Calendule

« Older   Newer »
  Share  
view post Posted on 23/3/2018, 13:34     +4   +1   -1
Avatar

Group:
Studente sotto Esame
Posts:
19,264
Reputation:
+2,955
Location:
TARDIS

Status:


Lo vide esanime contorcersi nel suo sangue e formulò allora una promessa:
il ricordo del lutto sarebbe durato in eterno, e il sangue diventato un fiore
- Metamorfosi, vv. 731-739; Ovidio.

Ormai vergine dell'Amore di cui era divina,
la stessa Afrodite pianse lacrime di dolore; e da quelle, fertili di vita,
già nascono petali color dell'oro, ciò che il tempo nominò calendule.
- Il Pianto della Dea; Anonimo.

vDT8cuB


Oliver, ti presento il nostro vicino di casa.
E non era vero, non lo era affatto. Abitavi ad un angolo di strada, troppo lontano per essere "vicino di casa", troppo distante per concedermi il piacere di crederlo. La prima volta che ci siamo incontrati, Loras, non riuscì ad apprezzarti come avrei dovuto: avevi un naso a patata così buffo, gli occhi curiosi forse più dei miei, ma quello che non sopportavo di te, più di ogni altra cosa, era il tuo modo di esprimerti, di comportarti, perfino di muoverti. Non eri elegante, non quanto me; eri sicuro, più di me, più di tutti noi. Camminavi come se avessi vinto il miglior trofeo del paese; eri fiero di te stesso, orgoglioso anche ad un'età così tenera, così giovane. Eri padrone della tua storia, del tuo presente, del tuo passato, di sicuro del tuo futuro: volevi essere un Medimago e ci saresti riuscito, tu più di chiunque altri.
Ricordo ancora come curasti quella lepre ferita, quella che trovammo insieme nel giardino di zia Adele. Aveva il musetto scuro, ma non tanto, non tanto da nascondere il fatto che fosse sporco di sangue. Era ferita, lo ricordo bene; e tutti noi, in quel momento, corremmo dai nostri genitori.
Mamma, mamma, c'è una lepre che sanguina! Mamma, mamma, per favore, fai qualcosa! Era paura o forse cosa? Non ne sono ancora sicuro, ma nessuno di noi si comportò in modo coraggioso, come avremmo dovuto. Corremmo via, chi a destra e chi a sinistra, diretti ognuno nel luogo più accogliente della zona: il bosco non era più immacolato, l'innocenza del gioco era stata strappata via, perché c'era una lepre ferita. E quella macchia rossa, così viva, così nitida, era sinonimo di pericolo per ciascuno di noi. Tu scoppiasti a ridere, non posso dimenticarlo. E più incuriosito che vinto dal coraggio, attesi. Tornai indietro, perché non mi capacitavo di come si potesse ridere in una situazione del genere; non piangere, non per forza, ma perlomeno un tremito, un giramento, una vertigine che potesse essere tale, anche se minima. Tu invece ridevi, ridevi come se la scena - quel povero leprotto - avesse in sé qualcosa di bizzarro, di buffo, di unico. Ma non faceva ridere, non era divertente. "La chiamerò Linsen", dicesti. E non mi fu chiaro in nessun modo, solo con il tempo compresi che Linsen, quel nome sì strano (di sicuro più del musetto sporco di sangue), significasse "Lenticchie" nella lingua che ti apparteneva. Linsen, che ingenuamente coniugasti al plurale, ma che traducesti per noi al singolare. Ancora oggi mi chiedo perché quell'assonanza: per il pelo scuro e marrone oppure per gli occhietti vispi, cerchiati di stanchezza, pronti a socchiudersi una volta e per tutte? Non so dirlo, vorrei tanto riuscirci. Allungasti la mano verso il musetto della bestiola: aveva paura, tremava tutta; ma tu no, Loras, tu non tremavi neanche un po'. E parve che il riflesso del sole divenisse più nitido, solleticasse il palmo della tua mano, girasse tra indice e pollice fino a scappare via, così com'era caduto dal cielo. Subito dopo, il musetto della piccola lepre non era più rosso, non era macchiato, non era graffiato: Linsen stava bene, era guarita. Saltellò via, non prima di godere di un'ultima carezza da parte tua.
