Sabotage

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~ Nieve Rigos
view post Posted on 7/7/2019, 21:06 by: ~ Nieve Rigos
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entropia.

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Nieve Rigos
16 Anni
Mese di Giugno, III anno.
Segue: Chi-La-Fa-L'Aspetti (+ Pieces)



fS54vHK
La quiete regna sovrana nella stanza.
Oltre i contorni della finestra, il paesaggio è pacifico e ordinato. La sagoma di nonno Gaspare si muove da un’aiuola all’altra nell’atto della potatura — si prende cura del cortile interno con l’amore che gli vedo usare nei confronti di ciascun membro della famiglia. Ma in questo momento non lo sto guardando, né i miei occhi lo vedono.
Tengo la tenda bianca, composta di un tessuto sottilissimo, discostata dal vetro e viaggio migliaia di miglia lontano dal punto in cui mi trovo. Mi capita spesso di assentarmi di recente. Alacre, creo delle parentesi di armonia nella sfera del mio io, quando il mondo attorno mi risulta intollerabile e sento di non poterne reggere il ritmo. La distanza allevia la sensazione di impotenza che mi prende il cuore e lo trascina giù, mescolandolo alle viscere. Lo sento battere ovunque, quel muscolo strano e prepotente, perfino in posti in cui non ci si aspetterebbe di trovarlo. In compenso, non sento gli altri, che mi appaiono inutili — sagome nebulose di un’umanità dalla quale mi tengo alla larga per salvaguardare la mia.
«A cosa stai pensando?»
La voce di nonna Lucrezia, oltre il velo spesso che ho frapposto tra me e l’adesso, mi recupera e pone fine alle mie peregrinazioni. Trattengo un sospiro, infine lo lascio andare. Adesso, poco alla volta, la sfocatura sbiadisce e intravedo la figura del mio giardiniere preferito affaccendarsi attraverso la pianta quadrangolare della corte.
«All’Islanda» le rivelo e mi volto a guardarla. Si sta reggendo con le mani al tavolo della cucina e mi osserva. Vorrei dirle che ha una striscia di farina sulla guancia, ma la trovo così deliziosa che mi concedo il lusso di tacere. In compenso, gli angoli delle mie labbra si arricciano impercettibilmente — sono quasi del tutto sicura di essere l’unica a percepire quella piccola sfumatura di gioia senza che, invero, riesca ad emergere all’esterno. «E a Ỳma» aggiungo.
L’ultima informazione la stupisce. Me ne accorgo dal modo in cui i suoi lineamenti reagiscono alla rivelazione, prima che il corpo faccia loro seguito — io non parlo mai di Ỳma. Batte le mani l’una contro l’altra e si raddrizza al di là della nuvola di farina che il gesto ha sollevato all’altezza del suo grembo.
«Qualche giorno fa, chiacchieravamo in Sala Comune e una ragazza ha chiesto agli altri cosa faremmo, se potessimo tornare indietro nel tempo e cambiare qualcosa della nostra vita. Il mio primo pensiero è stato “Tornerei al giorno in cui il drago ha ucciso Ỳma e la porterei lontano per non fargliela prendere”».
C’è della menzogna nelle mie parole, come sempre accade da quando ho imparato i vantaggi della mendacità, contraddicendo ciò che pensavo di sapere di me stessa. Il mio primo pensiero è corso ad Astaroth e al modo in cui l’ho trattata, facendomi immaginare il prosieguo felice della nostra amicizia se solo avessi agito diversamente. Era troppo doloroso da guardare, però, e mi sono costretta a scacciare quelle immagini per impedirmi di piangere. Me ne sono pentita poco alla volta, a mano a mano che mi convincevo a scavare la superficie di un passato su cui non mi piace soffermarmi mai troppo. Il passato è passato, mi sono sempre detta.
«Poi, ho riflettuto che, se lo facessi, non avrei tutto quello che ho adesso. Non saprei di essere una strega. Non avrei Hogwarts. Non avrei Grimilde, Julian, Ania. Non avrei voi. Sarei ancora la ragazzina strana, cresciuta dalla pazza del villaggio, che nessuno vuole» continuo con voce sommessa, mentre ripercorro il sentiero tracciato da quelle riflessioni in concatenazione. La nonna mi sta guardando con attenzione, posso intuirlo, ma la mia mente è di nuovo lontana; ed io con lei. «E mi sono sentita una persona orribile».
