombrato dal cappuccio nero. Rabbrividisco, Salazar solo sa quanto possa odiare quel dipinto. Lo osservo con decisione e sfida, pronta a captarne ulteriori movimenti ma i passi della Corvonero ora sono troppo lontani, quindi riprendo a seguirla.
Oltrepasso l'aula di divinazione volgendole uno sguardo sprezzante e mi dirigo verso l'ampia apertura. La torre è tra le più alte di Hogwarts ma lo spettacolo che offre non è paragonabile ad altre. Non ho mai capito perché fosse meta di così tante scampagnate notturne. Forse per l'aria mistica che trascende dalla classe lì accanto? Io, invece, continuo a sentire odore di incenso e ne vengo disgustata.
L'aria fresca dell'estate inglese, per fortuna, arriva presto in mio soccorso. Una lieve brezza mi da' il benvenuto, portando con sé l'odore umido della pioggia del giorno dopo e il profumo di Megan, vicina all'incavo nella pietra, troppo vicina.
« Puoi buttarti una volta che sarò andata via? », la interrompo, a voce bassa per non spaventarla: non vorrei l'ennesima vita sulla coscienza.
Stringo le mani al petto per assumere un'espressione divertita ma, vestita di rose e spine, capisco subito che non sono affatto convincente.
Restò all'entrata, sperando - pregando - che si volti a guardarmi.


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view post Posted on 19/4/2020, 20:55
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Megan M. Haven
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Il vento smuove le vesti, mi accarezza i capelli. Una rosa cade sulle mia spalla per poi appoggiarsi sulla balaustra; sento solamente il peso districarsi dalle lunghe ciocche ma non abbasso lo sguardo. Qualche minuto e torno ad avvertirla: i passi alle mie spalle, sotto il silenzio abissale che mi circonda. Così chiudo gli occhi respirando profondamente, lei è qui.
Non so cosa sto provando adesso ma un leggero calore mi scalda il petto; il cuore batte agitato. Le parole confermano la sua presenza e io non faccio altro che tornare a guardare l’oscurità riflessa nel Lago Nero, perfino la luna adesso m’appare più tenebrosa. Mi asciugo il viso in tutta fretta, come se bastasse a far vedere che va tutto bene. Chi voglio prendere in giro? Emily lo sa.
«Ho ancora molte cose da fare» le rispondo. Gli occhi ora posano sulla rosa caduta, le dita ne afferrano l’estremità e la espongono al vuoto. «Credi che lui stia bene?» allento la presa e lascio cadere il fiore nell’oscurità; è lì che vado anche io e per la prima volta ne ho la piena consapevolezza.
Mi volto verso di lei adesso, la vedo poggiata alla fredda pietra a braccia conserte. Le rivolgo un sorriso e spero che capisca quanto sono grata che sia qui.
