Sabotage

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~ Nieve Rigos
view post Posted on 25/5/2019, 19:24 by: ~ Nieve Rigos
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entropia.

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Nieve Rigos
Campione Grifondoro
Prima ProvaTrasfigurazione
16 Anni
Mese di Maggio, III anno.
Segue: La conta dei campioni




Piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.



Silenzio.
Nella radura in cui sono stata condotta, regna incontrastato il silenzio.
Domina l’ambiente in un gioco di esasperanti contraddizioni e lo cheta, perentoriamente. Da una foresta, chiunque si aspetterebbe un tripudio di suoni, rumori, versi e crepitii. Nel luogo in cui mi trovo, ebbene, non ce n’è alcuno.
Abbasso il capo, osservo la punta delle scarpette che ho indossato per l'occasione e deglutisco, a disagio. C'è qualcosa di disturbante nella situazione che mi vede immobile, qui, da sola. Forse, mi dico, dipende dal fatto che non sappia esattamente cosa fare; cosa ci si aspetti che faccia. Non ho ricevuto nessuna indicazione, nessuna specifica. E non sono neppure stupita più di tanto, in verità: se c’è di mezzo Peverell, è pressoché automatico finire in circostanze sospette e d’impossibile decifrazione. È solo che mi sento fuori luogo... un po' come il silenzio.
Do una scrollata di spalle e stringo la presa attorno alla bacchetta. Rimescolare il calderone delle mie tribolazioni non mi aiuterà a far chiarezza. Ed è un bene che io sia sostanzialmente una persona flessibile, perché tanto basta a ridarmi un tono. Sento ancora un’inutile, insensata pressione dare il tormento al mio povero diaframma, ma sono già passata oltre; alla fase in cui l’azione mi alletta più della stasi.
Nel farlo, mi rendo conto di come la quiete ostinata che permea la boscaglia non sia l’unico elemento di disturbo. Il paesaggio che scorre davanti ai miei occhi è spiacevolmente innaturale. Gli alberi sono radi; hanno fusti rachitici — come di arbusti rinsecchiti da un’estate torrida — e fronde poco floride. La fauna è pressoché assente e non c’è traccia né di foglie, né di aghi di pino, né di fiori sul terreno. Sono in una foresta che non ha le sembianze di una foresta.
Muovo un passo. L’erba si piega normalmente sotto la suola delle scarpe e la cosa mi conforta. Mi conforta perché, in quest'assenza di naturalezza, mi ha assalita per un istante il dubbio che tutto potesse essere illusorio; che la mia mente fosse in preda a un’allucinazione, o che potesse essere stata traviata… Certo, questo implicherebbe considerare che i docenti mi abbiano drogata chissà come, chissà quando; ed è vero che i tè di Peverell siano rinomati in tutto il castello e che l’insistenza della sua zuccheriera non me l’abbia mai contata giusta. Ma, anche se fosse, anche se avessi ragione e la mia immaginazione non stesse galoppando verso un orizzonte favolistico, adesso non importerebbe. Devo andare avanti!
Faccio un cenno di assenso col capo per incoraggiarmi a mantenere alta la concentrazione, mentre gli steli chiari si fanno arrendevoli sotto il mio peso — almeno questo ha un senso.
È pochi secondi dopo che tutto cambia. Ho la gamba destra avanti rispetto alla sinistra, gli occhi sbarrati, la bocca dischiusa e il fiato sospeso tra gola e polmoni. Sto fissando una ragazza spuntata fuori dal nulla. A guardarla, non sono del tutto sicura che sia umana. In ogni caso, stringo più forte la bacchetta e ricambio l’occhiata indecifrabile.
«Ciao…» proferisco e la mia voce tradisce una certa titubanza. «Sono qui per il Barnabus. Sai mica cosa devo fare?»
L'innocenza con cui pronuncio la richiesta la dice lunga sul mio conto. Non sono il genere di persona che teme follemente di sbagliare, mossa dall’esigenza di mostrarsi sempre pronta. Non sono nemmeno il tipo di studentessa che non chiede aiuto per non sentirsi sminuita: il saggio sul Midnight per la McLinder, compilato da Thalia per sua gentilissima concessione, ne è un esempio. E lo è anche il modo in cui mi sono immediatamente affidata a chi ho di fronte, pur nella totale estraneità che ci lega. Nella mia ottica è sciocco respingere un aiuto potenzialmente valido, se basta allungare la mano per ottenerlo.
