Lo vide esanime contorcersi nel suo sangue e formulò allora una promessa:
il ricordo del lutto sarebbe durato in eterno, e il sangue diventato un fiore
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Metamorfosi, vv. 731-739; Ovidio.
Ormai vergine dell'Amore di cui era divina,
la stessa Afrodite pianse lacrime di dolore; e da quelle, fertili di vita,
già nascono petali color dell'oro, ciò che il tempo nominò calendule.
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Il Pianto della Dea; Anonimo.
Oliver, ti presento il nostro vicino di casa.
E non era vero, non lo era affatto. Abitavi ad un angolo di strada, troppo lontano per essere "vicino di casa", troppo distante per concedermi il piacere di crederlo. La prima volta che ci siamo incontrati, Loras, non riuscì ad apprezzarti come avrei dovuto: avevi un naso a patata così buffo, gli occhi curiosi forse più dei miei, ma quello che non sopportavo di te, più di ogni altra cosa, era il tuo modo di esprimerti, di comportarti, perfino di muoverti. Non eri elegante, non quanto me; eri sicuro, più di me, più di tutti noi. Camminavi come se avessi vinto il miglior trofeo del paese; eri fiero di te stesso, orgoglioso anche ad un'età così tenera, così giovane. Eri padrone della tua storia, del tuo presente, del tuo passato, di sicuro del tuo futuro: volevi essere un Medimago e ci saresti riuscito, tu più di chiunque altri.
Ricordo ancora come curasti quella lepre ferita, quella che trovammo insieme nel giardino di zia Adele. Aveva il musetto scuro, ma non tanto, non tanto da nascondere il fatto che fosse sporco di sangue. Era ferita, lo ricordo bene; e tutti noi, in quel momento, corremmo dai nostri genitori.
Mamma, mamma, c'è una lepre che sanguina! Mamma, mamma, per favore, fai qualcosa! Era paura o forse cosa? Non ne sono ancora sicuro, ma nessuno di noi si comportò in modo coraggioso, come avremmo dovuto. Corremmo via, chi a destra e chi a sinistra, diretti ognuno nel luogo più accogliente della zona: il bosco non era più immacolato, l'innocenza del gioco era stata strappata via, perché c'era una lepre ferita. E quella macchia rossa, così viva, così nitida, era sinonimo di pericolo per ciascuno di noi. Tu scoppiasti a ridere, non posso dimenticarlo. E più incuriosito che vinto dal coraggio, attesi. Tornai indietro, perché non mi capacitavo di come si potesse ridere in una situazione del genere; non piangere, non per forza, ma perlomeno un tremito, un giramento, una vertigine che potesse essere tale, anche se minima. Tu invece ridevi, ridevi come se la scena - quel povero leprotto - avesse in sé qualcosa di bizzarro, di buffo, di unico. Ma non faceva ridere, non era divertente. "La chiamerò Linsen", dicesti. E non mi fu chiaro in nessun modo, solo con il tempo compresi che Linsen, quel nome sì strano (di sicuro più del musetto sporco di sangue), significasse "Lenticchie" nella lingua che ti apparteneva. Linsen, che ingenuamente coniugasti al plurale, ma che traducesti per noi al singolare. Ancora oggi mi chiedo perché quell'assonanza: per il pelo scuro e marrone oppure per gli occhietti vispi, cerchiati di stanchezza, pronti a socchiudersi una volta e per tutte? Non so dirlo, vorrei tanto riuscirci. Allungasti la mano verso il musetto della bestiola: aveva paura, tremava tutta; ma tu no, Loras, tu non tremavi neanche un po'. E parve che il riflesso del sole divenisse più nitido, solleticasse il palmo della tua mano, girasse tra indice e pollice fino a scappare via, così com'era caduto dal cielo. Subito dopo, il musetto della piccola lepre non era più rosso, non era macchiato, non era graffiato: Linsen stava bene, era guarita. Saltellò via, non prima di godere di un'ultima carezza da parte tua.
"Oliver, e tu non vuoi carezzare Linsen?", mi domandasti. E io volevo, Loras, volevo davvero; e nella mia mente vorticavano preoccupazione e stupore, insieme, di pari passo. E se avvicinandomi, Linsen scappa via? E se toccando la bestiola, la ferita torna a galla? Non avanzai, restando inconsciamente fermo, in piedi a neanche un metro di distanza, come mero osservatore. Ricordo di averti visto deluso, Loras, e quell'espressione mi tormenta ancora. Quando il giorno dopo ci incontrammo, però, era come se non fosse successo nulla: non per te, non per gli altri che ripresero a giocare, non per il bosco che tornò ad essere il nostro luogo preferito, senza più leprotti feriti o sanguinanti. Ma per me, Loras, per me cambiò tutto. E iniziai a vederti, Loras, iniziai a vederti. Eri sicuro di te stesso: più di me, più di tutti. Camminavi a passo lento, certo, cadenzato: non avevi fretta, e perché - a quell'età, nove anni - avresti dovuto averne? Non c'era fretta nel tuo andamento, tanto bastava per ammirarti e, lo ammetto, per esserne geloso. Non ho mai avuto la stessa fiducia che traspariva nel tuo modo di fare, di agire, di vivere. Tu che eri pieno di energia, io che ero pieno di allegria, entrambi inebriati dalla spensieratezza che solo i bambini possono custodire ancora. Ed iniziai a vederti. Eri bello, Loras, più di tutti noi, più di me. I capelli lunghi, ricci, di un biondo simile all'oro. Eri splendente, radioso, felice. Sapevi guarire con il solo sfiorare