«Ho provato a fare qualcosa, io...» poche parole e il panico mi assale, così come quei vicini ricordi, di nuovo, e improvvisamente il respiro torna a mancarmi. Non riesco a controllarlo, perché? Sono in collera e lo sono con me stessa, «Io, in realtà, non ho fatto niente.» La voce trema e il controllo sfugge dalle mani come l’acqua, come il sangue che ho visto imbrattare il corpo di Oliver.
Poggio la schiena contro il parapetto. Le labbra si schiudono e prendo aria, cercando di calmare il battito frenetico che sento rimbombare nella testa. Non ho una bella cera, non mi sento bene, faccio qualche passo, mi allontano, il palmo della mano sfiora la parete, sorregge il mio corpo mentre la testa si piega verso il basso. Vomito.
Butto fuori odio, frustrazione, profonda tristezza; riversata nel liquido di un Whisky Incendiario mandato giù da ore ormai. Reggo i capelli con la mano destra e solo dopo essermi liberata tiro su il viso, mi stacco dal muro e tampono le labbra. Non deve essere stato un bello spettacolo, mi dico, ma lei ha scelto di rimanere.
Torno dove ero prima ma non rivolgo alcuno sguardo ad Emily questa volta. Mi accascio a terra, rivolgo il mento al cielo e respiro lentamente. Gli occhi sono chiusi, sto cercando di calmarmi, e un flusso di pensieri sconnessi — di cui nemmeno io riesco a dare un filo logico adesso — mi assale.
Vedo Gerusalemme e migliaia di corpi inermi sul terreno, vedo Wolfgang che mi stringe la mano in infermeria; gli ultimi istanti passati con i miei genitori, Waldegrave e l’annuncio della loro morte; mia nonna. Provo dolore, tanto che sento il cuore implodere e andare in mille pezzi sparsi nella gabbia toracica, di nuovo; è l’inizio della fine. Poi, vedo Oliver e non provo niente se non rabbia, dispiacere nel non essere in grado di fare qualcosa. Sono così vuota? Pesa averne piena cognizione; mi accorgo quanto tutti questi fatti, dal più remoto al più vicino, mi abbiano plasmata portandomi dove sono ora. Portandomi ad essere ciò che sono oggi.
Così, i miei occhi cercano quelli di Emily e semplicemente lascio che i pensieri diventino parole. Lo faccio senza frenarmi in alcun modo. C’è qualcosa in lei, non so ancora cosa ma… mi piace.
«Sai come si combatte una guerra personale? Avrei bisogno di tornare a sentire qualcosa al di fuori… di ciò che sento. Ho bisogno di questo, E.»
La fisso e il timbro della mia voce racchiude un chiaro messaggio di aiuto. Non mi aspetto nulla, non spero che lei mi risponda, prego solo che non se ne vada come hanno fatto tutti.