Studiando il colorito cinereo della sconosciuta, mi dico che qualcosa non vada in lei. Ha un'aria sconsolata e un piccolo broncio sulle labbra carnose. Per qualche ragione, mi ricorda l'ex Caposcuola Rose.
Faccio per parlare, esitante.
«Stai… bene?» domando, infine, e azzardo un passo verso di lei. La giovane fa oscillare il capo e i capelli rossi — di un rame ingrigito da Dio solo sa quale diavoleria! — ondeggiano al ritmo del suo diniego. Mi sento improvvisamente così partecipe che avanzo ancora e, contro ogni rimostranza pregressa, aggiungo: «Posso fare qualcosa per te? Mi sembri sconvolta.»
La ragazza muove le braccia tutto intorno per indicare la radura e finalmente, a fatica, parla.
«La foresta…» La sua voce è debolissima, un sussurro che riesco a cogliere solo accelerando il passo e tendendo l'orecchio. Se c’è una cosa che percepisco distintamente, tuttavia, è la violenza che si accompagna a questo sforzo di comunicazione: la addolora. «Non era così. È orribile!»
Non posso fare a meno di squadrarla, interdetta. E batto le palpebre nell'attesa che mi spieghi meglio, ma la sconosciuta tiene lo sguardo basso e la sua espressione non accenna a cambiare. Mi costringo a gettare un'occhiata al paesaggio intorno perché è evidente che non abbia intenzione di aggiungere alcunché; non nel breve periodo, almeno.
«Hai ragione. È piuttosto orribile,» confermo con gli occhi fissi su un ramo alto. Mi rendo conto che le nostre voci risultino fastidiose, quasi corrosive. Ciononostante, sbotto: «Ma è normale tutto questo silenzio?» Il singhiozzo che segue riesce a distrarmi dalle congetture sull’artificiosa quiete del luogo. Ritrovo la sconosciuta in lacrime. «Oh, nonononono! Non piangere! Non volevo... Non è proprio brutta. È un po'... un po’...» Fa schifo e tanto varrebbe bruciarla, sentenzio interiormente, ma è il caso che lo tenga per me se non voglio rischiare che la straniera abbia un crollo nervoso. Cioè, che ne abbia un altro o che quello in corso peggiori. Mi tornano in mente le parole che ha pronunciato pochi secondi fa. «Hai detto che non è sempre stata così…» le faccio notare per distrarla.
La vedo confermare la mia osservazione con un ennesimo cenno di diniego. Desidero disperatamente attirarne l’attenzione per poterle sorridere. Per esserle di conforto. Per scusarmi, in un certo senso.
«Era viva.»
«E cos'è successo?»
La sconosciuta fa spallucce e la tristezza sembra reimpossessarsi di lei, schiacciandone l’intera figura. Andiamo bene! Non ho ancora capito in cosa consista la prova e sto qui a lambiccarmi il cervello con la versione silvestre di Mirtilla Malcontenta. Eppure proprio non ho cuore di far finta che i nostri cammini non si siano mai intersecati.
Un borbottio sommesso dall’alto annuncia l’approssimarsi di un temporale.
«Credo di poter fare qualcosa,» le dico dopo un po’. Mi rimbocco le maniche, letteralmente, e ispeziono un’altra volta la foresta. Magari, mi consolo, una buona azione potrebbe tornarmi utile al momento di affrontare la sfida del torneo. Del resto, nessuno ha mai parlato di scadenze prima di scarrozzarmi qui… «Conosco qualche incantesimo che può migliorare la situazione. Niente di straordinario, eh. Ma sempre meglio di questo… senza offesa
Le mie parole, perfino quelle dal tenore meno opportuno, non sembrano sortire alcun effetto su di lei. È come se la giovane donna, metà spettro metà umana, non lo credesse plausibile. O forse, più semplicemente, potrebbe non avermi sentita. Mi chino in prossimità di un cumulo di sassolini, agito fluidamente il polso che muove la bacchetta e tengo a mente i colori sgargianti di un’aurora boreale.
«Papiliofors!»
Lo sciame di farfalle che sprigiona verso il cielo mi strappa un sorriso bambinesco e arriccio il naso quando una decide di appollaiarsi sulla punta — per poco non mi s’incrociano gli occhi nel tentativo di studiare la trama delle ali larghe da così vicino. E non è che la delicatezza di un momento. Poco dopo, la sagoma della sconosciuta invade le mia visione periferica e rimango di stucco. Le farfalle sembrano trovarla irresistibile: stanno su di lei come gioielli su una corona, la impreziosiscono. E io che mi vantavo intimamente della predilezione di quell’unico esemplare!
