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view post Posted on 21/10/2018, 10:14
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Stringeva convulsamente la tazza di té persiano tra le mani e non sembrava fare differenza la consapevolezza che fosse fumante, del tutto bollente, a tal punto da arrossare la pelle del palmo chiuso attorno; la porcellana soffriva la forza motrice sulla superficie intera, mentre la presa aumentava ancora, ancora una volta, ancora di più. Sarebbe esplosa, distrutta, frantumata in mille pezzi, di lì a breve: Oliver lo sapeva, riusciva a capirlo ed allo stesso modo era impossibilitato a muoversi. Come un automa già di per sé compromesso, vittima di un sortilegio antico ed indissolubile, percepiva il suo corpo in tensione perfetta, senza più controllo di gambe, di braccia, di dita, di nulla. Il cervello macinava pensieri, uno dopo l'altro, mentre il cuore invitava alla calma, alla pace, all'equilibrio che i suoi stessi battiti all'impazzata non confermavano per davvero. Sospirò per un attimo che risultò fugace, la gola ad un tratto terribilmente secca, gli occhi sgranati, spalancati, di scatto aperti su chissà quale visuale d'insieme. Cosa succede, diceva qualcuno. Un sussurro, quello, che Oliver era ancora in grado di carpire intensamente, in prima persona. Ascoltava tutto, ascoltava tutti. Ed era per lui, all'interno del suo petto, una sensazione plasmata in eterno difficile silenzio. Cercò un appiglio di sorta, un'àncora appena improvvisata alla buona, dalla tazza di té, ma né il suo profumo dolciastro né l'intricato design arabesco, indigeno, affascinante come pochi altri al mondo, si realizzarono come strategie utili per un aiuto effettivo. A quel punto chiuse gli occhi, scosso da una vertigine più forte del solito, mentre i colori sfumavano in nero, in buio, in tenebra compatta. Mi manca il respiro, sperò di aver detto, ma non ne era sicuro, non poteva esserlo. Percepì il cicaleccio distratto e crescente attorno a sé, percepì movimenti e contatti leggeri, infine una voce tra tutte, più dolce e familiare del solito, fin quando un conato lo scosse profondamente, da capo a fondo. Cianotico, pallido, in preda a convulsioni più intense di quanto non fossero mai state fino a quel giorno, il Veggente trovò finalmente ristoro e vita nel corpo già disperso nel tempo: e se per un attimo si lasciò andare alla fede di aver sfuggito il pericolo peggiore, bastò l'istante seguente ad inoltrarlo del tutto, pari ad una preda indigesta, nell'onta della maledizione ereditata. Apparvero un corridoio, una parete di mura grezza, uno scoppio di gridolini e di risate divertite, lo spettro danzante del poltergeist del castello, infine la corsa, la sua corsa, così frenetica da procurargli il fiatone più di un intero allenamento al Campo di Quidditch. Capitombolò contro un'armatura, il clangore di metallo e di ferro superò come onda d'urto il piacevole incontro di alcuni studenti. E già qualcuno vi si girava di scatto, lo adocchiava, infine lo indicava. Il volto, quel volto, era tra loro. Un volto che non sapeva di poter rivedere, un volto che aveva già visto e che ora rivedeva, in una ripetizione capace di valicare ogni tempo scritto e non scritto. La tazza rovinò al suolo, scivolò da sola. Il Caposcuola Grifondoro, diceva qualcuno. Oliver Brior, mormorava un altro. Cose da pazzi, cosa gli capita, perché corre così. Oliver. Il suo nome, qualcuno che chiamava ancora ed ancora una volta. Oliver. La sua voce, quella voce che non ascoltava da molto, quel suono che aveva saputo dimenticare, eppure invano fino a quel giorno. Oliver. Insistente, forte, lo scoppio di una tazza in frantumi, di porcellana staccata pezzo per pezzo. Oliver. Il té dolce, ambrato, nitido, che Timothy aveva riportato come regalo ai suoi concasati dal suo ultimo viaggio in Persia. Quella macchia che ora bagnava i pantaloni, la divisa scolastica, l'impeccabile figura del Caposcuola sotto i riflettori. Oliver.
Andate via, gridava qualcuno. Andate via. Andate tutti via. La sentiva, la percepiva, la viveva ancora in prima linea. Si riscosse come in preda ad un'altra ed ultima convulsione, ad un tremore che gli diede rinnovata padronanza sul proprio corpo, su di sé, sulla sua vita. Braccia gentili, carezze affabili, il profumo di fiori appena sbocciati. Sentì la gote strofinare contro un tessuto grezzo, ma soffice e più sicuro di qualsiasi altra cosa. E mentre la Sala Comune chiudeva i battenti, lontani gli spettatori, calato il sipario di una pièce del tutto improvvisata, Oliver tornò a vedere e si accorse di non aver mai chiuso gli occhi, non una volta, mai una volta.
«Oh Lavender.»
Va tutto bene, diceva. Va tutto bene.