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Emily Claire Rose
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È di rose che profuma.
Me ne rendo conto mentre osservo il fiore carezzarle la spalla con indolenza, per poi abbandonare la sua pelle come se non volesse averci più niente a che fare.
I miei occhi seguono quell'ardito movimento e, corrucciati, lo compiangono.
La domanda giunge frenetica, con la necessità di essere udita. Sento la nota di accondiscendenza che vorrebbe mi appartenesse e mi lascio andare ad un impercettibile sospiro, cauta nel non farmi udire da lei.
« Brior mi ha avuta come compagna a Divinazione per quasi due, interi anni. Sopravviverà anche a questo. »
La prima cosa che mi viene da dirle è permeata dall'ironia più crudele. Ma non sono lì per ferirla, anzi. Mi rendo conto che Megan potrebbe non conoscermi abbastanza e allora chino il capo, scalciando un sasso invisibile mentre le braccia si sciolgono dalla loro morsa. Le lascio cadere lungo i fianchi e il mio corpo parla da solo: sono pronta a farmi avanti. Per qualche assurda ragione, sono pronta ad accoglierla.
« Starà bene, Em*, davvero. A questa scuola è capitato di peggio. Io…»
Come faccio a spiegarglielo? La mia tranquillità deve sembrarle proprio fuori luogo, soprattutto se ho appena ammesso di conoscere Oliver da tanto. Non posso spiegarle il motivo della mia sicurezza, non posso spingermi tanto. Quindi procedo a tentoni.
Sono in pena anche io, però. Con il tempo ho imparato ad apprezzare lui e la sua presenza. La sua irriverenza. La sua testardaggine. Mi perdo per qualche istante, concentrandomi sul volto del Caposcuola, ma non come l’ho visto poco prima, dilaniato dal dolore. Nel mio concepire la sua figura, sta sorridendo appena, pensoso. Mi spiega la valenza di un concetto divinatorio che io trovo insulso e ho appena insultato. Lui ha pazienza.
« … Ti fidi di me? »
Una domanda che racchiude una concepibile risposta. Non mi conosce abbastanza, ma devo arrischiarmi.
« Ecco. Io so che starà bene. Sento che andrà bene. »
Muovo i primi passi verso di lei, ripetendomi, e solo in quel momento mi sfiora la sua affermazione: ha ancora tanto da fare. Mi scopro curiosa ma non lo ammetto, non è il momento di studiare Megan come il divertimento mi impone di fare con gli altri, con chiunque. Lei è diversa.
Non so se credere o meno all'asserzione appena partorita dalla mia mente ma provo comunque a convincermene. Il mio bisogno di avvicinarmi a lei, almeno, avrebbe così un senso.
MI guarda e il suo sorriso mi trafigge. Come riesce a farlo?
Mi fermo, come per timore di azzardarmi troppo nel voler ridurre le distanze. Come se stessi avvicinandomi ad una Creatura ferita che non ha paura di me, ma teme le conseguenze del suo lasciarsi andare.
Ci vuole cautela, fa piano, mi ripeto. E allora le sorrido anche io, senza che la pena delinei le mie labbra arricciate. Nessun pietà, solo comprensione.