«Ne conosco altri,» le comunico nella speranza che il sorriso insorto sulle sue labbra duri abbastanza a lungo da risparmiarmi la sfumatura cupa che me l’ha fatta conoscere. Qualcosa, nello sguardo desolato di lei, mi ricorda l’arcana malinconia negli occhi di Astaroth. «Ti farebbe piacere se ne eseguissi un paio?»
Annuisce con entusiasmo e posso ritenermi soddisfatta. Ora, devo solo sperare che gli insegnamenti di Barrow abbiano resistito nel tempo e che Channing non mi abbia distratta troppo con la sua indecente bellezza.
Di lì a qualche minuto, sono già a lavoro. Evoco uno stormo di uccelli con l’Avis; muto gruppi di pietre con il Folium per arricchire il fogliame scarso della vegetazione; gioco a trasformare alcune ranocchie obese in cigni con l’Olorifors; soprattutto, rimpolpo le file degli alberi con una serie infinita di Pianta Edolèsco e piazzo qualche altro Papiliofors strategico. Nel processo, poco alla volta, non mi avvedo di aver perduto la cognizione del tempo, dello spazio, delle ragioni che giustificano la mia presenza qui, di me stessa. Continuo e ripeto gli incantesimi in successione come se si trattasse di un rituale del quale ho piena padronanza per essermi esercitata a lungo.
Un gruppo di colibrì si dilegua nel cielo lontano.
Rimango a osservarlo finché non scompare.
E riparto.

f8HpV7q
{Instrumental}


Nel tempo che abbiamo trascorso insieme, ho scoperto che la sconosciuta ha un nome — Ermione — e che non ama perdersi in chiacchiere. A dirla tutta, col passare dei minuti, l’impressione degli inizi ha trovato conferma: esprimersi a voce alta sembra cagionarle una sofferenza, sottile ma intensissima, che ne trasforma i lineamenti. Per questo, dopo un po’, mi sono risolta a tacere e a focalizzarmi sui miei compiti di giardiniera.
Le mie braccia non hanno smesso un istante di muoversi, e la mia mente di lavorare, e le mie labbra di enunciare formule. Sono instancabile, testardamente persuasa di poter fare l’impossibile, consacrata a una causa che non mi appartiene e per la quale mi sto struggendo. Perché? La domanda mi ossessiona e la risposta mi elude. Quando sono sul punto di afferrarla, eccola che scappa.
Sospiro.
Sono esausta. Non credo di aver mai eseguito tante magie tutte insieme. Anzi, ne sono sicura. Mi sfioro il viso come per darmi conforto e sento lo spossamento planarmi addosso. Eppure, ora che gli effetti del mio intervento hanno acquistato una certa consistenza, la foresta mi appare così bella che la stanchezza non basta a fiaccarmi. Sono appagata.
«Ti fa male, non è vero?»
La voce di Ermione mi coglie di sorpresa e mi induce a manipolare l’astrattezza della sua frase per coglierne il significato concreto. Sta indicando il mio petto nel punto in cui ho deposto la mano armata in un attimo di riposo. Scorgo subito le cicatrici. Per questo, rido e scuoto il capo.
«No, affatto. Una volta che la pelle cicatrizza, non senti più niente,» le spiego, paziente, senza neppure chiedermi come faccia a non saperlo. Glielo spiego e basta. Mi pare di udire un frinire di cicale in lontananza, mentre mi appresto a rassicurarla: «È solo un segno.»
È il turno di Ermione di scuotere il capo, stavolta. Si avvicina a me, mi scosta delicatamente la mano dalle clavicole — trattenendola comunque nella sua — e accarezza il mio sterno piano piano.
«Qui,» dice e tamburella sul costato, là dove risiede il cuore. «Ti fa male qui.»
La nota interrogativa nella sua voce ha ceduto il passo alla fermezza di una constatazione, realizzo e seguito a osservarla come incantata. Nei suoi occhi verdi, trovo una sicurezza che mi spoglia. Le mie labbra si separano perché io possa abbozzare una risposta, ma mi rendo presto conto di non poterle mentire. Forse, di non volere.