«È tornata.»

Aveva immaginato, a dispetto di ogni altra considerazione, di subire gli effetti della Visione al pari dei postumi di una coppa di Idromele Barricato di troppo; solitamente, il malessere fisico che provava ogni volta, di punto in bianco, non cessava di colpo come se mai esistito. Si prolungava, spesso per più ore di quante sperate, fino a spingerlo lontano dal pubblico, dalle lezioni, dai doveri che gli spettavano, dai ruoli che gli competevano in prima persona. La consapevolezza di dover fare attenzione, da quel momento in poi, era per lui più limpida di qualsiasi altra cosa. Procedeva lentamente, passo dopo passo, al corridoio del terzo piano del castello: le mani fredde, in tasca, coperte dal mantello scuro e lungo che indossava in quel primo pomeriggio di fine Ottobre; il volto acceso di un'aspettativa che arrossava le gote, a dispetto della carnagione più chiara del solito, mentre lo sguardo scrutava i dintorni come un predatore al suo prossimo assalto migliore. La sciarpa dai colori della sua Casata zampillava di tempre vivaci, dal rosso all'oro e viceversa, sul collo in parte scoperto, ma con un gesto frenetico, quasi distratto ed infastidito, Oliver ne rivolse lontano un lembo per un'improvvisa sensazione di calore. Sentì in lontananza la voce di un ragazzo, poi di un altro, infine un terzo e li vide come Tassorosso in avvicinamento: forse studenti di un corso appena conclusosi, forse passanti qualsiasi, in un caso o nell'altro il Caposcuola continuò ad avanzare. Senza una meta, non una direzione, guidato dalla visione che aveva subito poche ore prima, quando ad un tratto giunse nitida alla propria attenzione la risata stridula e fin troppo allegra, inconfondibile ed unica di Pix il Poltergeist; lo ignorò, fermandosi un attimo, per poi procedere accanto ad altri alunni alla sua destra. Con calma, si ripeteva, così da evitare qualsiasi grattacapo, da non andare a sbattere contro alcuna armatura come la sua visione suggeriva. Andava tutto bene, a quanto pareva. Procedeva in silenzio, ascoltando parti di discorso avviato di altri abitanti della Scuola, ma fu nitida la richiesta d'aiuto di una ragazza poco lontana. Non è niente. Non è niente, si ripeteva. Ma la fiumana di studenti si stava già accalcando a qualche metro più avanti e già qualcuno si voltava all'indietro per capire cosa stesse succedendo. Non è niente, si diceva Oliver. Non è niente.
«Lasciami andare, lasciami ho detto.» Percepiva la tensione ad altezza petto, la folla in delirio lì nei dintorni, ma procedeva, passo dopo passo, ancora da solo. Le mani in tasca, strette a pugno, impassibili con resistenza. «Lasciami stare
Corse in avanti, di scatto, quando l'ultima razionalità lo abbandonò di improvviso. La voce femminile era salita di tono, la richiesta era limpida, disumana, a tratti forte. C'era qualcosa, forse qualcuno, che stava creando problemi in tutto il corridoio. Oliver si chiese per quale assurdo motivo nessuno fosse ancora intervenuto, non appena lo sguardo si posò su uno studente grande, alto e slanciato, che stringeva con presa ferrea il bacino e le spalle di una ragazza più piccola. Al suo fianco, un altro fomentava qualsiasi cosa fosse ormai in corso. Bastarono la divisa aperta e i capelli in disordine della studentessa a far salire il sangue al cervello al Caposcuola. La bacchetta già nel palmo della mano destra, fuori dalla tasca, improvvisamente rivolta all'alunno poco distante. «Toglietevi davanti, toglietevi subito!»
Spinse con foga il primo, il secondo ed infine altri studenti accalcatisi di fronte, come spettatori d'eccezione, fin quando a visuale maggiormente libera, sferzò vertiginosamente l'aria circostante con la bacchetta. Un sibilo, un fischio, la stasi che precludeva in silenzio la tensione imminente, infine l'Incanto ad esplodere dalla punta in legno d'Abete, mentre lo Schiantesimo impattava contro la figura molesta, spingendola lontana. Qualcuno gridò, qualcuno addirittura si lasciò andare ad un applauso, ma la folla era troppa, la ragazza confusa ed impaurita tremava ancora in modo evidente. Oliver le strinse le mani tra le sue, la guardò con attenzione e gentilezza, tentando di infonderle sicurezza e bloccarle il tremore.
«Va tutto bene, ci sono io.» Lo diceva Lavander poco prima, lo diceva a lui, alla sua difficoltà, alla sua immobilità. Lo ripeteva adesso, in persona, alla povera malcapitata di turno. La vide riprendersi, scuotersi dal torpore ed annuire con furia. La bacchetta di Oliver si mosse ancor prima che il grido della folla gli si rivelasse come presago di un pericolo, di un attacco alle spalle, imminente, infame. «Immobilus.» Lo attecchì al suolo, immobilizzandolo di netto, nell'esatto momento in cui il ragazzo si avventò di risposta su di lui. Con il tonfo del corpo pari a gesso sul pavimento, Oliver vi si avvicinò con sdegno palese, la furia a tormentare il suo volto, l'orgoglio fiero di Godric ad invadere e stravolgere gli occhi non più affabili.
