Sabotage

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~ Nieve Rigos
view post Posted on 15/6/2019, 21:35 by: ~ Nieve Rigos
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entropia.

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Nieve Rigos
16 Anni
Mese di Maggio, III anno.
Segue: Rima di un'altra estate




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Oh, hush! My dear, it’s been a difficult year…

Estrasse la chiave dalla toppa.
Lo stridore del contatto — ferro su ferro — celò il suo sospiro.
Strinse l’oggetto bitorzoluto più forte tra le dita sottili: era freddo — intiepidito a stento dal poco calore corporeo che era riuscita a infondergli — e disarmonico nelle forme. Non condivideva il profilo aggraziato della donna cui era brevemente appartenuto l’ufficio nel quale si trovava, per dirne una. E, pur tuttavia, l’aveva servita al meglio delle sue possibilità, soddisfacendola.
A palpebre chiuse, Nieve serrò le labbra tra loro finché non si risolse a morsicare quello inferiore. Aveva un nodo spesso incastrato sul fondo della gola. I battiti scellerati del suo cuore sembravano incalzare con l’obiettivo di spingerlo in superficie. Deglutì e si schiarì la voce, piano; ne venne fuori un rantolo.
Non avrebbe dovuto essere lì. Non aveva nessuna autorizzazione che le consentisse di stanziare nell’ufficio di Astaroth, come non aveva esimenti che potessero scagionarla dal piano architettato per allontanare Gazza dal bugigattolo che usava come quartier generale della sua mediocre esistenza. Gliel’aveva scossa, quell’esistenza tanto ordinaria, con un messaggio fittizio circa l’avvenuto rapimento della sua gatta e la minaccia di metterne a repentaglio la vita con qualche pasticca di Zonko. Era un bluff chiaramente, vile quanto bastava a spingerlo fuori dallo stanzino senza che avesse cura di sigillarlo. E, per spregevole che si fosse affermato, aveva funzionato. Il mantello della disillusione l’aveva aiutata a compiere il resto, consentendole di sgraffignare il solo oggetto dell’intero arsenale di sequestri che avesse una valenza per lei.
Avrebbe fatto i conti con la propria crudeltà in seguito, davanti all’immagine del Cristo crocifisso.

... Trust me, darling!
Trust me, darling!

La consistenza dura del metallo, premendo sulle falangi ossute, acuì brevemente il tremore che le scuoteva il corpo e glielo rese intollerabile.
Immersa nella quiete irreale di ciò che rimaneva dello studio di Astaroth, con l’odore pungente della polvere a pizzicarne le narici, Nieve schiuse la bocca — quattro solchi profondi segnavano il punto in cui i denti avevano inciso la pelle — e inspirò. Alzò il braccio per coprirsi il volto quando il tentativo di trovare conforto nell’aria le diede la certezza di aver perduto anche quella battaglia.
Il cuore aveva avuto la meglio, infine: il nodo si era arrampicato lungo le pareti della sua gola e si era sciolto fino a diventare un singhiozzo.
Una schiera di lacrime ne seguì la scia, come soldati in marcia verso il campo di battaglia che non sappiano resistere al fischio della tromba, o al rullo dei tamburi; all’odore acre del sangue da versare.
Nieve si lasciò scivolare lungo la superficie della porta e si accasciò sul pavimento, incapace di aprire gli occhi. Dei timori che le opprimevano anima e corpo, si combattevano sul medesimo fronte il terrore di trovare lo studio esattamente come l’aveva lasciato l’ultima volta che vi era stata e la prospettiva che quello stesso ambiente vivesse oramai soltanto nei suoi ricordi.
Raccolse le gambe al petto, chinò il capo e poggiò la fronte sulle ginocchia. Gli incisivi tornarono a insistere sui solchi che avevano creato, aggrappandosi alla carne mentre lo spirito si disfaceva.
Il freddo desolato della stanza le sfiorò le cosce oltre l’orlo della gonna spiegazzata.

It's been a loveless year...