« Lo so »
La mia voce le fa subito da eco e muovo un altro passo, un altro ancora. Quella risposta ha due valenze ma non voglio che lei veda ciò che nascondo con magistrale codardia.
So cosa vuol dire provare a fare qualcosa e non riuscire. Provare a mettere insieme i pezzi avvinti dalla distruzione e vederli sgretolarsi tra le mani, uno dopo l’altro. La polvere bagna le dita e ci si sente cadere in frantumi, con la speranza che qualcuno ne raccolga i brandelli rimasti.
Il paradosso irrompe nell'aria malsana e sento crescere il panico nel suo petto. Arrestarle il respiro. Nutrirsi del suo dolore.
La schiena della corvina viene poggiata con prepotenza contro il parapetto e l’impulso mi spinge in avanti tendendo la mano in quel vuoto statico.
Il braccio torna giù. Le faccio dono di quell'attimo di intimità, rilegandomi nel silenzio, abbracciando le ombre. La vedo scivolare a terra e percepisco il mio stomaco contorcersi per la nausea.
In un’altra situazione, avrei abbandonato quel posto prima ancora di assistere ad una scena simile, fuggendo non appena ne avessi percepito la possibilità approcciarsi all'esistenza. La mia mano, invece, cerca la bacchetta e con un dolce movimento rivolta alla pozza, se la porta via, liberando il pavimento e Megan dalla vergogna – o almeno spero.
Senza provare più alcun timore, mi avvicino a lei e la mia avanzata viene accompagnata dalla sua voce.
Ed è in questo momento che il mio istinto mi annebbia i pensieri.
Mi siedo accanto a lei senza preoccuparmi dell’abito. Senza preoccuparmi di ciò che potrebbe pensare di me.
Accolgo il suo desiderio.
Mi lascio andare con la schiena alla parete e con una forza che non mi appartiene, le cingo le spalle con superbia. Il palmo preme contro l’incavo del suo collo e la strattono a me, costringendola a piegare il capo sul mio petto mentre la stringo.
« Una guerra personale si combatte semplicemente… »
Una ciocca dei mie capelli le cade sul capo, bagnandole lo zigomo ancora scoperto. La sposto, con delicatezza, evitando di toccarla nonostante l'arroganza impressa dal mio… Cos’è? Un abbraccio?
Rosso su Nero.
Sangue su Ombra.
« … Arrendendosi. »
Concludo a voce bassa, alzando il capo al cielo, avvertendo il peso di stelle ignare e morenti su di noi.
Vorrei poterle spiegare la mia asserzione ma non voglio incorrere in quell'errore. Non è ciò di cui ha bisogno.
Evito di stringerla più forte, dimentica, per un istante, delle spine che mi disegnano i fianchi sottili.
Ripenso ad Oliver e al ballo. Ripenso a Ra, al coraggio che ho invocato nell'abbandonare l’Ilfracombe per raggiungere Hogwarts alla sua ricerca. La paura mi avvince e tremo appena, adducendo l’incertezza del mio corpo alla brezza leggera che penetra dalla finestra sopra di noi e ci bagna dall'alto.
« Ne ho bisogno anche io. »
Le confesso con un sospiro, mentre chiudo gli occhi per non essere spettatrice della mia resa.