Batto le palpebre per coglierne la reazione o, forse, perché troppo disturbata dalla proiezione mnemonica di me, rannicchiata nella foresta e intenta a osservare la creatura che mi avrebbe portato via il poco che avevo. So cosa deve accadere, cos’è che farò e vedrò di lì a breve — è la mia storia, del resto. E sono sicura di non volerla rivivere.
«Non la salverei per egoismo, capisci? Per non tornare ad essere povera, affamata e ignorata da tutti». La risata che mi scappa di bocca cela un fondo di isteria sicché non contagia la nonna, che non può a fare a meno di scrutarmi con serietà. Mi dico che, nonostante tutto, è bello essere ascoltati in modo tanto partecipe. Lei è una delle poche persone che riesca a farlo senza darmi l’impressione che ciò che dico sia scontato e sciocco. «Mi terrorizza così tanto la possibilità di non avere più nessuno al mondo, adesso che ho tutti voi, che la lascerei morire carbonizzata».
A questo punto, la mia voce si incrina e i miei occhi si inumidiscono. Un groviglio di emozioni sale ad annodarmi la gola. È un bene che abbia abbandonato la presa sulla tenda per fronteggiare la nonna, altrimenti temo che avrei potuto sgualcirla o addirittura strapparla. Mentre prendo fiato, mi dico che deve aver capito che la mia confessione a cuore aperto non sia ancora terminata, perché non interviene. In compenso, la vedo serrare le labbra nell’impulso di trattenere le parole. Vorrebbe consolarmi, lo so bene, e la consapevolezza del suo amore mi commuove, ma non riesce a scacciare il gelo che stanzia nel mio petto da un anno.
«Pensandoci meglio però — tiro su col naso e batto le palpebre nella speranza di disfarmi delle lacrime — mi sono resa conto che non è cambiato molto da quando ero piccola. Non sono più povera e non muoio più di fame, ma la gente continua a evitarmi. Sono… sono come quei poveretti che si vedono seduti da soli alle locande: ordinano un tè giusto per non essere scacciati, ma non sono lì per bere o mangiare. Cercano compagnia. Alzano sempre lo sguardo alla ricerca di quello degli altri nella speranza che qualcuno si avvicini, ma quelli lo abbassano perché hanno già chi aspettare. Quindi, se ne stanno lì a occupare un tavolo per due, che ha troppo spazio per una persona sola».
Non mi sono accorta di aver alzato il tono di voce, mentre le parlo del modo in cui mi sento. La candidatura al Barnabus ha portato con sé tantissime conseguenze inattese. Così io, che mi sarei aspettata di essere messa alla prova sotto il profilo accademico, mi sono riscoperta sfidata sotto quello personale. Avere tante persone intorno che pronunciano il mio nome è servito solo a rendere manifesto ciò che non ho più e il meccanismo che mi ha portato a perderlo.
«Per tanto tempo, ho pensato che la colpa fosse degli altri. Perché non sostengono il mio sguardo e non si fermano al tavolo per due chiacchiere? E perché, se lo fanno, arriva sempre il momento in cui vanno via senza portarmi con sé, lasciandomi sola con la mia tazza di tè freddo? Alla fine, ho capito». Deglutisco col cuore che batte all’impazzata. «Il problema sono io. Devo essere io».
È il pensiero più spaventoso che mi sia capitato di partorire, secondo solo al timore che Astaroth sia morta. L’incubo della scorsa notte stenta a ritirare le sue grinfie dal mio spirito e, di tanto in tanto, mi spinge a prendere piuma e calamaio con l’intenzione di scriverle. Mi abbandono a una spirale di riflessioni spaventosamente tristi solo per costringermi a non farlo, distraendo la mia mente turbata con altro turbamento. La cosa che più mi annichilisce è la domanda che proviene dalle profondità più recondite di me, tutte le volte che mi dissuado: non lo faccio perché temo che mi ignori di nuovo o perché temo di sentirmi rispondere che lo sia davvero, morta? Il dubbio mi atrofizza e mi fa mancare il respiro. Da quando ho fatto quel sogno, sono tornati gli attacchi di panico in una forma diversa rispetto a quelli che avevo da bambina, subito dopo il trasferimento a Londra. Adesso, non mi tolgono solo il senno e l’appetito: si portano via tanti piccoli pezzetti di me.