Una goccia piove giù dal cielo e mi bagna lo zigomo.
E io continuo a tacere.
È così strano essere vista dopo tanto tempo.
Mentre guardo Ermione e mi lascio andare a un sospiro grave, mi sento crollare. Il peso di ciò che provo e il sollievo di non essere più invisibile si combattono e mi prevaricano. Allora scoppio in lacrime. Tento di coprirmi il viso con le mani in un gesto di naturale ritrosia, ma Ermione mi trattiene. D’improvviso, la delicatezza diventa imposizione. Le lancio uno sguardo pietoso, supplicandola di concedermi questa piccola fuga consolatoria, ma non ottengo alcun risultato.
La pioggia, intanto, si è infittita. Ha formato un velo di umidità liquida, che ci fa tremare le ciglia. L’acqua non nasconde, né cancella il mio pianto. Lo rispetta e lascia che si prenda il suo spazio. Si fanno compagnia. Ci facciamo compagnia.
«Qui,» la sento ripetere.
Picchietta sul tessuto del pullover nero ancora, ancora, ancora. E finalmente, per la prima volta da quando il tradimento di Astaroth mi ha ridotta a brandelli, lo ammetto.
«Sì,» singhiozzo e il mio tono suona esasperato, arrabbiato, sconvolto, oltraggiato, colpevole, stanco — tutto insieme.
Ermione non mi attira a sé, ma le sue dita sono intrecciate alle mie in una presa salda, che non ammette dissoluzione. Si limita a guardarmi, mentre il confronto col dolore mi piega.
Tace.

Vorrei spiegarle cos’è che provo. Vorrei dirle che mi sento come se avessi un faro costantemente puntato addosso. Non mi è concesso di muovere nemmeno un passo senza essere scovata da quell’unico, prepotente fascio di luce, che mi fa sentire esposta. Sono le mie emozioni a perseguitarmi.
E, siccome non posso fuggire loro, me le trascino dietro e le travesto perché gli altri non riescano a vederle in purezza. Divento volutamente stravagante, estroversa, pimpante e faccio della brillantezza il mio scudo. Mi armo della migliore invincibilità per nascondere le mie debolezze. Rido per distrarre l’attenzione dal mio sguardo stanco. Corro dietro mille impegni e lascio che mi assorbano per trovare un attimo di ristoro nell’annullamento più assoluto. Mi sento così tanto tutto il tempo che, quando riesco finalmente a non sentirmi, è estasi. Fluttuo in uno spazio in cui sono del tutto incorporea e dove le voci del mio tribunale interiore non possono funestarmi.
Sparisco per un po’, mi isolo.
Succede d’un tratto, però, che il riflesso nello specchio — quello statico, non il bastardo dinamico del Ballo delle Ceneri — mi rimandi indietro un’immagine meno lusinghiera del previsto. Avrei pensato che una pausa in assoluta solitudine potesse giovarmi. Invece, noto che il mio viso è spento, e i miei occhi tristi, e la piega naturale delle mie labbra muove all’ingiù. Allora, mi do un pizzico — a volte più forte di altre — per risvegliarmi.
Se non ti muovi a mascherare di nuovo e bene, se ne accorgeranno, Nieve. Si accorgeranno che sto male, sussurra la voce dentro di me alla quale ho imparato a dare sempre, devotamente retta. E vorranno sapere il perché, e dovrò dirgli di Astaroth, e mi sentirò morire come se non avessi mai smesso di rivivere quell’ultimo giorno di scuola dopo il ballo al campo di quidditch.
E allora? Lascia che guardino, non m’importa, risponde una me appena più coraggiosa, sfrontata, perennemente insubordinata. Conserva ancora il furore battagliero che mi contraddistingue e di cui mi scordo spessissimo da un anno a questa parte. Cosa-diavolo-vuoi-che-succeda? ribatte furiosa e, Dio, penso proprio che abbia ragione.
Succede che vedranno quanto sei deforme e ne rimarranno così raccapricciati da darsela a gambe senza prendersi la briga di avvisare. Spariranno! Qui, la voce tocca una delle paure più grandi che affliggano il mio piccolo cuore storpio. Abbasso lo sguardo sul petto, mi scruto e… finisco per soccombere di nuovo. È la parte che ha conosciuto più da vicino le pene dell’abbandono, il pungiglione della solitudine, lo schiaffo del rifiuto e non ha la benché minima intenzione di rinnovare le presentazioni.