*M


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Edited by Emily Rose. - 9/5/2020, 20:07
 
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Ascolto le parole e le palpebre si chiudono per far scendere altre lacrime. Il mento si alza in cielo e il sale scende fino a bagnare il collo. Respiro. Mi sento così debole. Così vicina all’orlo di un pricipizio pronta a saltare giù. Ma c’è qualcosa nella mente che mi fa desistere: il bisogno di avere qualcuno al mio fianco.
Tuttavia, le emozioni in contrasto rendono ogni cosa più difficile. Dare fiducia a Emily significa aprire una porta, e non sono convinta di riuscirlo a fare. Eppure, le azioni continuano a portarmi in un’altra direzione, come sapessero cosa sia meglio per me. Mi suggeriscono forse di deporre le armi? Condividere il dolore che provo ogni singolo giorno?
In parte l’ho già fatto in passato. So quanto può fare male. So quanto posso fare male.
Abbasso la testa in direzione delle pietre, sono così stanca del peso che mi porto dietro. Talmente stanca da non muovere nemmeno un muscolo nel sentire la Serpeverde avanzare. La lascio compiere quei passi mostrandole la parte più debole: non c’è più Megan che prova a fuggire, c’è la testa china e la schiena scoperta.
Debolezza.

Mi mostro così e accolgo ogni azione seguente. Lei si siede al mio fianco e io provo calore. Dopo tanto tempo riesco a percepire il vero tepore che avanza nelle mie viscere. Emily posa la mano sulla mia spalla e io le rivolgo uno sguardo. L’intensità è tale da lasciarmi sorpresa e le parole scorrono come un fiume in piena dentro di me. Immaginarmi alla stregua degli eventi, inerme, senza possibilità alcuna di sapere del mio passato, è impossibile.
Accolgo quell’abbraccio e porto la testa sul suo petto. Chiudo gli occhi e sento i battiti rallentare, la pace alimenta il mio stato e la quiete m’appartiene.
Poi sorrido, un movimento delle labbra involontario, autentico, e mi concedo due lenti respiri prima di dire qualcosa.
«Non possiamo arrenderci» la voce è calma, decisa nelle sue note delicate. «È la nostra guerra, E.» Concludo silente.
Volgo lo sguardo verso il cielo, la testa scivola lungo l’addome fino a trovare spazio sopra le sue gambe. Le iridi blu si perdono nella notte e non sento altro che il silenzio attorno a me. Mi piace perché lo sto condividendo con qualcuno. Lei.
Sospiro e sorrido. Il vuoto che sento viene colmato dalla sua presenza, questo luogo ha già vissuto le emozioni che sto provando ma adesso avverto una sottile differenza ed è migliore.
«Posso arrendermi alle emozioni?» interrompo la quiete. «Non sono facili da gestire» un ghigno spontaneo si fa spazio fra le mie labbra. Questo contatto sembra bastarmi, pare darmi tutte le certezze del caso. È diversa. Così, cambio espressione e la totale calma d'improvviso mi sovrasta. Ne sento il peso, un formicolio leggero sulla pelle nuda, ma non avverto la necessità di fuggire via. Emily è riuscita a camminare sul filo in perfetto equilibrio, senza mai esitare. Questo fa la differenza, non ha paura di toccarmi né di rimanermi affianco.
Il vento continua ad accarezzarmi il volto e le nuvole in un impercettibile movimento mostrano l’unica stella in mezzo all’oscurità. Quel momento riporta la mente indietro nel tempo, quando per la prima volta mio padre mi portò ad osservare il cielo. Colgo lo stesso stupore nell'osservare la volta e non faccio altro che inebriarmi di quell’attimo. Una lacrima torna a bagnarmi il viso, scorrendo lungo la guancia, impregnando i capelli, e un gesto involontario delle dita la spazza via velocemente.
«Un attimo prima sei felice, o almeno ti lasci andare, e pochi istanti dopo sei a terra colmata dalla frustrazione, dalla rabbia, dalla paura e dal risentimento. Così, lasci semplicemente che attorno a te si alzi un muro e giorno dopo giorno diventa sempre più solido e difficile da abbattere» un’improvvisa morsa allo stomaco mi costringe ad alzarmi. Sto parlando troppo e il panico accelera i battiti. Con i gomiti e poi con le mani faccio leva e abbraccio le gambe; raggomitolata su me stessa, sento il tessuto del vestito tirare dietro la schiena e i capelli accarezzare la pelle. Respiro profondamente, provo a nascondere ciò che sfugge al mio controllo. Mi nascondo, ancora.
«Sì, ti costruisci un armatura che sai perfettamente non essere eterna. Eppure lo fai, eppure ti privi di così tante cose che…» mi fermo e le rivolgo lo sguardo, il profumo mi travolge. «Credo di non farcela più, sto per esplodere» confesso infine. La voce trema e in quello strano discorso c’è la speranza che lei capisca cosa voglio dire. So perfettamente di poter prendere strade diverse ma qualcosa mi spinge a non farlo. Sono consapevole di sbagliare ma lo faccio. C’è davvero una soluzione a tutto questo? Cerco una risposta.
Nel profondo, però, ho la consapevolezza di non avere altra scelta che quella di spegnere la luce.
Emily è qui e mi osserva e non voglio che smetta di farlo.