«Se tutti quanti se ne vanno, non può essere una coincidenza» le dico e la mia bocca s’inclina verso il basso, perché il pensiero che segue mi devasta. «C’è qualcosa che non va in me» statuisco, impotente. Come posso aggiustarmi, se io non so farlo e gli altri preferiscono lasciarmi? Una lacrima mi riga lo zigomo e il contatto con la pelle mi ricorda Ermione, poi Astaroth, infine Ỳma. «E io — singhiozzo — non la salverei per salvare me».
Alla fine, com’era prevedibile, mi piego.
Sono costretta a reggermi al mobile della cucina per evitare di rannicchiarmi contro il pavimento — una blanda forma di resistenza contro l’inevitabile. Le braccia della nonna arrivano a stringermi e il suo corpo a sostenermi prima che possa cedere. E io glielo lascio fare. Le consento di raccogliermi e mi aggrappo alla sua figura sacra, eterna e irrinunciabile, piangendo tutte le lacrime che ho trattenuto per il bene degli altri.
Avrei voluto piangere quando ho scoperto di aver superato la seconda prova del torneo, deludendo il mio desiderio di essere eliminata dalla competizione per non patire più gli effetti dell’altalena che spinge il mio umore su e, poi, irrimediabilmente giù. Avrei voluto piangere quando sentivo i compagni sfiorarmi e congratularsi e, invece che gioire del loro sostegno, mi sentivo pietrificare dal terrore che il secondo posto potesse averli delusi. Avrei voluto piangere quando, di ritorno da quella famosa chiacchierata in Sala Comune, mi sono guardata allo specchio del bagno e riscoprirmi smagrita nel profilo pronunciato delle anche mi ha ricordato il passato, e Ỳma, e l’ingratitudine dei miei pensieri verso di lei.
«Non c’è niente che non vada in te, bambina mia» sento la nonna sussurrare, mentre mi accarezza i capelli e la schiena.
La porta della cucina cigola, alzo gli occhi e incrocio lo sguardo allarmato di nonno Gaspare. Strizzo le palpebre per nascondermi: lo facevo anche da piccina, quando i bulletti del villaggio minacciavano di pungolarmi con i bastoni o di colpirmi a suon di sassi.
«E non c’è niente di sbagliato nell’avere paura di rimanere da soli» continua e, per qualche motivo, le sue parole mi sembrano affidabili. Pronunciate da qualsiasi altro essere umano, non sortirebbero alcun effetto su di me; ma, dette da lei, significano tutto. «Non esiste persona sulla faccia della Terra che non abbia paura di rimanere da sola. Per questo, esistono le famiglie e gli amici. Servono proprio a ricordarci che non siamo soli in questo mondo meraviglioso e terribile». Il nonno rimane in disparte e, tuttavia, non abbandona la stanza. «E tu sei splendida, non sbagliata! Ti sono solo accadute delle cose orribili, cose che io non riesco nemmeno a immaginare, e sei sopravvissuta. Merlino, hai tutto il diritto di avere paura che ti capiti ancora!»
La sua comprensione rende più tonanti i miei singhiozzi. È come un unico, infinito attacco d'ansia che non si limita a togliermi il fiato: lo spezza in più punti e gli dà un suono. Nella quiete immota della cucina, riecheggia in modo quasi disturbante a contatto col silenzio.
«Questo non fa di te una persona cattiva. Non sei stata tu a uccidere Ỳma e non hai nemmeno il potere di riportarla in vita. Non sei responsabile di niente, lo capisci?»
Stronfino gli zigomi contro il suo vestito per asciugare le lacrime che mi imperlano le ciglia e trovo conforto nella linearità del suo pensiero. Mi sono attribuita la colpa di qualcosa che non ho commesso e me la trascino dietro da giorni, almeno per quanto riguarda la mia balia. Se solo la nonna sapesse di Astaroth, però…
«E lo hai detto tu stessa che hai noi: io, il nonno, tua madre, Julian, tutti i tuoi amici di scuola. Siamo qui per te! Non ce ne siamo mai andati e non abbiamo intenzione di farlo, puoi giurarci».