della mano, sapevi guarire con il tuo sorriso anche il più triste tra tutti noi. Non c'erano mai rimpianto o delusione nel tuo sguardo: occhi azzurri, color del cielo, chiari più delle acque del fiume Lee. Ed eri bello, Loras, tanto da esserne geloso a mia volta. "Noi siamo amici, Oliver", dicevi sempre. E lo eravamo, lo eravamo davvero. "Saremo sempre amici?", aggiungevi, come ad avere una prova non necessaria, una conferma da parte mia. Annuivo, annuisco ancora. Saremo sempre amici, ripetevo. Lo siamo ancora, lo siamo davvero. Ma io ti vedevo, Loras. Io cominciavo a vederti, amico mio. E nell'azzurro dei tuoi occhi non c'era più la stessa luminosità, la stessa sicurezza, la stessa speranza; le guance non erano tinte di rosso, ma di bianco, eri pallido, pallido come non mai, pallido come il fantasma nella cantina di Patrick. Io ti vedevo, Loras. Tra i capelli biondi c'era ora rosso, eri come Linsen, come la nostra lepre ferita. C'era sangue nei tuoi ricci d'oro, Loras, ma io non ero un guaritore, io non ero capace di curarti. Ancora una volta, non ero proprio come te. A differenza tua, io ero capace di Vedere. Ma non agivo, amico mio... non potevo. Mi rimproverai, mi dissi di essere sovrappensiero, di avere quella fantasia così fervida che tutti mi invidiavano, anche tu. E tanto bastava per essere leggermente più sicuro, meno in ansia di quanto già non fossi: era un sogno, anzi un incubo. Ma sogni ed incubi non si fanno ad occhi chiusi, Loras? Te lo chiedevo spesso, infilando la domanda nei momenti anche meno opportuni. Io aprivo gli occhi, io vedevo ad occhi aperti. Avrei dovuto capirlo già allora, avrei dovuto chiedere alla nonna, lei che sapeva, lei che avrebbe saputo spiegarmi meglio. Lei, nonna Adeline, che avrebbe potuto capire ed intervenire... in tempo. Mi manchi, Loras. Quando Linsen tornò da noi, quel giorno estivo così caldo, così soleggiato, eravamo da soli ed eravamo felici, tanto felici. Lenticchia ci aveva ritrovati, era spuntata allegramente dal bosco, non ferita, non sanguinante, non sporca: era viva, era con noi. E la rincorremmo per tutto il bosco, senza preoccupazione, perché avremmo dovuto? Il pozzo al centro del parco di Cork, accanto le nostre case non poi così vicine, come dicevo sempre, era il punto perfetto per girarci attorno, come in una gara senza capo né coda. "Oliver, prendimi, prendimi!" gridavi. Ed io correvo, correvo veloce, correvo sempre più. Non avevo forze, ma correvo, perché il mio migliore amico me l'aveva chiesto e non avrei potuto deluderlo. Così correvo, ma vedevo e ricordavo. Il volto pallido, il corpo fermo, lo sguardo spento, l'azzurro violato, infine il sangue, c'era sangue nei capelli d'oro. "Oliver, sono qui!", dicesti.
E la lepre, nostra amica, era saltata sul bordo del pozzo, così anche tu, così anche io. "Fai attenzione, Loras", fai attenzione, fai attenzione... ma non c'era tempo, non c'era tempo. Non per te, non per me. Linsen parve capire prima di entrambi, perché quando andò via, non si volse indietro neanche una volta. Precipitammo nel buio, nel pozzo, per una spinta, per un gioco, per chissà cosa. E io avevo tempo, perché lo vedevo. Tu avevi finito il tuo, perché non ero io a saper curare, non ero io. Ed ora che non entro neanche in un'infermeria, ora che al pensiero di essere visitato sono un fascio di nervi in tensione, ora che capisco, ora mi accorgo di quanto grande sia stato il mio errore, quanta la mia distrazione. Oggi comprendo il mio rimpianto. Nel pozzo dei desideri tramutati in orrori, nel pozzo distrutto, pietra su pietra, senza memoria, solo possibilità e speranza di dimenticare quel giorno. Ma io vedo, Loras. Allora non potevo capire per davvero, oggi posso farlo.
"Oliver, tocca a te", disse mia madre. E nella giornata in tuo onore, quel funerale simbolico, piansi le mie lacrime, io che mai piango, io che voglio essere sicuro e forte come te, amico mio. Piansi le mie lacrime e dalle stesse, sulla scia del sortilegio di mia madre, nacquero dei fiori. Petali d'oro, Loras. Le Calendule rivestirono il pozzo infranto, pezzo dopo pezzo, pietra dopo pietra. Un manto arancio, color del sole, come i tuoi ricci, come i tuoi capelli. Ma c'era sangue su quel rivestimento, c'era il tuo sangue, sempre ci sarà. Linsen non è mai più tornata. Ora stringo tra le mani un petalo, unico superstite, di una calendula che ho già strappato, divorato dalla furia dei ricordi, impaurito dalla tempesta che ogni volta, ogni anno, in questo giorno mi travolge. "Oliver, ti presento il nostro vicino di casa", disse mia mamma: in questo giorno, come se non fosse passato neanche un istante. E tu sorridesti, Loras, già sicuro di un futuro che conoscevi più di me, più di noi, più di tutti. Ed io, imbarazzato, accennai soltanto un saluto con la mano. "Saremo sempre amici, Oliver?", chiedevi di continuo. "Sempre", rispondevo. Sempre, rispondo ancora. Mi manchi, Loras. La calendula scivola via, unico petalo d'oro, là dove un tempo sorgeva il pozzo dei desideri, il pozzo degli orrori. E io vedo, amico mio. Io ti vedo, Loras. Io vedo.
A Loras, quello vero, che non dimentico.
E ad una persona speciale, un'amica speciale.
A Sophie Armstrong, con tutto il mio affetto.