«Oliver, sta correndo!»
Si volse di scatto alla destra, quando il secondo studente, vista la situazione, si diede alla fuga prima che potesse essere troppo tardi. Si riferì rapido al ragazzo immobile.
«Portatelo dal Preside e state vicini alla ragazza, subito
Gridò il comando già dopo essere scattato in avanti, verso l'altro alunno da condannare, fermare, bloccare. Più correva, più il fiato si accorciava, il respiro compromesso, il corpo accaldato, mentre Pix rideva in lontananza e la folla si disperdeva ad ogni metro sempre di più. Svoltò alla sinistra, tentando di prendere la mira con la bacchetta per lanciare un sortilegio verso l'altro, ma fu solo dopo aver superato un altro nutrito e spaesato gruppetto di studenti che il malfattore castò un Oppugno contro un'armatura, spingendola indietro. L'impatto fu immediato, impossibile da evitare, e il clangore di metallo cozzò contro braccia, torace e mento del Grifondoro, spingendolo a terra. Il dolore esplose in più punti, sul cicaleccio di voci vicine e di nomi sussurrati con foga, mentre il corridoio si riempiva di quel tintinnare fastidioso. Era accaduto, fu il primo pensiero di Oliver. Ci siamo, si ripeté ancora. Quando riuscì a mettersi in piedi, consapevole di aver ormai perso di vista per davvero lo studente da acciuffare, strinse la sciarpa al collo, sistemandola di nuovo, e a dispetto di lividi e corpo dolorante, fu il cuore a subire più di qualsiasi altra cosa. Ci siamo, lo sapeva bene. La visione concretizzatasi in tutto il suo percorso, al di là di ogni tentativo di aggirarla, finalmente Oliver sollevò lo sguardo di poco. Una sola volta, un'unica volta. Nella folla vicina, tra volti familiari, confusi, sorpresi, la vide prima di chiunque altri. Era tornata.

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Era tornata. Helen era tornata ad Hogwarts; aveva mollato tutto, era sparita, nessuno sapeva il perché, almeno nessuno dei suoi compagni. Dopo l’incidente Helen si era rinchiusa in casa, nella sua stanza e non voleva vedere nessuno, non voleva uscire, si rifiutava di vivere, si rifiutava di mangiare, sua nonna la forzava sempre a buttar giù qualcosa. Ma ad Helen ogni cosa non importava più nulla. Ed è stato così per molto tempo. Quell’incidente l’aveva segnata molto. Un po’ alla volta cominciò a uscire dalla sua stanza, per lo più si andava a rinchiudere nella biblioteca nella casa dei nonni paterni, dove stava vivendo. Non era molto, ma per suo padre era un grande passo avanti, anche se la giovane Tassorosso non la pensava così.
E così una stanza alla volta aveva cominciato ad uscire dalla sua gabbia, almeno esternamente, perché il cuore di Helen continuava a restare in quella gabbia.
Non sapeva neanche lei perché a settembre aveva deciso di tornare ad Hogwarts. Era sparita, non aveva detto niente a nessuno, non aveva scritto una lettera, un messaggio per spiegare la sua sparizione. Per i suoi amici era semplicemente scomparsa. Ovviamente i professori erano a conoscenza della situazione, il padre di Helen si era premurato di spiegare la situazione della figlia, era passato a ritirare anche tutte le cose della figlia. E ora si trovava di nuovo a girare per quei corridori, a seguire le lezioni insieme ai suoi compagni, a passeggiare per i giardini del castello insieme al suo, non tanto più piccolo, gatto Sebastian che non la aveva mai abbandonata, sperando di rivedere di nuovo gli occhi della sua padroncina tornare a sorridere.
Nonostante avesse ripreso la vita scolastica, Helen era comunque distante dagli altri, non interagiva con i compagni, se ne stava sempre da sola in disparte, spesso rinchiusa nella sala comune Tassorosso. Aveva paura di incontrare gente, e soprattutto aveva paura di incontrare lui. Lui che aveva significato molto per Helen, e lei non gli aveva mai scritto una lettera. Subito dopo l’incidente non aveva voglia di comunicare con nessuno, e poi … e poi era passato molto tempo. Una parte di Helen pensava che ormai si fosse dimenticato di lei, e che in ogni caso lui non l’avrebbe mai perdonata per essere sparita così, senza preavviso; conosceva il ragazzo e sapeva che difficilmente perdona un torto, una pugnalata al cuore, ed Helen gli aveva fatto di peggio. Lo aveva abbandonato senza dirgli un ciao. Un giorno però avrebbe dovuto affrontarlo e quel momento sembrava essere arrivato; il destino aveva deciso che quel giorno Helen avrebbe rincontrato Oliver.