D'un tratto schiuse le palpebre, mossa dall’irrazionale desiderio di mettere fine al pianto, ma lo stratagemma la deluse.
La stanza le presentò il solo conto che non si fosse aspettata di pagare, mostrandosi sotto sembianze che non aveva paventato.
Fino a quel momento, l’aveva angosciata la prospettiva di trovare tutto e l’aveva angosciata la prospettiva di non trovare nulla, lì dove si era concessa il lusso della felicità che le era stata negata da piccina. La trovò, invece, la combinazione dell’una e dell’altra: lo studio conservava pochissimi pezzi di mobilio, i soli che Astaroth avesse deciso di lasciarsi alle spalle al momento delle dimissioni o più probabilmente, si disse, i soli forniti dalla scuola che fosse riuscita a combinare col suo gusto.
Bastarono comunque a ricordargliela.
Nieve congiunse le mani davanti la bocca, deformata dalla forza di gravità. Il vuoto della stanza la osservò strizzare gli occhi e contrarsi tutta nello sforzo di trattenere un’altra terribile ondata di pianto. Da dove veniva tutto quel dolore e perché non riusciva a confinarlo?, si domandò nell’atto disperato di cercare una soluzione che le restituisse un po’ di pace. Allora, scaraventò la chiave lontano e ripescò dallo stipo delle esperienze più recenti la sensazione provata in compagnia di Ermione.
La odiava, adesso, Ermione.
Era stato il loro incontro a indurla a infiltrarsi nell'ufficio, affamando il frammento di sé che aveva ignorato per mesi. Improvvisamente, l’aveva divorata il bisogno di sentirsi vicina ad Astaroth come se il tempo e la vita non fossero mai scorsi contro di loro; come se le vicende non avessero drammaticamente plasmato due esistenze così opposte, spingendole dapprima vicine e infine lontane.
Il tifo di chi credeva in lei, gli abbracci dei Grifondoro e i festeggiamenti in Sala Comune — Casey aveva quasi raso al suolo il salottino che condividevano tutti, letteralmente —, il regalo di nonno Gaspare, i brindisi di Grimilde e Julian, i baci di nonna Lucrezia: nulla era riuscito a impedire che quell’unica esigenza prendesse possesso del suo animo e annullasse tutto il resto.
Astaroth era sempre stata la prima con la quale avesse desiderato condividere i suoi successi, i suoi pensieri, le sue emozioni.
Ma non c’era più, non per lei almeno.

... Trust me, darling!
Trust me, darling!

Poggiò il capo contro le assi alle sue spalle.
Due lacrime discesero lungo le tempie bagnate e s’insinuarono tra i capelli.
Fissò l'attenzione sul soffitto. Tre enormi fasci di luce argentea attraversavano la stanza, abbattendosi sulla parete dirimpetto — realizzò di essere nella traiettoria del primo fin quasi a percepirne il tocco. Aveva trascorso in quello spazio più notti di quante fosse dato contarne. Se chiudeva gli occhi, era perfino in grado di sentire il suono della sua risata mescersi a quella di Astaroth; il sapore acidulo del vino elfico o quello più forte della grappa stordirle la lingua; il suono di un disco in un idioma a lei sconosciuto farle ondeggiare il capo abbastanza da facilitare l’obnubilamento dato dall’alcol; la sensazione di pace data dal condividere il tempo con l’altra, dall’averla semplicemente nella propria vita.
Facendo scorrere l’attenzione lungo l’ufficio, ne ricostruì mentalmente le linee. Partì dalle poltrone in velluto sulle quali era collassata in preda all’ebbrezza; proseguì con il pianoforte a coda e la piccola serra personale della quale Astaroth si era presa cura come si era presa cura di lei; aggiunse il grammofono e l’angolo bar, infine il parquet. Solo quando levò lo sguardo sul soffitto, aggiunse il dettaglio della riproduzione che aveva accompagnato le sue riflessioni a naso all’insù — di tanto in tanto, la Morgenstern si era presa la briga di spiegarle la peculiarità di un’illustrazione nella speranza di suscitare la sua passione per l’arte, invano.
Aveva rovinato tutto.
Si domandò se quell’accusa fosse rivolta alla donna che le aveva fatto da mentore e alla quale aveva imputato un tradimento imperdonabile, perpetrato per le attenzioni e l’amicizia di un uomo che odiava; ovvero se l’avesse appena indirizzata a sé stessa.
Si alzò lentamente nel timore di frangersi, il mantello della disillusione derelitto sul pavimento. Gli equilibri su cui si reggeva il suo sregolato universo le imponevano di avere cura di sé nel modo migliore che conoscesse.
Raggiunse la scala a chioccola, che conduceva al piano superiore dell’ufficio soppalcato, e sedette sul terzultimo gradino.

I wage my war on the world inside
I take my gun to the enemy's side
Oh, I’ve been asking for
Oh, I’ve been asking for problems, problems, problems…

