Sabotage

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~ Nieve Rigos
view post Posted on 10/1/2024, 15:20 by: ~ Nieve Rigos
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entropia.

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Nieve Rigos
18 anni
Mese di Dicembre, IV anno, bocciata dopo due anni di assenza da Hogwarts
Foresta proibila
Segue: Cordoglio
Musica d'ispirazione: Valentine



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All this love, I'm so chocked up

Scroscia, la pioggia, cosi fitta da produrre un suono tutto suo — forte, reboante, impossibile da ignorare. Guardo la superficie del Lago Nero. È come se migliaia di incantesimi stessero crollando giù a precipizio dal cielo e il suo specchio non potesse fare a meno di inghiottirli coraggiosamente.
Non ho più alcuna percezione del mio corpo. L’acqua ha penetrato ogni più sottile strato di pelle, ogni fibra di tessuto. Tremerei, se non stessi bruciando dall’interno. Il calore che mi colma è tale da sciogliere la neve sotto di me, o così mi sembra nel pieno del mio delirio. Stringo i pugni, le labbra violacee per il naturale rigore di dicembre. Ne abbiamo 3, oggi. È il mio compleanno.
Respiro veloce, in affanno. Fa così male che potrei impazzire. Magari, lo sono già. Cosa sia rimasto dell’essere umano che mi affanno ad essere giorno, dopo giorno, dopo giorno, proprio non lo so. Potreste non capire, ma il 3 dicembre per me non rappresenta soltanto la data in cui sono venuta al mondo — dove e da chi, poi, è un altro mistero che non m’importa di svelare. Per me, oggi, è l’anniversario di…
Stringo i pugni. Le lacrime si confondono con le gocce dolci di un cielo iroso. Mi rigano il viso. Fa male, l’impietoso discendere della pioggia che attacca le mie carni. Farà sempre meno male della bestia che graffia nel mio petto e nella mia calotta cranica, lasciando solchi grossi come crepe nella montagna. Il nodo che mi serra la gola assume una consistenza più solida. È una pietra che cresce, cresce, cresce. La sua mole minaccia di lacerare la grossa vena che pulsa lungo il profilo del mio collo — blu su bianco.
Scatto in direzione della Foresta Probità, tra le mani oggetti che divorano le pelle, i polpastrelli, le nocche. Cancellano le mie impronte digitali, ricordandomi che non sono nulla e mai lo sono stata. Per i primi sei anni della mia vita, il mio nome non è apparso su nessun registro ufficiale. Sono stata un fantasma e lo rimango anche adesso che, un’identità, dovrei averla.
Scappa, il singhiozzo che ho combattuto negli ultimi minuti. Rompe il ritmo perfetto della mia corsa a perdifiato. Che mi importa di essere beccata, del mondo che gira intorno a me con le sue stupide regole, se ogni più piccola porzione del mio corpo si contrae, e dibatte, e implode.
Chiudo le palpebre — non la migliore delle idee per chi stia andando avanti verso l’ignoto, le gambe in movimento. I ricordi scivolano dietro gli occhi con una promessa: sarò per sempre maledetta.
«Astaroth Morgenstern è morta.»

È Grimilde a tranciare di netto il filo in divenire delle mie aspettative con una frase terribile e… inverosimile, a dir poco. La sua eco mi raggiunge e gela il lavorio delle mie sinapsi, dunque induce le mie palpebre a spalancarsi e, da ultimo, a battere il ritmo rapido della confusione.
Dev’essere uscita fuori di senno: è questa la sola spiegazione che io riesca ad elaborare, non appena lo sconvolgimento allenta la presa per trasformarsi in altro. Se ho ricevuto un’epistola da parte di Astaroth in merito a quella che so essere la sua villa, com’è possibile che sia… morta? È così sciocco e palesemente privo di logica. Un morto non può scrivere lettere e ordinare che vengano spedite a destra e a manca, coinvolgendo addirittura un’autorità del calibro del Ministero della Magia. È troppo assurdo perfino per il nostro strambo mondo.
Allora perché, perché non riesco a guardare Grimilde?
I miei occhi rimangono cocciutamente puntati sulla carta.
Non me ne rendo conto giacché non posso vedermi, ma sono pietrificata. Il mio corpo, guardato dall’esterno, rammenta una statua di marmo, lavorata dalle sapienti mani di uno scultore dal gusto sopraffino — sembro viva e, a un tempo, non lo sono mai stata.
Forze contrastanti si muovono al mio interno, trasformandosi ora in calore ora nel gelo più penetrante che le mie ossa abbiano mai conosciuto. Ho le falangi fredde; e il volto e il petto in fiamme. Non mi sono mai sentita così spezzata in tutta la mia vita.