Era uscita dall’aula nella quale stava seguendo una lezione, era l’ultima ad uscire, Helen era sempre l’ultima. Si stava per incamminare lungo il corridoio, quando per poco non veniva investita da un ragazzo che correva; se non fosse stato per i riflessi da ex giocatrice di Lacrosse, l’avrebbe presa in piena. Stava per inveire contro quel ragazzo, quando un fracasso assurdo attirò la sua attenzione dalla parte opposta. Un ragazzo era andato a scontarsi con un’armatura. Lì per lì Helen non riuscì a riconoscere il ragazzo, anche per colpa dei diversi ragazzi che si trovavano tra lei e lui. E poi sentì qualcuno pronunciare il nome di Oliver. Helen trattenne il fiato, cominciò a sperare si trattasse di un altro ragazzo con quel nome, non era pronta ad affrontare il Grifondoro. Ma quando la visuale tra lei e lui fu sgombra, il cuore di Helen sobbalzò nel constatare che era proprio lui. L’istinto di Helen, di quella nuova Helen che ora percorreva i corridoi del castello, le stava urlano di correre via, nella stessa direzione dove era appena scappato il ragazzo di prima. Ma il corpo di Helen sembrava avere intenzioni opposte. Rimase ferma sul posto per un tempo che a lei sembrò pari all’eternità, e poi le sue gambe cominciarono a muoversi … nella direzione sbagliata.
Invece di scappare lontano, le gambe di Helen, portarono la ragazza di fronte ad Oliver.
Il suo cervello non era pronto per quell’incontro, non aveva pensato a cosa dire, cosa fare, era completamente inutile in quel momento. Il cuore di Helen però sapeva cosa fare. La bocca di Helen si aprì, cercando di dire qualcosa e dopo un paio di secondi in cui apriva e chiudeva la bocca facendola sembrare un pesciolino fuor d’acqua che boccheggiava nel tentativo di immettere ossigeno, delle parole uscirono, emettendo dapprima suoni deboli e poi più decisi. – T-Tutto ok? Ti sei rotto qualcosa?Tutto qui? Questo è tutto quello che sei riuscita mettere insieme? Dopo che non lo hai visto per un anno, dopo essere sparita, l’unica cosa che riesci a dire è ‘Tutto ok’? – Helen stava seriamente rimpiangendo di non essere scappata prima.



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view post Posted on 22/10/2018, 04:46
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Non aveva sue notizie da una settimana, ormai, e prima della scomparsa non c'era stato un solo giorno - pomeriggio, dopo lezione, ad ogni intervallo tra una classe e l'altra da raggiungere - in cui non si fossero visti. Il Lago Nero aveva sfumature più chiare, molto accese e vivaci, in sua presenza; uno dei loro ritrovi, a ben vedere, che Oliver aveva dovuto drasticamente rivalutare, senza perderne il fascino innato, da quando Lei si era data all'ignoto. Aveva dormito poco e nulla, le notti da insonne erano aumentate vertiginosamente e con loro, ancelle ben d'eccezione, le stesse profonde emicranie e le conseguenze che ne derivavano. Si era ripromesso di indagare ancor più di quanto non avesse già fatto, ma né le domande ad alcuni Docenti né la speranza di saperne di più dallo stesso Preside di Hogwarts avevano fatto la differenza: le giustificazioni di assenze prolungate da parte di membri del castello, ricordava ancora, erano protette dal segreto professionale. O qualcosa del genere. Aveva cercato tra le lettere, le loro ultime lettere che si erano scambiati, magari un cenno ad un'improvvisa sensazione disastrosa, ad un dramma in bella vista, ad un motivo - uno qualsiasi - che potesse essere da fautore di tutto il resto. Tra le parole della Tassorosso non c'era nulla: un diario personale e ormai abbandonato, carta straccia tra legami sfilacciati, infine il vuoto; tutto quello che aveva ottenuto, tutto quello che aveva ricevuto, Oliver poteva ancora studiarlo fin nei dettagli, quando lo sconforto, imperterrito, superava ogni padronanza, ogni raziocinio, ogni mancato equilibrio. Avrebbe potuto dire di essere stato impeccabile, forte ed orgoglioso come dettava il consiglio primario in momenti del genere; avrebbe potuto dire di aver superato tutto, di essere andato avanti, di non essere rimasto ancorato più del dovuto al passato; avrebbe potuto dire di aver osservato il Futuro, lui che ne aveva il potere e il pregio, alla ricerca anche solo sporadica di informazioni, di dettagli, di qualsiasi cosa potesse valere come spiegazione. Ad un tratto, si ripeteva, aveva anche esclusivamente desiderato una missiva di poco valore, di una frase appena accennata, la stessa che dava conferma del fatto che Lei stesse bene, che fosse al sicuro con suo padre, con la sua famiglia, in qualsiasi posto potesse chiamare Casa. Non aveva avuto altro che silenzio, da parte sua. Così