«Ho vinto,» sussurrò, la voce arrochita dal pianto. Non era cambiato poi molto dall’ultima volta che le aveva parlato in quello stesso luogo. «La prima prova almeno,» precisò, mossa a modestia dalla parzialità del risultato che la collocava in vetta alla classifica. «E non so come io abbia fatto!» Sorrise tristemente, provocandosi un’ennesima ondata di commozione, nell'immaginare Astaroth rivolgerle quell’espressione a metà tra il rimprovero e l’esasperazione che le dominava il viso tutte le volte che osava sottovalutarsi in sua presenza. «E…» Abbassò il capo e giunse le mani. Tornò a guardare lo studio vacante e la cercò con la stessa pertinacia che usava nel non credere nelle proprie abilità — il tonfo di una lacrima assorbita dal cotone chiaro della camicia. «Non me ne importa un cazzo,» bisbigliò, interrotta sul finire da un singhiozzo. Accostò le labbra tra loro, trattenendo il respiro per serrare più forte l’ennesimo nodo che la voleva in pezzi. Fallì ancora. «E non me ne importa un cazzo per colpa tua,» proruppe, le parole storpiate dall'affanno come le spalle erano scosse dai tremori. «Perché mi rovini tutto quello che faccio e non riesco a pensare ad altro. E vorrei prenderti a pugni perché mi fai stare malissimo.» Ed era così maledettamente vero! «Ti sei presa tutto e, poi, sei andata via. Dovevi rimanere. Dovevi stare dalla mia parte. Dovevi essere tra quei cazzo di giudici e strizzarmi l’occhio quando nessuno poteva vederci.» Si asciugò le guance col dorso della mano destra nel dar voce alle immagini del Barnabus che aveva elaborato in solitaria e che non aveva avuto il coraggio di confessare ad anima viva, perché non conosceva nessuno che potesse comprenderla. Poi, allentò il cappio della cravatta e se la sfilò da sopra la testa, incapace di respirare regolarmente. «E sono anche una bugiarda di merda perché non è vero che ti odio.»

L’ammissione, più di tutto il resto, le tolse le poche difese che le erano rimaste. Aveva trattenuto quelle parole così a lungo da accrescerne la mole e renderne ricurve le estremità — le solcarono il petto, la gola, la bocca e l’anima come farebbe un aratro con la terra, segnandola.

So look me in the eyes
Tell me what you see
Perfect paradise
Tearing at the seams
I wish I could escape it
I don’t want to fake it
I wish I could erase it
Make your heart believe

«Ora, sei tu a odiarmi, vero?» Pose la domanda con l’atteggiamento infantile della bambina di sei anni che aveva cercato l’accettazione dei coetanei di Borgarbyggð. Un’altra lacrima zigzagò sulla pelle liscia del suo viso, giù fino al mento. «Mi odi.» Si concesse una risata spezzata. «E, Dio, come ti invidio! Sono io quella che è stata fottuta e non ci riesco. Ci ho provato. Li odio tutti, tutti: quell’imbecille a cui mi hai venduta, la battona sua complice, Aiden, quella stupida di Amber, i giudici del Barnabus e i fanatici che “Forza, Rigos, li batti tutti”. Odio pure quelli che mi vogliono dare una mano perché non capiscono niente. E Thalia! Odio pure lei e la sua costante preoccupazione. E l’Esercito e le reclute del cazzo. Odio tutto e tutti, ma non riesco a odiare te.» L’ingenerosità di una parte delle sue accuse le fece perdere un paio di battiti, ma non esistevano appigli che potessero salvarla da quella versione di sé. «Dio, Roth, aiutami a odiarti. Se non posso dimenticarti, aiutami a odiarti, ti supplico,» sussurrò in preghiera.

But I’m a bad liar
Bad liar
Now you know
Now you know
I’m a bad liar
Bad liar
Now you know
You’re free to go...

Una fitta all’altezza della fronte la costrinse a tacere.
L’immagine di un trafiletto di giornale, stretto tra le sue dita, si materializzò a favor di ricordo. Non riusciva a visualizzarne il contenuto; non avrebbe neppure saputo collocare temporalmente la vicenda. Erano mesi che la sua mente continuava ad agire in maniera inspiegabile, facendo cilecca a momenti alterni. L’infermiera l'aveva imputato allo stress e le aveva suggerito di rallentare il ritmo, riducendo gli impegni. Per un attimo, in controtendenza rispetto al disinteresse che aveva comunicato ad Astaroth in quella stessa stanza, la colse il timore di fallire la seconda prova del torneo per un improvviso vuoto di memoria.
Sospirò, esausta.
Viveva su una giostra di emozioni che le rendeva impossibile reggere il passo. Se osava alzare lo sguardo per puntarlo oltre il perimetro del carosello, la velocità — che confondeva le sagome tra loro, mescolandole — le dava il voltastomaco. Se pensava di staccare le mani dal cavallino sul quale si era ritrovata a prender posto, finiva per rendersi conto di come le mancasse il coraggio — il coraggio di lasciare andare Astaroth.
Si alzò.
A capo chino, si mosse per recuperare cravatta e chiave. Infine, si avvolse attorno al tessuto magico del mantello. Aveva gli occhi arrossati, l’argento dei capelli spento, l’espressione desolatamente nostalgica.

«Mi mancherai per sempre,» soffiò, solenne, l'ultima delle sue verità.
Dunque, levò l'estremità alta della cappa e si rese invisibile — come lo era il suo dolore.

Due giri di chiave nella serratura dell’ufficio vacante.
Uno nella serratura del suo cuore.

Please believe me,
Please believe me...





Edited by ~ Nieve Rigos - 18/6/2019, 00:30
 
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