«Tu sei pazza.»
Scivolo anch’io. Il suolo è impregnato d’acqua. Sotto di me, una distesa di fango e ciuffi d’erba. La suola delle scarpe perde aderenza con il terreno. Finisco distesa, ricoperta di terra bagnata. Vorrei dire che la cosa mi disturba, ma sarebbe una menzogna. In quello stesso mare sporco, batto i pugni più e più volte, incurante dello strappo ai collant che consente alla fanghiglia di trovare le ferite sulle ginocchia. Piango, rumorosa. Poggio la fronte sulla piccola pozzanghera che ha già accolto il mio viso. Non ha fatto meno male solo perché l’acqua ha ammorbidito la secchezza stoica del terreno. Acqua, neve, fango arrossano le gambe nel punto di impatto. Ma che importa?!
Stringo i denti, li sento dolere. Il muscolo sulla guancia vibra. Tengo gli occhi chiusi e so che non dovrei. Se li aprissi, forse riuscirei a distinguere la realtà dal passato che mi perseguita. Se li aprissi, magari mi renderei conto della mattìa della quale solo in balìa. È che fa così male… così male.
«Quella è una lettera del Ministero, Nieve. Ti annuncia il mio arrivo, poiché è mio dovere informarti che la signorina Astaroth Morgenstern è… è venuta a mancare. L’anno scorso, per la precisione.»

Le parole dello sconosciuto mi hanno attraversato da parte a parte, così ho chiuso gli occhi. Non è stato l’annuncio della morte di Astaroth a toccarmi, ma il suo sincero dispiacere e il modo in cui ha lasciato che trapelasse dal silenzio che è seguito.

Le mie ciglia tremano e la superficie del mio corpo fa altrettanto, perché d’improvviso sento e vedo tante, tantissime cose: un sapore conosciuto sulla lingua, l’impressione di essere stata espropriata di una parte della mia vita, ricordi che non possono appartenermi.
Le immagini somigliano alla fantasia distorta di ciò che sarebbe potuto essere, non di ciò che è stato, e i suoi frammenti si mescolano, confondendomi. Disegnano episodi fuori fuoco ma tangibili, che prendono forma a un passo dalle mie dita.

Un dolore ignoto, come di magia diventata materia, mi percorre le membra fredde e ho l’impressione che — intorno a me, sopra di me e sotto di me — il mondo sia in trasformazione, dalle fiamme della lanterna ai vetri delle finestre alle fondamenta della casa.

[…] Sono una statua di marmo, fissata per sempre nel tempo non dalle mani di uno scultore, ma dalle parole di Aurelius Morgan.

«Come?»

È colpa mia.
È colpa mia.
È colpa mia.
Che cosa ho fatto?
Mi alzo. Recupero i frammenti che ho portato con me, cimelio di una vita distrutta. Non posso continuare e, allo stesso tempo, non posso smettere. La mia corsa riprende. È come se sapessi istintivamente dove andare; come se le mie gambe conoscessero la strada meglio di me — di quel che ne rimane. Cosa voglia farci con i pezzi di ciò che fu non mi è chiaro, ma lo scoprirò a breve.
È la radura ad accogliermi, uno spiazzale contornato da grossi alberi e dalle loro radici nodose — smuovono il terreno come tentacoli sinuosi. Qui ho conosciuto il mio Thestral. Mi fermo. Getto alla rinfusa quel che le mie mani custodiscono; le sparpaglio qua e là involontariamente. Porto le mani alla testa, muovo i capelli sporchi all’indietro, affondo le unghie nel cranio. Sto andando a fuoco. Muoio e vivo insieme. Voglio solo che smetta.
Urlo. Il grido attraversa la foresta, inerpicandosi fin sopra le fronde degli alberi. Si confonde con la pioggia e il suo scroscio. Prendo la bacchetta. La sfilo dalla manica del cardigan zuppo come se il nostro legame non si fosse spezzato due… tre anni fa. Ringhio. Punto la bacchetta verso le polaroid ammucchiate. Non se ne distinguono più i protagonisti; non sono che un movimento indistinto, distorto dall’acqua.
«INCENDIO» strillo. Le corde vocali si tendono così forte che quasi ne sento il punto di rottura. Non ho ancora finito. «INCENDIO Le fiamme attecchiscono, dapprima furiose, poi tremule, su una sottoveste ecrù — porta ancora il suo profumo, l’essenza di eleganza che emanava da lei, il puzzo della mia disperazione. L’ho stretta a me così spesso in questi ultimi anni. Oh, così spesso!
«Benvenuta, padroncina

Rimango delusa.