Così, una volta che mi ha persuasa, torno a indossare la maschera dei giorni ridenti, la più brillante che ho, per recuperare il fatto di essermi immusonita per giorni. Devo splendere, divertirmi, essere sagace il doppio per depistarli tutti — è comprovato e so già di riuscire. Mi do sempre un ultimo pizzico per sicurezza in questi casi, perché non si sa mai.
Tutte le volte che l’iter si ripete, verrebbe da chiedersi come mai sia così semplice incaponirsi sui difetti, allacciarsi stretti stretti alla paura di non essere abbastanza e convincersi che nessuno potrà mai amarci. Ma io non ho che sedici anni e, per me, il mondo finisce esattamente là dove inizio io; e la mia vita è iniziata con un abbandono. Perché dovrebbe finire diversamente?
Eppure… Ermione è ancora qui. Anche se sono deforme, anche se sono orripilante, anche se sono debole, e sbagliata, e piccola, e stupida, e solo Nieve. Ermione è rimasta.

Quando torno a guardarla, le sto chiedendo perdono in silenzio per lo sfogo. Tento di rimboccarmi le maniche, ma ho le spalle ancora scosse dai sussulti. Lei mi accarezza delicatamente un braccio per incoraggiarmi, quasi che conosca il mio bisogno di sentirla, adesso più di prima. Come ho già fatto decine e decine di altre volte, dunque, punto al terreno ora umido. Visualizzo l’immagine di una tamerice e lascio che prenda possesso della mia mente. Prima che crescere nella foresta di Ermione, mi dico, è qui che devono attecchire le sue radici.
«Pianta Edolèsco,» comando e la magia mi asseconda.
Le fronde del suo albero — del nostro albero — sono rigogliose e accolgono la pioggia senza averne timore. Mi aspetterei che una pianta, come un neonato al primo vagito, emetta un qualsiasi suono che ne annunci la nascita. Ma il mondo silvestre ha delle regole sue proprie e mi convinco che sono io a non saper ascoltare, a non conoscere.
L’espressione sul volto di Ermione irradia gioia. Non mi accorgo nemmeno di aver sorriso di rimando, mentre i miei occhi ne scorrono la figura in preda all’incanto. È cambiata. Nel tempo che ho impiegato a rimpolpare la pineta, la sfumatura cinerina che me l’aveva fatta percepire come frangibile si è progressivamente dissolta. Lo ravviso nei colori che la dominano e che la rendono intrepida: adesso, i capelli splendono di un acceso color rame che rimanda all’autunno nel suo massimo fulgore; gli occhi hanno perso l’acquosità delle pozzanghere e si sono tinti del miglior verde di primavera; la pelle è rosea come un’alba invernale e le labbra ricordano una fucsia d’estate.
Allungo la mano e rimuovo una foglia, rimasta impigliata tra le ciocche ramate.
«Sembra che tu ti sia rotolata a terra. Ne hai a decine tra i capelli,» le dico e mi lecco via la pioggia dalle labbra, assaporandone la dolcezza evanescente.
Ma a Ermione sembra non importare. Continua a sorridermi e ho la sensazione che da un momento all’altro il suo cuore, il suo volto e tutto il suo corpo possano esplodere di gratitudine. Abbasso brevemente lo sguardo, imbarazzata. È lei a sollevarmi il mento. Conduce la mia mano alle sue guance perché io l’accarezzi. La scruto in silenzio senza intendere cosa voglia. Ed Ermione ripete il movimento, imperterrita: guida il mio indice in un tracciato che va dalla palpebra inferiore alla mascella — una linea incostante, tremula sul suo viso bellissimo. Allora capisco. Vuole dirmi che, sotto la pioggia battente, è come se stesse piangendo anche lei; che non ho motivo di vergognarmi; che è ancora qui dopo aver scoperto la mia imperfezione.
Il cinguettio vivace degli uccelli mi strappa un sorriso. Ermione guarda affascinata lo stormo sorvolare le nostre teste e ride.
È a questo punto che mi getta le braccia al collo e m’impone un movimento vorticoso. Cominciamo a girare in tondo, prima sul posto e poi per l’intera radura. La mia testa sfiora il ramo basso di un ginepro, la scarpa scivola appena sul terreno ricoperto di foglie e acqua — ho le vertigini. E rido anch’io. Non so quando e perché sia accaduto, ma sto ridendo. E stringo Ermione così forte che ho quasi il timore di farle male. Non voglio lasciarla andare, né voglio che sia lei a lasciarmi. Voglio che resti. Più di tutto, però, voglio rimanere io.