com'era accaduto con altri e più amici, così com'era accaduto con Docenti, Presidi, perfino Colleghi di un lavoro che diveniva, tra quelle mura imponenti del castello, più di un insieme di schemi da portare a compimento; gli abbandoni che aveva sperimentato sulla sua stessa pelle, ad intaccare giorno dopo giorno un cuore già di per sé compromesso, erano così numerosi da averne perso il conto. Sebbene scottassero tutti, dal primo all'ultimo, come ardenti promesse di un arrivederci, Oliver ne aveva fatto tesoro, uniti a quella stilla di vendetta, di rabbia, di delusione che neanche un animo buono come il suo avrebbe potuto pienamente domare. Lei, però, era stata la sua ferita più grande, la stessa che a distanza di tempo - mentre lo sguardo ne avvolgeva i confini, la osservava, la scrutava attentamente - poteva comprendere di non aver ancora rimarginato completamente. Nel suo cuore c'era un'altra persona, lo sapeva. Il primo pensiero andò a Leah, alla sua dolcezza, alla sua semplicità che aveva conquistato il Caposcuola spezzato, distrutto, abbandonato. Eppure, a rivederla, nasceva quel sentimento mai sopito per davvero: non più come una volta, non più; ed ancora autentico, vivo, tuttavia esplosivo. Si chiese se quanto stesse provando in quegli istanti, mentre si rialzava dalla caduta di poco prima, non fosse altro che il tripudio di nervosismo e dispiacere, quella tristezza dai tratti furiosi che ancora lo divorava in tutto e per tutto. Helen. Il suo nome, quel nome che non pronunciava da chissà quanto. Helen. Lo aveva abbandonato come l'ultimo dei conoscenti, come una sciarpa sfilacciata, ormai in disuso, che nessuno preferiva più vestire; e se le metafore lo avevano accompagnato per lungo andare tra le pagine di confessione di un Diario in pelle chiara, adamantina, ambrata, il tempo aveva poi messo un punto a quelle stesse scritture. Non andava bene, non più. L'aveva dimenticata, con difficoltà, più di quanta di persona Oliver avesse mai solo lontanamente immaginato. Aveva tentato in tutti i modi di riuscire nell'intento: per rispetto di sé, del suo cuore, del suo dolore. Perché Helen era per lui il Sole, quello ardente, intenso, prezioso, lo stesso che rapido era mutato in un'Eclissi dalla quale non una volta aveva saputo risvegliarsi interamente, con coscienza. Solo quando l'insonnia era divenuta pari ad una seria patologia, solo quando i Filtri di Sognoleggero di Zonko erano aumentati a dismisura sul proprio comodino, sera dopo sera, all'agognata speranza di trovarne ristoro, solo quando la scomparsa della ragazza, del suo grande primo amore, lo aveva consumato fin nel profondo, aveva finalmente ripreso le redini del proprio presente.Se la storia di Helen era giunta ad un punto d'arresto, per sua scelta, ovunque fosse andata; se la sua storia non prevedesse Oliver tra le sue pagine, al suo fianco, lui non avrebbe potuto farci nulla, non più di quanto non avesse tentato. Le lettere tornate a destinazione, la sua civetta quasi a sua volta dispiaciuta per un'amicizia che non rivedeva da molto, infine la pace, la stasi, l'indifferenza e la peggiore diffidenza che avesse mai provato in tutta la sua giovane vita. Mentre l'armatura si rimetteva da sé al proprio posto, in un sinistro clangore ripetuto a battenti; mentre la folla si disperdeva, ormai finito lo spettacolo appena improvvisato; mentre il Poltergeist rideva in lontananza, ancora una volta, forse un'ultima volta per quella Visione senza precedenti, attiva e convulsa; mentre tutto tornava al principio di un equilibrio ormai dovuto, Oliver finalmente sostava in piedi, stringendosi dolorante tra il mantello lungo e scuro, immobile a poca distanza dal volto che non credeva di poter rivedere. Ed era ancora così bella, come un fiore reciso, ma vivo, ancora colorato, a dispetto dei petali già più pallidi, delle sfumature già meno accese; qualsiasi cosa fosse accaduta alla ragazza, qualsiasi segno portasse sulla pelle e sul cuore, Oliver ne subiva l'impatto per l'ennesima volta, a distanza di un anno intero. «Helen.» Così lo sussurrò, finalmente, e da chissà quanto aveva sperato di poter pronunciare quel nome, di poter ripristinare il passato, di poter capire là dove la confusione e il silenzio erano vittime di un abbandono senza precedenti, il più difficile, il più triste in assoluto. La rabbia accennò ad una delusione e la coppia di sentimenti, ardenti come mai prima di allora, si riversarono come ragnatele d'incastro sul volto ferito, stanco, eppure gentile del Caposcuola Grifondoro. Chiedeva di ossa e di tagli, chiedeva di "qualcosa di rotto": un'ironia, quella, che Oliver non poté mascherare. «Tu mi hai spezzato.»