No, dicono le mie labbra, perentorie, ma il mio mondo interiore vacilla. No, ripetono, infine lo urlano come se tanto bastasse ad allontanare lo spettro del loro significato.
Getto le chiavi sul pavimento e mi slancio in direzione delle scale. Attraverso l’ingresso finché non le raggiungo. Prendo a salire i gradini in fretta, a due a due, inseguita da una verità alla quale non sono disposta a soccombere.
No, continuo a dirmi, la mascella contratta nello sforzo del rifiuto e i pugni stretti nei guanti rubati.
No,. Semplicemente e irremovibilmente no.

[…] Avanzo, trascinandomi, e scivolo sul ghiaccio dei gradini.
Cado e batto contro il loro profilo acuminato: gli avambracci, le costole, un gluteo. Sto singhiozzando, così forte che la mia gabbia toracica potrebbe schiudersi e cacciare via i polmoni e il cuore — ospiti sgraditi, rumorosi, incontentabili.

Un lamento si diparte dalla bocca piegata.
Striscio sulla ghiaia del cortile antistante la villa, graffiandomi le mani.
Ho il cuoio capelluto in fiamme, le dita che affondano tra le onde d’argento dei capelli.
Poi, un singulto e un’insopportabile bruciore al viso — agli occhi.

Rotolo su me stessa, portando i palmi sulle palpebre chiuse.
Lungo il percorso ho perduto il maglione. L’ho strappato nella speranza di trovare aria.
Contraggo la schiena, creando un arco innaturale, sulla spinta di un male che mi ottunde i sensi.
Non riesco a pensare. Non riesco a respirare. Non riesco più neppure a piangere.

Aiuto, latro e ho paura.
Aiuto, ripeto e sento le corde vocali logorarsi.
Aiuto, chiedo e tremo.

Sento un corpo caldo avvicinarsi al mio, avvolgerlo come si farebbe con una neonata abbandonata in fasce sull'uscio di una casupola diroccata. L’odore sa di casa, di tenerezza, di amore. Ma non è il suo odore, l'odore della mia Roth.

Le spalle riprendono a sobbalzare per il pianto.
E le palme premono sul viso, sulle pupille arse da un male che non ho mai provato prima.
Brucio dentro e fuori. Bruciano gli occhi.
Come se non dovessi vedere mai più.

Aiuto, rantolo di nuovo, più attaccata alla vita di quanto sia disposta ad ammettere.
Ỳma, la invoco e mi stringo al petto che mi accoglie, convinta che sia quello della mia balia.

Ỳma. Ỳma. Ỳma.

È tutto finito. Io sono finita.
Nessuno mi ha mai detto che si può morire anche da vivi.
«INCENDIO Una lettera, la pergamena sfatta dalla tempesta in corso. «INCENDIO INCENDIO INCENDIO.»

Non mi chiedo neppure come sia possibile. Che la bacchetta stia rispondendo al mio richiamo dopo un così lungo silenzio. Non mi stupirebbe scoprire che la vampa distruttiva che solo ceneri sta lasciando al suo passaggio sia scivolata, impetuosa, fino alla punta di tiglio argentato. Brucio dentro e brucio fuori.

Cado sulle ginocchia, i fuochi appiccati quasi del tutto spenti dalla furia liquida del cielo. Batto di nuovo i pugni serrati sul pavimento di fango. Fa male, ma mai quanto la consapevolezza di averLa perduta per sempre. Getto il capo all’indietro. Urlo di nuovo, stavolta così forte da strapparmi le corde vocali. Com’è già accaduto, la metamorfomagia risponde al mio inconsapevole richiamo. Lunghe onde d’argento scorrono sul suolo, crescono, rivoli lucenti presto sporcati dal terreno smosso.

Cado seduta sui talloni, le mani al collo. Fa male, mai quanto la Sua assenza.
Sento il sussurro di nonna Lucrezia nelle orecchie, come fosse ancora qui.
“Che cosa hai fatto?”
Che cosa ho fatto.


Baby, it's hard to breath when you are gone


Edited by ~ Nieve Rigos - 10/1/2024, 16:24
 
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