Mi chiedo, mentre giro e giro e giro, se io sia cambiata insieme a Ermione; insieme alla foresta. Mi chiedo se, illudendomi di averle modellate sotto il tocco delle mie mani inesperte e delle mie migliori intenzioni, non siano state entrambe loro a cambiare me — io che cambio sempre.
E non rammento nulla del Barnabus, della competizione e delle aspettative che mi hanno tolto l’appetito per settimane. Mi scordo della promessa che ho rivolto a me stessa, della necessità di mettermi in gioco, del desiderio di rendere fieri i Grifondoro. Non c’è spazio neppure per la prova che dovrei affrontare.
Non esiste nulla al di là della stretta che avvolge il mio corpo e dell’abbraccio con cui cingo Ermione. Del profumo di ginestre che emana dai suoi capelli e dell’odore di pesca che sprigiona dalla sua pelle. Delle nostre ginocchia che si sfiorano. Dell’acqua che mi bagna il viso e consola le mie lacrime. Della risata che piango mentre giro, e mi perdo, e mi ritrovo.
Cado a terra, sfinita, e sto ancora ridendo; o piangendo; sicuramente ansimando. Il pavimento è morbido, come se fossi atterrata su un tappeto di muschi e licheni intessuto apposta per me. Dev’essere opera di Ermione, mi convinco senza alcuna ragione apparente, e apro gli occhi per cercarla. In qualche modo, in tutto quel vorticare, ho allentato la presa su di lei e l’ho smarrita.
Mi metto a sedere, reggendo la testa con una mano. I capogiri mi impediscono di distinguere le sagome, ma sono sicura di poterla trovare. La sento, distintamente.
«Ermione?» chiamo. Ho il respiro affannoso per lo sforzo, i vestiti zuppi d’acqua, gli occhi arrossati e la bacchetta stretta tra le dita. «Erm…» faccio per dire — la mia voce si spegne.
Rammento che, in questa foresta, esprimersi è superfluo. Le parole diventano pesanti e feriscono il paesaggio come ferivano Ermione, che preferiva tacere. E d’un tratto il silenzio ha smesso di apparirmi fuori posto. Quasi lo invoco. Se la pioggia smettesse di battere, gli uccelli di cantare, le cicale di frinire e il vento di fischiare, sarebbe più facile individuare Ermione.
Mi domando dove sia andata. Dev’essere nei dintorni, ne sono certa. Riesco a percepirne la presenza nel moto diversamente taciturno della pineta.
Adesso, non mi sfiora neppure il pensiero di aver immaginato tutto, di essermi illusa o, peggio, di avere illuso lei. Sento ancora il suo profumo, il tepore consolatorio della sua essenza.
E la ritrovo così, improvvisamente, inspiegabilmente — Ermione. Nei colori del sottobosco rivedo il candore della veste con cui l’ho conosciuta, il marrone aranciato della chioma folta, la delicatezza della pelle nuda. Come abbia potuto dissolversi in un attimo non riesco a capirlo e, per qualche ragione, non mi spaventa neppure.
Non perché io abbia ricordato il Barnabus. Non perché l’esperienza con la Scuola di Atene mi abbia insegnato che devo aspettarmi di tutto da questo genere di avventure fuori porta — come se sapessi dove mi trovo o cosa sto facendo, d’altra parte. Non è neppure perché io sia una persona religiosa e questo mi spinga a credere nel sovrannaturale in modi che sfuggono ai dettami della magia e del raziocinio. È che mi sembra… giusto, semplicemente.
Ermione è sempre stata la foresta.
E io? Chi sono io?
Mi rannicchio sulla trapunta di Ermione, in posizione fetale, a occhi chiusi.
La pioggia mi fa da lenzuolo, la natura da madre.
Sono Nieve.
Non solo Nieve.
Nieve.

Piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.