"Oliver, e tu non vuoi carezzare Linsen?", mi domandasti. E io volevo, Loras, volevo davvero; e nella mia mente vorticavano preoccupazione e stupore, insieme, di pari passo. E se avvicinandomi, Linsen scappa via? E se toccando la bestiola, la ferita torna a galla? Non avanzai, restando inconsciamente fermo, in piedi a neanche un metro di distanza, come mero osservatore. Ricordo di averti visto deluso, Loras, e quell'espressione mi tormenta ancora. Quando il giorno dopo ci incontrammo, però, era come se non fosse successo nulla: non per te, non per gli altri che ripresero a giocare, non per il bosco che tornò ad essere il nostro luogo preferito, senza più leprotti feriti o sanguinanti. Ma per me, Loras, per me cambiò tutto. E iniziai a vederti, Loras, iniziai a vederti. Eri sicuro di te stesso: più di me, più di tutti. Camminavi a passo lento, certo, cadenzato: non avevi fretta, e perché - a quell'età, nove anni - avresti dovuto averne? Non c'era fretta nel tuo andamento, tanto bastava per ammirarti e, lo ammetto, per esserne geloso. Non ho mai avuto la stessa fiducia che traspariva nel tuo modo di fare, di agire, di vivere. Tu che eri pieno di energia, io che ero pieno di allegria, entrambi inebriati dalla spensieratezza che solo i bambini possono custodire ancora. Ed iniziai a vederti. Eri bello, Loras, più di tutti noi, più di me. I capelli lunghi, ricci, di un biondo simile all'oro. Eri splendente, radioso, felice. Sapevi guarire con il solo sfiorare della mano, sapevi guarire con il tuo sorriso anche il più triste tra tutti noi. Non c'erano mai rimpianto o delusione nel tuo sguardo: occhi azzurri, color del cielo, chiari più delle acque del fiume Lee. Ed eri bello, Loras, tanto da esserne geloso a mia volta. "Noi siamo amici, Oliver", dicevi sempre. E lo eravamo, lo eravamo davvero. "Saremo sempre amici?", aggiungevi, come ad avere una prova non necessaria, una conferma da parte mia. Annuivo, annuisco ancora. Saremo sempre amici, ripetevo. Lo siamo ancora, lo siamo davvero. Ma io ti vedevo, Loras. Io cominciavo a vederti, amico mio. E nell'azzurro dei tuoi occhi non c'era più la stessa luminosità, la stessa sicurezza, la stessa speranza; le guance non erano tinte di rosso, ma di bianco, eri pallido, pallido come non mai, pallido come il fantasma nella cantina di Patrick. Io ti vedevo, Loras. Tra i capelli biondi c'era ora rosso, eri come Linsen, come la nostra lepre ferita. C'era sangue nei tuoi ricci d'oro, Loras, ma io non ero un guaritore, io non ero capace di curarti. Ancora una volta, non ero proprio come te. A differenza tua, io ero capace di Vedere. Ma non agivo, amico mio... non potevo. Mi rimproverai, mi dissi di essere sovrappensiero, di avere quella fantasia così fervida che tutti mi invidiavano, anche tu. E tanto bastava per essere leggermente più sicuro, meno in ansia di quanto già non fossi: era un sogno, anzi un incubo. Ma sogni ed incubi non si fanno ad occhi chiusi, Loras? Te lo chiedevo spesso, infilando la domanda nei momenti anche meno opportuni. Io aprivo gli occhi, io vedevo ad occhi aperti. Avrei dovuto