Parlò a fil di voce, un mormorio basso, forte, deciso: là dove il cuore doleva ancora, là si originava lo strazio nato dal vuoto.

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Era arrivato. ‘Tu mi hai spezzato’. Un pugno nello stomaco avrebbe fatto meno male, ma Helen se lo meritava tutto; anzi si meritava di peggio. Sapeva di aver ferito il ragazzo. Ma la verità che le faceva più male era che se ne era accorta troppo tardi. I primi tempi dopo l’incidente era totalmente apatica, la sua mente non voleva pensare a niente e a nessuno, se non a ciò che ero successo. Si era ‘ricordata’ dei suoi amici solo molto tempo dopo. Era stata una vigliacca, a quel punto a non comunicare loro che stava bene. Era stata molto egoista, ma nonostante ciò possa sembrare una cosa negativa, in quel momento essere egoisti era l’unica cosa da fare.
E ora doveva pagare il prezzo delle sue azioni, o meglio delle sue non azioni. Le parole di Oliver l’avevano ferita, ma non poteva pretendere un comportamento diverso. – Lo so – Si fermò un attimo, a pensare, a pesare le parole che avrebbero seguito quell’affermazione. Sapeva bene che scusarsi non sarebbe servito a molto, ormai lo aveva spezzato, per usare le sue stesse parole. – So di averti fatto molto male, probabilmente neanche so quanto – e per quanto conoscesse il ragazzo, davvero non poteva immaginare quanto male avesse potuto fargli. E onestamente Helen, non voleva neanche immedesimarsi nei panni del Grifondoro per capire fino in fondo quanto lo avesse ferito, non avrebbe retto anche quel dolore. Dopotutto anche lei era spezzata. – Avrei dovuto mandarti un messaggio, lo so, almeno adesso lo so, prima … non … non ero in grado di capirlo – Il dolore in lei la stava rompendo ancor di più, dopotutto teneva insieme i pezzi del suo essere con molta, molta fatica. Ma non voleva darlo a vedere ad Oliver. – Io capirei benissimo se tu non volessi perdonarmi. Non lo merito e non lo pretendo – Ed era così, nessuno poteva perdonare Helen, e nessuno doveva perdonare Helen, lei non lo stava facendo e nessuno doveva farlo. – So che non saremo più amici come prima – Come avrebbero potuto? L’amicizia si fonda sulla fiducia e quando quella fiducia viene a mancare, l’amicizia stessa viene a mancare, almeno era così che la Tassorosso vedeva quel tipo di legame, e lei aveva rotto eccome quella fiducia.
Io – Non riusciva più a dire altro. Qualsiasi altra cosa avesse aggiunto sarebbe suonata come una scusa, come una giustificazione per la quale doveva essere scusata, perdonata, ma lei non voleva. E non voleva neanche spiegare cosa le fosse successo. – Scusa, devo andare, ho lezione – Era una bugia, ma non poteva restare ancora lì con Oliver. Il suo sguardo le faceva male, la frase detta da lui prima riecheggiava ancora nella sua testa e faceva male. Helen ancora una volta stava scegliendo la strada dell’egoismo. La vecchia Helen non avrebbe mai lasciato un Oliver così, ferito, per scappare via, gli sarebbe rimasta accanto anche se ciò avrebbe significato l’essere ferita. Ma questa Helen, non era in grado di sopportare, non poteva sopportare neanche il suo dolore, doveva essere egoista, doveva solo pensare a lei, doveva farlo solo lei, perché nessun altro avrebbe dovuto pensare a lei, perché nessun altro avrebbe dovuto più soffrire per colpa sua.



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Provava un dolore crescente e sempre più incessante, sempre più intenso; là dove l'armatura lo aveva colpito, là dove il ferro si era abbattuto, Oliver percepiva spille di un fremito a stento contenuto. Si chiese quanti e quali lividi avesse appena guadagnato dall'ultima corsa, quali altri segni potessero riversarsi sul suo corpo già di per sé martoriato. Non avrebbe retto alcun altro peso, non in quel momento e di gran lunga non con Helen ormai così vicina. Si passò la mano destra sui pantaloni, rimuovendo invisibili acari di polvere, in un gesto che evidenziava una mancata necessità, così come la sua più imbarazzante inutilità: l'armatura, d'altronde, era in ferro battuto e sebbene il giovane Mago fosse capitombolato al suolo senza distinzione né freno d'aiuto, il corridoio sembrava più pulito del solito. Prima che potesse mettere ancora una volta a fuoco la figura di Helen, prima che potesse dare un senso alle sue parole, si accorse di come tutti i punti dolenti convergessero in una sola e ben distinta direzione. Il palmo destro ancora aperto, ancora stretto alla bacchetta magica con cui aveva tentato invano di fermare il furfante molesto di poco prima, seguì per un attimo l'origine di ogni male: come una puntura di un insetto fastidioso, come una ferita non del tutto rimarginata, era ad altezza petto che i battiti del cuore si stavano ormai lentamente placando, secondo dopo secondo, istante dopo istante. Restava il silenzio, la certezza di essere in ritardo, la sensazione dolceamara di aver finalmente rivisto e ritrovato Helen, di voler abbracciarla ancora una volta, così come cresceva in lui il desiderio di respingerla per sempre, di allontanarla, di non incontrarla per nessun altro motivo al mondo. Le afferrò il polso in uno scatto improvviso, con forza, la pressione che già sfiorava la pelle scoperta della mano dell'altra, prima che potesse andare via, prima che le sue speranze - non autentiche, lo sapeva bene - di cacciarla potessero concretizzarsi per davvero, contro ogni aspettativa. «Nessuna lezione, Helen. Se è una scusa, non importa un accidenti; se è la verità, dirai al Docente di esserti sentita male per...» Di sottecchi, con la coda dell'occhio sinistro, si accorse di un gruppetto di figure indistinte, in silenzio ed in ascolto; si volse verso gli studenti a qualche metro di distanza da loro, lasciando nel frattempo il polso della Tassorosso. A loro si rivolse con astio palese nel tono di voce.