La premessa obbligatoria a questa postilla è che, oggettivamente, non posseggo le competenze che mi avrebbero permesso di affrontare a dovere la prova; i miei studi mi hanno condotta in altra direzione. Più che lanciarmi in un’analisi del testo, perciò, voglio spiegare come mi sono approcciata alla sfida e, nel procedere, snocciolare una manciata di riflessioni che rendano meno astratto il mio elaborato e ne chiariscano il fitto (ma non necessariamente intelligibile a prima lettura) simbolismo. Preciso, inoltre, che non avrei potuto muovervi diversamente che in ONgdr, perché Nieve non nasce come personaggio spiccatamente intellettuale e avrei dovuto metterle in bocca ragionamenti miei, che avrebbero avuto come diretta conseguenza quella di farmi entrare in una realtà solo sua, laddove mi sono ripromessa di lasciare a Nieve i suoi spazi e di risparmiarle l’eredità dei miei deliri cervellotici.
Dall’inizio, la mia intenzione si è mossa nel senso di sviluppare una linea continua tra la Trasfigurazione intesa come materia di studio a Hogwarts, il tema del panismo dannunziano e il concetto più umano di metamorfosi/trasformazione; il tutto rapportato alle vicende personali che interessano Nieve. L’ho fatto ricorrendo agli incantesimi, sviscerando la natura e l’emotività del mio personaggio nei suoi tratti salienti e, per finire, concedendole di andare incontro all’ennesimo cambiamento.
In tal senso, penso che la Trasfigurazione si presti meglio degli altri campi a questo genere di percorso: piega, infatti, la materia e la plasma per dargli nuova vita, nuova forma. Così, un sasso diventa una farfalla, una ranocchia un cigno, le pietre foglie, un topo un calice di cristallo e avanti ancora in questa direzione. Trovo personalmente che stia qui la somiglianza tra poesia e Trasfigurazione. Anche la poesia ha un modo tutto suo — precisamente regolamentato, tecnicamente ineccepibile — di rappresentare il vero e attribuirgli sembianze nuove, diverse. Così, per il poeta, il volto diventa foglia, i capelli ginestre, il cuore pesca, gli occhi pozzanghere, i denti mandorle, gli alberi strumenti suonati dalla pioggia fino a che, da ultimo, è lui insieme a Ermione a perdersi nella natura per diventare parte di un tutto più grande che prescinde la dimensione corporea delle cose, nonostante sia proprio l’esperienza sensoriale il tramite per riuscirci.
Trasfigurazione è inoltre la materia che, per come ho concepito la storia e la struttura in divenire di Nieve, meglio le si adatta. Nieve cambia continuamente, a volte in modo rapido, a volte prendendosi del tempo, a volte al limite dell’ingovernabilità. Le istanze delle persone che incontra, delle esperienze che la segnano, delle esigenze di corpo e spirito ne compenetrano l’animo e si mescolano, modellandola a loro piacimento. È una Metamorfomagus, non a caso.
E per Nieve è tutto, tutto personale. Lo sono le ragioni che giustificano questa prima parte del torneo. I suoi movimenti, le sue scelte, le sue reazioni sono direttamente influenzati dal vissuto, da chi è sempre stata e da chi sta diventando.
Non abbandona Ermione ai suoi incomprensibili piagnistei perché ritrova in lei — una persona sola, fragile, apparentemente rotta — la sé bambina d’Islanda: avrebbe voluto che altri (i suoi coetanei e gli abitanti del villaggio, addirittura i suoi genitori) la cercassero nel folto della foresta invece che respingerla o abbandonarla; che la raggiungessero e restassero, ma soprattutto che le insegnassero a rimanere.
Ancora, non si arrende quando fornire a Ermione l’aiuto di cui ha bisogno le porta via tempo, tempo che potrebbe impiegare per la famosa prova del torneo (nella sua mente, è qualcosa di totalmente diverso da ciò che sta vivendo): non si arrende perché altri si sono arresi con lei — Emma, Oliver, Astaroth, almeno secondo la sua personalissima prospettiva — e sa quanto faccia male, sicché non riesce a tollerare, nemmeno a immaginare, di assumersi la responsabilità di provocare quel genere di sofferenza a un’altra persona.
E, per finire, non mente a Ermione sul suo dolore perché essere vista, essere voluta è ciò che ha sempre desiderato e che continua a desiderare. Nieve non ha filtri; nella migliore delle ipotesi, combina un danno ed è la vita a filtrare per lei. E il fatto che Ermione riesca a percepire quanto sia a pezzi è già di per sé sufficiente a far crollare le sue labili, inesistenti barriere (“Nella mia ottica è sciocco respingere un aiuto potenzialmente valido, se basta allungare la mano per ottenerlo”). Se così non fosse — se, cioè, avesse avuto dei veri filtri —, Astaroth non avrebbe mai saputo della sua cotta per Kappa e Thalia non avrebbe mai saputo (pur per sommissimi capi) del litigio con Astaroth.