capirlo già allora, avrei dovuto chiedere alla nonna, lei che sapeva, lei che avrebbe saputo spiegarmi meglio. Lei, nonna Adeline, che avrebbe potuto capire ed intervenire... in tempo. Mi manchi, Loras. Quando Linsen tornò da noi, quel giorno estivo così caldo, così soleggiato, eravamo da soli ed eravamo felici, tanto felici. Lenticchia ci aveva ritrovati, era spuntata allegramente dal bosco, non ferita, non sanguinante, non sporca: era viva, era con noi. E la rincorremmo per tutto il bosco, senza preoccupazione, perché avremmo dovuto? Il pozzo al centro del parco di Cork, accanto le nostre case non poi così vicine, come dicevo sempre, era il punto perfetto per girarci attorno, come in una gara senza capo né coda. "Oliver, prendimi, prendimi!" gridavi. Ed io correvo, correvo veloce, correvo sempre più. Non avevo forze, ma correvo, perché il mio migliore amico me l'aveva chiesto e non avrei potuto deluderlo. Così correvo, ma vedevo e ricordavo. Il volto pallido, il corpo fermo, lo sguardo spento, l'azzurro violato, infine il sangue, c'era sangue nei capelli d'oro. "Oliver, sono qui!", dicesti.
E la lepre, nostra amica, era saltata sul bordo del pozzo, così anche tu, così anche io. "Fai attenzione, Loras", fai attenzione, fai attenzione... ma non c'era tempo, non c'era tempo. Non per te, non per me. Linsen parve capire prima di entrambi, perché quando andò via, non si volse indietro neanche una volta. Precipitammo nel buio, nel pozzo, per una spinta, per un gioco, per chissà cosa. E io avevo tempo, perché lo vedevo. Tu avevi finito il tuo, perché non ero io a saper curare, non ero io. Ed ora che non entro neanche in un'infermeria, ora che al pensiero di essere visitato sono un fascio di nervi in tensione, ora che capisco, ora mi accorgo di quanto grande sia stato il mio errore, quanta la mia distrazione. Oggi comprendo il mio rimpianto. Nel pozzo dei desideri tramutati in orrori, nel pozzo distrutto, pietra su pietra, senza memoria, solo possibilità e speranza di dimenticare quel giorno. Ma io vedo, Loras. Allora non potevo capire per davvero, oggi posso farlo.
"Oliver, tocca a te", disse mia madre. E nella giornata in tuo onore, quel funerale simbolico, piansi le mie lacrime, io che mai piango, io che voglio essere sicuro e forte come te, amico mio. Piansi le mie lacrime e dalle stesse, sulla scia del sortilegio di mia madre, nacquero dei fiori. Petali d'oro, Loras. Le Calendule rivestirono il pozzo infranto, pezzo dopo pezzo, pietra dopo pietra. Un manto arancio, color del sole, come i tuoi ricci, come i tuoi capelli. Ma c'era sangue su quel rivestimento, c'era il tuo sangue, sempre ci sarà. Linsen non è mai più tornata. Ora stringo tra le mani un petalo, unico superstite, di una calendula che ho già strappato, divorato dalla furia dei ricordi, impaurito dalla tempesta che ogni volta, ogni anno, in questo giorno mi travolge. "Oliver, ti presento il nostro vicino di casa", disse mia mamma: in questo giorno, come se non fosse passato neanche un istante. E tu sorridesti, Loras, già sicuro di un futuro che conoscevi più di me, più di noi, più di tutti. Ed io, imbarazzato, accennai soltanto un saluto con la mano. "Saremo sempre amici, Oliver?", chiedevi di continuo. "Sempre", rispondevo. Sempre, rispondo ancora. Mi manchi, Loras. La calendula scivola via, unico petalo d'oro, là dove un tempo sorgeva il pozzo dei desideri, il pozzo degli orrori. E io vedo, amico mio. Io ti vedo, Loras. Io vedo.