«Cosa diamine avete da guardare? Via, filate via!» Dalla punta della bacchetta magica, in solitaria, vibrarono alcune scintille purpuree, e tanto bastò come visione d'insieme, al pari del comando del Caposcuola, per liberare finalmente la scena. Assicuratosi di essere rimasti da soli, Oliver posò l'arma d'Abete nella tasca laterale della divisa: avrebbe ripreso il discorso, se solo non avesse sentito in lontananza la risata distinta e fin troppo allegra di Pix il Poltergeist. «Per Merlino, tutti in questo corridoio oggi?! Spostiamoci, voglio parlare.» Sospirò, osservando per la prima volta con dispiacere, e non solo palese nervosismo, il volto della ragazza che mai avrebbe pensato né sperato di poter davvero ritrovare tra le mura di quel castello.
«Helen, non capisci. Non si tratta di perdono né di altro, si tratta di aver abbandonato senza motivo la persona che più ti voleva bene. Per favore, non andare via.» *Non di nuovo* fu la frase che morì, rapida, sulla punta della lingua. Trattenne per un attimo il respiro, allungando la mano destra, libera, verso la ragazza. Una nota gentile andava già a delineare una nuova espressione. Chiedeva di seguirlo, indirettamente, verso un'aula, un luogo, un posto più in solitaria e più tranquillo. Chiedeva di seguirlo, come in passato, con l'incanto di uno sguardo vivo che non si sarebbe disperso affatto. Forse, a dispetto di ogni cosa, non tutto era perduto per sempre. Non tutto era cambiato senza alcun ritorno.

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HELENScheda


tassorosso

La rabbia di Oliver – se così si poteva definire – fece sussultare dallo spavento Helen; se lei fosse stata nei panni di quei poveri malcapitati ragazzi che si trovavano a passare in quel corridoio nel momento sbagliato, sarebbe scappata a gambe levate. Sapeva che il Grifondoro era una persona buona, e proprio per questo vederlo arrabbiato faceva paura. – Le persone buone quando si arrabbiano fanno paura.
Ma lei non poteva biasimarlo. – Va bene, andiamo da qualche altra parte a parlare
La Tassorosso era una ragazza riservata, e di certo neanche a lei piaceva parlare di cose personali in un corridoio dove chiunque poteva passare ed ascoltare ciò che si sarebbero detto.
Fece per muoversi e seguire Oliver, ovunque lui l’avrebbe portata; si strofinava il polso che poco prima il ragazzo le aveva stretto con forza. Le faceva più male di quello che pensava; non era solo il dolore fisico, quello sarebbe passato a breve, riusciva a sopportare il dolore fisico, si faceva male da quando era piccola, aveva sviluppato una sorta di insofferenza a quello. Era il dolore emotivo che non era ancora capace di gestire, e in quella presa aveva sentito tutto il male che aveva fatto ad Oliver, sentiva tutto il suo dolore nell’averlo abbandonato senza dire niente, senza dare nessuna notizia.
Una parte di Helen avrebbe voluto abbracciarlo, ma non riusciva a compiere quel gesto che con lui era sempre stato normale e felice.
Gli hai fatto del male – gridava una voce nella sua testa – Questo è quello che fai. Fai del male alle persone che ti vogliono bene, che si fidano di te. Le abbandoni quando hanno più bisogno di te. Pensi solo a te stessa, a proteggere te, la tua vita, il tuo cuore - continuava a giudicarla quella voce – Sei solo un’egoista.
Le parole rimbombavano nella sua testa, e le facevano male, come ogni volta che riecheggiavano nella sua anima.