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Emily Claire Rose
Serpeverde | Banshee

È la nostra guerra, dice ed io non riesco a volgerle lo sguardo. Continuo a perdermi nel cielo poiché solo sentendomi infinitamente piccola, estranea alla grandezza che mi sovrasta, riesco a mantenere quell'equilibrio di cui ho bisogno. Di cui lei ha bisogno. Un sorriso fugge le mie labbra però, e le palpebre si chiudono al pensiero che lei possa davvero comprendere ciò che sento anche io. Questa è la sua bellezza: Megan non parla per sé, non c'è egoismo o prepotenza nei suoi sentimenti. Le parole mi giungono, vicine, e le abbraccio come sto facendo con lei, senza pudore alcuno. Si sta lasciando andare, si sta fidando di me. A sancire questo mio pensiero, arriva il movimento impercettibile del suo capo che scivola lungo il mio petto e trova dolcemente posto al grembo. La destra raggiunge una ciocca dei suoi capelli, senza guardare, come se le dita esili sapessero già dove poggiarsi. Le iridi adocchiano nuovamente la vastità degli astri e il carbone lucente scivola piacevolmente tra gli incavi del mio palmo; in questo gesto trovo una calma meccanica, acuita dal silenzio che ora ci domina più di ogni altra cosa.
La serenità mi travolge e, nel crudele paradosso che genera con la situazione, mi sento quasi in colpa nel voler fermare il tempo a quel momento. Mi illudo che, se anche Megan sapesse tutta la verità su di me, resterebbe lì comunque ma allontano subito quella pericolosa chimera. Non posso commettere alcun errore di valutazione; il ristoro che mi sto concedendo non ha nulla a che fare con la battaglia, quella vera, che mi aspetta fuori da quel piccolo angolo di pace che, nel bel mezzo di urla e fiamme, siamo riuscite a creare. Per noi. Solo noi.
La voce di Megan mi sorprende, scuotendo la stasi irreale che ci aveva avvolte. Con innocenza e semplicità da' esattamente voce alla diatriba che sto vivendo e uno sbuffò incredulo sovrasta nuovamente le sue parole. Possibile sappia davvero ciò a cui sto pensando? Quell'estemporanea connessione, così pura, celere eppur familiare mi colma di piacevole disagio. Vorrei dire qualcosa ma ne sono talmente estasiata che quando abbandono lo sguardo su di lei, pronta ad incrociarne le iridi cobalto, il profondo disappunto cancella la quiete di poco prima non appena lei, bruscamente, si alza.
Il mio palmo resta per qualche secondo a stringere l'aria e la fronte, aggrottata, si posa sulle sue spalle.
Qualcosa si rompe.
La mano si abbassa e torno a poggiare la testa contro la parete fredda, avvertendone esageratamente il fastidio quando, in realtà, sono semplicemente delusa dal suo allontanamento improvviso.
L'ascoltò, ancora una volta in silenzio. So di cosa sta parlando e mi maledico per averlo pensato. Nella mia testa impreco contro il mio stesso egocentrismo. Vorrei smettere di dirmi che so esattamente cosa prova, smettere di avvalermi della presunzione di sapere cosa sta passando.
Stringo forte le mani e porto le ginocchia al petto come sta facendo lei. Sento di perderlo, l'equilibrio di cui, ignara, mi vantavo e non ne capisco il motivo.
Sono le sue parole? E' stato il suo allontanarsi?
La testa si abbandona e ciocche vermiglie ricadono lungo le guance. Il petto ansante duole e temo l'irreparabile.
No.
Non può succedere in questo momento.
Non qui con lei.
Prendo aria e il respiro si spezza in gola.
« Senza armatura permetti a chiunque di farti del male. », mi sento rispondere, il volto coperto e lo sguardo perso. Sento il cuore di Oliver battere, debole. Quello di Megan, agitato. Il mio... Quello di Ra...
« Di usarti. » aggiungo. E' questo che più mi preme lei comprenda. So di avere le forze per far sì che ciò accada; so ormai che lei si fida di me e io, colpevole, ho sbagliato facendo in modo che accadesse.
Io posso farle del male. Io posso usarla. Potrei.
« Devi capire chi combattere e chi può, invece, aiutarti a farlo. »
Inclinò di poco la testa, quel tanto che basta per poter tornare a guardarla.
« Non devi mai, e dico mai, allontanare chiunque. » la mia voce risuona ferma, categorica. Lo sguardo diviene serio, la dolce nebbia che torna freddo granito.
« Mi hai capito? O... »
Le iridi volgono ora altrove, il viso si rilassa. L'abbandono mi punge, arroventa la gola, brucia i sensi.
« ... Finirai come me. E non ci si può fidare di quelli come me. »
Sentenzio con un fil di voce. Non voglio farle del male. Non voglio essere luce per l'ennesima falena che s'avvicina troppo. E, a quella consapevolezza, mi chiedo se non sia stato il Fato stesso a preservarmi dall'incontrare Horus. A preservare lui e la sua di luce.
Perché, certi tipi di ombre, non c'è bagliore che possa vincerli.

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view post Posted on 16/12/2020, 00:55
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Ocean eyes.