Sta proprio qui il richiamo più astratto che mi sia sfidata a fare alla Trasfigurazione. Ho provato a intenderla non solo come materia di studio; non solo come ramo della magia che ha le sue norme, la sua storia, la sua dignità; non solo come trasformazione di una persona in divenire e che decide finalmente di lasciarsi andare. L’ho intesa anche in senso esattamente opposto: come tendenza spiccatamente umana a mascherare le emozioni — il “come stai?” chiama sempre il “bene!” —, a camuffarle perché risultino tollerabili alla vista degli altri ma, forse, soprattutto alla nostra. Un po’ come se fosse una sfida, le emozioni ci cambiano e non cambiamo loro.
Da mesi ormai, è proprio su quest’ultimo sforzo che ruota l’esistenza di Nieve. Astaroth è stata per lei amica e madre; ed era riuscita ad arrivare laddove neppure Grimilde (la madre adottiva) si era mai spinta. Con Astaroth, perfino più che con Emma (la primissima amica che abbia mai avuto), Nieve si è completamente lasciata andare e, nel farlo, si è concessa il lusso di sperimentare, capire, imparare, amare. Il periodo di amicizia con Astaroth è senza ombra di dubbio il più felice che Nieve abbia mai vissuto ed è il periodo in cui è cresciuta di più. Se dovessi immaginare di utilizzare una sola parola per descrivere la Nieve della fase con Astaroth, opterei per “disarmata”. Non c’è mai stato un momento in cui abbia immaginato di poterla perdere. Per questo, l’idea — che per lei è certezza — che Astaroth l’abbia tradita risulta annichilente. Così, passa dall’essere disarmata all’essere devastata: non tanto per il tradimento in sé — avrebbe trovato la forza di perdonarla, se solo Astaroth le avesse ripetuto a sufficienza una giustificazione qualsiasi — quanto perché sente di non averla mai avuta e tanto basta perché impazzisca di dolore (può davvero essersi immagina tutto del loro rapporto?). E il solo modo che conosca di reagire a questo dolore è nasconderlo sotto uno spesso tappeto di rabbia, intemperanza e parziale isolamento.
Il tema del panismo che domina la poesia, rapportato a Nieve, diventa un far pace — fosse anche per questo singolo episodio — con la parte di sé che non sa di ripugnare: quella che anela disperatamente al contatto umano; quella che cerca negli altri l’accettazione; soprattutto, quella che s’è legata in modo tanto viscerale ad Astaroth da non vederne i presunti inganni, da — come direbbe lei — “ignorare tutti i segnali”.
In quest’ottica, il panismo diventa un ricongiungimento di Nieve con la sua natura attraverso la natura (Ermione), che ha sempre giocato un ruolo centrale nell’infanzia del PG tra le altre cose.
Per riuscirci, ho evocato molti punti salienti dell’emotività di Nieve come orfana, rifacendomi al timore del rifiuto, al trauma dell’abbandono, alla centralità che riveste nella sua vita la ricerca della figura materna, alla difficoltà di confrontarsi con la possibilità che le sue certezze vengano messe in discussione (come tutti i bambini vittime di abbandono genitoriale, unilaterale o bilaterale che sia, ha imparato a legarsi a pochi punti cardine — che possono riguardare il suo comportamento, il suo aspetto, i suoi sentimenti — ed è così aggrappata ad essi da imbizzarrirsi quando qualcuno minaccia una rivisitazione; questo la fa apparire capricciosa e incostante, cosa che è senz’altro, ma più di tutto è terrorizzata).
Ciononostante, nel corso della prova Nieve procede su un duplice piano, che la vede ora soggetto attivo ora soggetto passivo della trasfigurazione: trasforma la radura in cui si trova perché diventi una vera foresta, simile a quelle dei suoi ricordi; e si lascia trasformare dall’incontro con Ermione, lascia che Ermione la veda e, contro ogni proposito di non legarsi più a qualcuno come ha fatto con Astaroth, rimane e le consente di vederla, anziché fuggire. E per un attimo — uno soltanto — si concede il lusso di una tregua con sé stessa.
Le emozioni, in fondo, non sono che la più grande forma di Trasfigurazione a noi accessibile.


Edited by ~ Nieve Rigos - 15/6/2019, 18:47
 
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