La stringo più forte, scacciando le obiezioni con cui vorrei farle presente che molti sono già andati via e che altri potrebbero farlo. Non ha senso in questo momento. Il punto non è mai stato ottenere una rassicurazione permanente, perché so che nessuno potrebbe darmene. Il punto è che non ce n’è mai stato uno, quando ho deciso di fare un salto a casa dopo una rapida commissione in centro.
Sento il profumo del nonno prima ancora che il suo abbraccio rinsaldi il nostro. Mi lascia un bacio sulla fiumana d’argento che porto scompigliata sulle spalle ossute per mascherare il mio dimagrimento. Il tocco dei suoi polpastrelli lungo tutta la spina dorsale mi ricorda i primi anni da bambina adottata: nell’anticamera dello studio dello psicologo, mi teneva sempre seduta sulle sue ginocchia e muoveva ritmicamente le mani dalle scapole in giù e, poi, ancora su per tranquillizzarmi.
“Tu non puoi entrare?” gli chiedevo col mio inglese risicato, torturandomi le mani.
“No, ma tu sta’ tranquilla. Non vuole farti del male. Vuole solo aiutarti a stare meglio!”
“E come?” non potevo fare a meno di domandare tutte le sante volte.
“Non lo so davvero come faccia, ma ci riesce sempre” lo sentivo rispondermi, paziente. Era la prima parte di una frase più lunga, un piccolo patto tenuto nascosto a Grimilde, che si affannava tra lavoro e scartoffie burocratiche. “E quando avrai finito…”
“La cioccolata calda!!!”
Sospiro, svuotata ed esausta. L’abbraccio dei nonni è uno dei pochi che non mi faccia ripensare ad Astaroth. Ha un calore ineguagliabile, che lo rende immune al peso della comparazione.
«Scusatemi» dico loro come ho fatto con Ermione. «È solo che il torneo, gli esami, i compiti: è tutto… troppo».
In parte, solo in parte, è davvero così.
«Lo sappiamo. E tu stai andando alla grande, pulcinella di mare» mi rincuora il nonno e io non posso fare a meno di ridere. Mi chiamava sempre così da bambina. «E sai che altro?» So già cosa sta per propormi. Mi discosto dal corpo della nonna e li guardo entrambi. Dal modo in cui mi osservano, capisco di aver suscitato in loro una preoccupazione equivalente a quella dei primi tempi della nostra conoscenza. Ho il viso smunto, gli occhi grandi arrossati dal pianto e l’espressione triste di chi è tanto, davvero tanto fragile. «Ho proprio voglia di un po’ di cioccolata».
«Non fa troppo caldo?» gli faccio notare, ma anche in questo caso conosco la risposta.
«Non fa mai troppo caldo per la cioccolata di tuo nonno».
E ha ragione lui, come sempre.
Quando, pochi minuti dopo, l’odore di cacao sprigiona dal pentolino sul fornello, qualcosa nel mio stomaco comincia a scalpitare come non faceva da giorni, forse da settimane. Non mi rendo conto di smaniare nell’attesa di gustare la cioccolata, finché non la osservo colare nella tazza e levitare fino al tavolo. Faccio per sedermi, ma il nonno mi trattiene.
«No, no» mi dice e, stavolta, non capisco. Lo osservo prendere posto e battere i palmi sulle cosce in un chiaro invito. «Una tradizione va rispettata come si deve».
Non obietto alcunché e lo assecondo, lievemente imbarazzata. È più complesso del previsto trovare una posizione comoda sulle sue gambe, adesso che ho il doppio degli anni e della mole, ma non impossibile. Gli faccio passare un braccio intorno al collo e, con l’altra, prendo la tazza.
«Soffia prima di bere» mi dice come quando ero uno scricciolo deforme e mi strappa una risata non meno infantile.
Alzo lo sguardo per incrociare quello della nonna, seduta sulla destra, che mi sorride di rimando. Poi, continuo e mi soffermo sul tavolo nella sua interezza. C’è posto per altre persone, almeno altre tre, rifletto. Soprattutto, e stavolta ne sono sicura, c’è posto anche per me.






Edited by ~ Nieve Rigos - 8/7/2019, 14:41
 
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