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Megan M. Haven
xxPrefetto Corvonero | 17 annixx
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Sento il freddo delle lacrime scontrarsi con la brezza estiva che accarezza il mio volto; l’intero corpo. Un brivido mi attraversa la pelle, un improvviso fremito lungo la schiena nuda che termina all’altezza del collo. Stringo le spalle in un moto di riflesso e respiro profondamente. Non distolgo l’attenzione dal viso di Emily, i miei occhi cercano i suoi e non intendono cedere, almeno in un primo momento. Dopo quella confessione cerco di non aspettarmi niente da Lei ma, allo stesso modo, desidero che parli e mi dica qualcosa. Sto chiedendo aiuto e per la prima volta lo faccio senza soffocare ciò che sento.
Mi nascondo ma allo stesso modo mi lascio mostrare. Una parte di me sente che Lei può capirmi, una sensazione che permane mentre attorno a noi v’è solo il rumore della notte, del silenzio assordante.
Solo dopo qualche secondo abbasso le palpebre, mi concentro nel contare le linee che dividono il selciato e prego che qualcosa accada perché non voglio assecondare il futuro istinto di fuggire via da lì. Sento i nostri respiri; mi sembra di avvertire i battiti anche se le distanze sono aumentate, i miei si uniscono ai suoi. I pensieri, allo stesso modo, si mescolano gli uni con gli altri dando vita al caos. È nel disordine che io mi trovo e dove desidero ritrovarmi.
Quando le parole di Emily giungono alle mie orecchie torno a guardarla. Inizialmente cela il suo viso e io resto immobile desiderando di scorgerne le sfumature delicate, eteree. Poi la vedo, sebbene il suo sguardo sia diventato pietra; è bella e nei suoi occhi nasconde una luce effimera, la vedo, ed è la stessa che si riflette nei miei. Qualcosa l’ha spezzata.
Lei è spezzata.
Io lo sono.
«Non devi mai, e dico mai, allontanare chiunque. Mi hai capito? O… Finirai come me. E non ci si può fidare di quelli come me.»
La sua voce è lieve, in alcuni tratti impercettibile, ma arriva dritta alle mie orecchie. Ne sento la determinazione ma altresì ne avverto il dolore ed è lì che mi soffermo. Le sorrido, benché lei possa guardarmi o meno, non mi preoccupo di seguire quell’istinto. Le labbra si tendono per pochi istanti in un’espressione dolce e amara. Mi spingo verso di lei, sollevo il busto facendo leva sui palmi e finalmente poggio le spalle contro il muro con le ginocchia verso il petto.
Sono al suo fianco.
Chiudo gli occhi, sento ancora il suo profumo travolgermi. Il cuore ora si sta agitando; schiudo le labbra, torno a guardare il grigiore delle mura e lascio al leggero vento travolgermi. Ne avverto la forza, seppur lieve è intensa.
«E., ci sto provando» parlo finalmente. Un nodo mi stringe la gola e in quei secondi le emozioni provate in passato riaffiorano; giusto il tempo di ricordarmi quanto fa male lasciarsi andare. Volgo lo sguardo verso di lei, la testa poggia sulla parete. Cerco di reprimere quelle sensazioni, provo a non tirarmi indietro e in tal modo lascio semplicemente le cose accadere. «Ma devi farlo anche tu» aggiungo. La voce è decisa, le mie intenzioni sono chiare. Poi, mi perdo di nuovo ad osservare la volta celeste, un respiro profondo e chiudo le palpebre per qualche secondo.
«Non eri tenuta a stare al mio fianco questa sera, eppure sei qui. Non sei andata via, non ti sei arresa» abbasso di nuovo lo sguardo ma questa volta seguo il semplice gesto della mia mano cercare quella di lei; racchiudo il palmo sulla pelle fredda. «Per la prima volta non mi importa del perché. Mi basta» le sorrido, mentre l’ultima lacrima solca una parte del mio viso. Deve capire che sta facendo molto, che sento di potermi appoggiare a lei come non mai in questo momento e allo stesso modo provo a fare lo stesso.
«Sei qui. Grazie.» Le dita premono con più forza, condotte dalla volontà di imprimere saldamente quelle parole nella mente di Emily. Lei può definirsi in qualsiasi modo ma non posso ignorare quello che ha fatto per me, lo deve sapere.
«Io penso che ci si possa fidare di quelle come Te» annuisco con tenerezza. Fingo di non avvertire il pizzicore nelle iridi e nel naso. Un attimo di fuggevole aspra felicità mi avvolge e non mi lascio sfuggire alcuna sensazione. Torno a guardarla prima di piegare la testa da un lato poggiandola sulla sua spalla. «Io sono qui» le dico con un fil di voce.
Sempre.