Cominciò a mancarle il respiro, la vista cominciava ad annebbiarsi, non riusciva più a percepire il mondo attorno a lei. Era nel bel mezzo di un attacco di panico. Ne aveva cominciato a soffrirne dall’incidente, ma erano ormai settimane che non ne aveva uno così forte. Helen cadde in ginocchio per terra, annaspando per fare entrare aria nei polmoni. Cominciò a sciogliersi la cravatta della divisa, ma sembrava non volerle dare la libertà di respirare. Delle lacrime cominciarono ad uscire dai suoi occhi rendendo la sua vista ancora più annebbiata. Ciò le provocava ancora di più la sensazione di panico. – Calmati Helen – Provò a ripetersi, ma queste parole non ebbero alcun effetto, continuava ad annaspare come un pesce fuor d’acqua.



Oliver harrypotter.it


Chiedo perdono per l'immenso ritardo.
 
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view post Posted on 3/12/2018, 05:28
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La sua partenza, la sua scomparsa, la sua indifferenza e diffidenza, tutto quello aveva plasmato una nuova sensazione, qualcosa che Oliver non aveva mai saputo affrontare prima di quel momento: l'umiliazione. Più di un'offesa a denti stretti, più di una parola in eccesso, più di qualsiasi altra cosa, Helen aveva saputo ferirlo tanto nel profondo da lasciare un segno visibile. La pelle scottava al contatto con l'avambraccio di lei, le sue mani, le sue dita, ogni cosa prendeva un senso diverso, a dispetto di una distanza di tempo e di spazio che aveva saputo fare la differenza, com'era ovvio che fosse. Da parte propria, Oliver ne era più che consapevole, aveva immaginato il ritorno al castello di Helen più di una volta: il suo ingresso tra le mura di Hogwarts, la ricerca di quel Caposcuola di cui si era follemente innamorata, perfino una sorpresa in piena lezione scolastica; una e più variante, non una ad escludere l'altra, ed era strazio infinito la certezza di non aver mai visto - né Visto, avrebbe potuto aggiungere - nessuna tra quelle prendere forma. Non c'era romanticismo in quell'evento, non c'era realismo che potesse valere. Helen era andata via: e al suo posto, un diario di segreti, pensieri e parole importanti era tutto quello che aveva lasciato come sua testimonianza. Più si avvicinava ad una porta solitaria, più i pensieri del giovane Mago convergevano l'uno con l'altro: cozzavano, esplodevano, si imponevano in maggiore concentrazione, l'uno a far contrasto imperituro con l'altro. Sciocchezze, quelle, che Oliver non avrebbe saputo rinnegare: perché anche in quel momento, anche quando la vicinanza con la Tassorosso gli faceva battere fortemente il petto - di dolore, di passione, di un affetto non dissipato del tutto -, anche a quel punto la ragione suggeriva di infischiarsene, di girare i tacchi, di correre lontano. Occhio per occhio, era questo che era diventato allora? Strinse i denti, abbandonando la presa sul corpo dell'altra: la bacchetta sfilò tra le sue dita, indice e pollice, e in un movimento secco andò a sfiorare appena la serratura della porta di fronte. Scattò repentinamente e un attimo dopo, lasciandola aperta, Oliver cercò lo sguardo di Helen. Non avrebbe mai potuto avere paura di lui, lo sapeva: così come avrebbe potuto capire, dall'espressione sul proprio volto, quanto il Grifondoro nutrisse ancora empatia e simpatia insieme nei suoi confronti. Era difficile dimenticare qualcuna come Helen. «Da quando sei tornata?»
Diede così il via alla spiegazione, al chiarimento, al dialogo. Pretendeva l'una e l'altra cosa, offriva un'àncora di appiglio, là dove non aveva ricevuto in risposta - in precedenza - altro che silenzio. Si richiuse la porta alle spalle, non appena assicuratosi che la Tassina fosse entrata a sua volta. L'ambiente spoglio, pochi armadi a fare da contorno, una schiera di banchi e piume alla rinfusa, infine uno sbuffo di magia sospesa in aria come polvere argentea: l'Aula di Incantesimi avrebbe fatto da cornice a quell'incontro tanto sperato, tanto rinnegato insieme.
«Perché non mi hai mai scritto, Helen? Perché non mi hai mai risposto?»
Si volse interamente, riponendo la bacchetta nella tasca della divisa scolastica; lo sguardo spento, le gote tuttavia leggermente più arrossate, gli zigomi alti, era così che si presentava Oliver Brior: e in quella nuova mistica dannazione, risiedeva un fascino spezzato senza eguali. «Ti ho cercata a lungo, Helen. Ma tu...»
Cercò la prima scrivania libera, poggiandovi contro una mano: aveva bisogno di un equilibrio che aveva già perso in partenza, fin dagli albori della visione subita quella stessa mattina. «Tu mi hai mai cercato?»
E la gentilezza divenne tristezza; e fu oblio, fu passione, fu ricerca.

It's up to you, and it's up to me / No one can say what we get to be
So why don't we rewrite the stars?

 
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6 replies since 21/10/2018, 10:14   162 views
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