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view post Posted on 27/3/2021, 20:37
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Emily Claire Rose
Serpeverde | Banshee

Fa sempre male lasciarsi andare.
Penso a questo mentre lei sembra, invece, reagire con forza al proprio dolore. Avverto la necessità di guardarla, bearmi della sua tenacia, della luce che, per un momento, sembra abbagliarmi; nella bellezza intima dei suoi movimenti, riesco quasi a sentirmi migliore.
Mostro il viso, scrollando appena la testa, cingendomi nelle spalle avvinte da un brivido innocente, colpa della brezza sempre più crudele e fredda. Le ciocche che coprono le guance mi pizzicano il volto ma temo di accostarvi le dita per scacciarle, come si fa con un insetto fastidioso, impaurita di spezzare quel calore che ora si posa su di me come una calda coperta.
E ancora, mi chiedo se le sue parole hanno davvero questo potere.
« E., ci sto provando. Ma devi farlo anche tu. »
Resto immobile, incapace di reagire e il cruore avvampa nel petto. Non ho il coraggio di dirle che ho tentato, mille e più volte, ma che proprio non ci riesco.
Non la conosco, non davvero, eppure mi sento quasi in dovere di rammentarle che io non sono come lei.
Io non sono audace, sono ostinata, orgogliosa, certo, ma non brillo di luce propria.
In astinenza di quell'energia che mi aveva concesso prima, torno a guardarla, il capo inclinato verso il basso, gli occhi fermi su di lei.
Parla ancora e la sua mano cerca la mia; sento il bisogno di sfuggirle ma mi limito ad abbassare le iridi su quella unione. Non posso più scappare. Le mie dita si intrecciano alle sue e muovo il braccio a rivolgere il polso verso l'alto, aggrappandomi con forza - forse troppa - a quella presa.
« Non sono qui solo per te, M. Sono qui perché ero anche io ad aver bisogno di... » e alzo appena l'intreccio dei nostri palmi; le labbra si tingono di un sorriso affranto, arrendevole.
Mi sta dipingendo meglio di ciò che sono. Cosa accadrà quando si renderà conto dell'inetta che sono?
« ... Questo. »
Va bene così, però; alla fine me ne convinco. Distolgo lo sguardo e sospiro, arrancando alla ricerca di aria, come dopo l'esplosione d'un pianto atroce.
Ho bisogno di respirare e se a lei non importa, se il mio narcisismo non la tocca, forse riesco quasi a farlo, a darmi tregua.
« Io penso che ci si possa fidare di quelle come Te », stringo più forte la presa, pregando che non s'allontani di nuovo e mi giro verso di lei, indietreggiando lentamente contro la salda roccia, mera difesa contro il freddo che incalza.
La cheta invocazione deve esserle giunta perché il mio sguardo intercetta subito il capo corvino posarsi sulla mia fragile spalla e, piegata in sua direzione, le labbra le sfiorano i capelli. Lascio scivolare la fronte e chiudo gli occhi, lasciandomi inebriare dal suo profumo che sa di pace, di pioggia bagnata dal primo sole dopo una tempesta.
« E io qui. »
Sempre.

Perché, certi tipi di ombre, non c'è bagliore che possa vincerli.
Io ho una teoria. La mia teoria riguarda i girasoli.
Seguitemi bene perché è una teoria tutta mia.
I girasoli sono dei fiori particolari: nascono, vivono e muoiono per il sole.
Così come alcune persone che io chiamo girasoli: loro vivono per l’amore, amano la vita, amano l’amore in tutte le sue forme, sono persino un po’ attratte dalla sofferenza, come il fiore che vive di tristezza quando il sole va via.
Le persone girasole sono persone particolari, le noti subito perché hanno una strana luce dentro gli occhi e sono belle, belle da morire e lucenti, come un fuoco che arde.
È difficile spegnere certe persone, a volte si spengono da sole, mai per gli altri e hanno questa capacità di illuminare ogni cosa che hanno intorno.
Fateci caso, a volte ci sono delle persone che incontrate e vi sentite migliori, perché loro questo fanno, vi fanno sentire qualcos’altro, qualcosa di buono, qualcosa che brilla.
I girasoli illuminano ogni posto in cui mettono piede. Sono fatte così loro. Non puoi non amarle, non puoi spegnerle, non puoi non brillare accanto a loro. Sono dei fiori, ma profumano di cielo.


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Edited by Emily Rose. - 27/3/2021, 20:56
 
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