A Loras, quello vero, che non dimentico.
E ad una persona speciale, un'amica speciale.
A Sophie Armstrong, con tutto il mio affetto.
 
Top
view post Posted on 22/10/2018, 15:29     +1   -1
Avatar

Group:
Studente sotto Esame
Posts:
19,264
Reputation:
+2,955
Location:
TARDIS

Status:


La sfera di cristallo che Fred mi ha regalato lo scorso Natale è tra le mie mani ed è calda, è così calda. La superficie trasparente sembra scottare come la porcellana di una tazza fumante; per poco non mi viene da pensare che da un momento all'altro possa esplodere, distruggersi in tanti mille frammenti e poi chissà cosa, chissà cosa ne verrà fuori. Il suo interno è invisibile, è confusionario, è come nebbia su nebbia agli occhi degli altri. "Herbelia, avvicinati" le ho chiesto questa mattina; "cosa te ne pare, cosa vedi?" le ho chiesto ancora. Una prova che sapevo che non poteva superare, un esame che non avrebbe neanche dovuto prendere in considerazione. Quando di rimando ha percepito soltanto il pallore più asfissiante, Herbelia mi ha osservato di sottecchi, un po' incuriosita e di gran lunga divertita. Credeva che stessi studiando per Divinazione, per l'incantevole professoressa Morgenstern. Ma qui non c'è fascino, Herbelia. Qui non c'è bellezza, amica mia. Avrei voluto parlarle, spiegarle, rivelarle ogni cosa. Eppure, la bocca tirata, il sorriso mesto, infine un cenno del capo a ringraziarla lo stesso, per qualsiasi cosa avesse detto, per qualsiasi cosa potesse immaginare di avermi consigliato. Le ho sorriso, gentilmente, e lei mi ha salutato con un bacio sulla guancia. Herbelia è così carismatica che mi verrebbe voglia di stringerla in un abbraccio fraterno, senza fine, senza mai lasciarla andare. Oggi però non cercavo lei. Scriverlo mi porta rancore e un certo dispiacere, ma non avrei parole diverse per essere più sincero. E mentre lo sguardo si fossilizzava sulla Sala Comune in movimento, mentre le mani stringevano ancora quella sfera così fasulla, così meschina per me soltanto, più il cuore attendeva il suo ingresso. Cercavo Lavander, cercavo lei. Perché in un modo o nell'altro, quando tutto va giù di per sé, senza possibilità di alcun ritorno, lei è la sola strada da percorrere. Perché Lavender è un'amica, tra le più preziose, le più vicine, la migliore. Diventa una maledizione la consapevolezza di averle affidato un peso peggiore di qualsiasi altra cosa, più pesante ed indigesto di quanto entrambi possiamo anche solo lontanamente immaginare. Ma lei è ancor più resistente, è ancor più tenace, determinata, forte. Cercavo lei, quando Herbelia è comparsa dal ritratto ad ingresso; e ora che la vedo andare via, ora che la Signora Grassa scambia qualche parola cortese con quella ragazza così gioviale, così vivace e buona, soltanto ora sento in me, ad altezza petto, la meschinità di uno spirito che non mi appartiene più. La sfera di cristallo, mi ripeto, è il dono più brutto che abbia mai ricevuto. E se non potrò mai rivelarlo al mio migliore amico, se Fred non dovrà mai saperlo, è in silenzio che ne pago la considerazione più chiara per me. La giro da un lato e dall'altro, strofinandola con indice e pollice, premendone la superficie così scottante; non era calda per Herbelia, non mostrava nulla, era una pioggia nebulosa custodita al suo interno come un Incanto Atmosferico andato a male. Ma quando il pianoterra si svuota, Diario; quando gli ultimi studenti corrono in dormitorio, in biblioteca, in Sala Grande per cenare, è solo allora che la calma si fa strada in me sulla scia del crepitare delle fiamme del camino centrale. Scoppiano in cenere e scintille vive, mentre il calore non attivo, grazie ad un Freddafiamma che ho castato io stesso questa mattina - come ogni mattina -, mi sembra comunque espandersi per tutto l'ambiente, fino a cogliermi alla sprovvista. La sciarpa vola via dal mio collo, ho caldo, ho troppo caldo. Infine la sfera mi scivola lontana, la fermo con la mano sinistra, finalmente, con un riflesso da Cercatore, come se quella fosse appena diventata il mio Boccino d'Oro. Non sento vittoria, però, soltanto la certezza di non ritrovare nebbia, non ritrovare confusione, non ritrovare il vuoto che Herbelia ha visto di persona; perché al mio sguardo anche meno attento del previsto compare una forma, una figura, un colore annebbiato, poi sempre più nitido nel cuore pulsante della sfera. Al di là del cristallo più perlaceo, la vedo. E per la prima volta, con calma, mi accorgo di non saperne nulla, di non aver collegamenti da esprimere, di non sapere chi possa essere quella stessa figura. Capelli rossi come il fuoco del camino al mio fianco, poco distante; è l'unico dettaglio che salta nitido prima di qualsiasi altro. Una donna, riesco a capire, ma il volto non mi dice nulla. Un bel volto, un volto prezioso, a tratti serio, a tratti vivo; ha qualcosa però di familiare, come se l'avessi già incontrata, forse, ma non saprei. Comunque, veste un abito che le calza a pennello, stretto al punto giusto, ma le braccia sono in tensione, lo so per certo. In qualche modo, lo percepisco. Quelle stesse braccia appena piegate, le mani nelle tasche, forse a cercare qualcosa, forse a ripararsi dal freddo. Ma la sfera brucia, ora più che mai. Scotta, dannazione. Scotta così tanto. La sposto alla mano destra, ancora una volta. Non c'è nessuno in Sala Comune, sono rimasto completamente da solo. Torno a scrutare il Tempo. Forse quel regalo non è poi così triste, non così inutile: là dove ombre, nebbia e fumo si dissolvono privi di ordine a qualsiasi altro osservatore, là per me mutano in forme, in figure, in Futuro. Quel cristallo permeato dalla stregoneria più elettiva mi permette di non subirne gli impatti, non fisicamente. Il volto è corrucciato per curiosità e solo per quella, non provo dolore, non provo sofferenza. Fred sapeva cosa cercare per me, per il suo migliore amico, per quel Veggente da strapazzo. Ma la sfera brucia ancor di più, dovrò spostarla nel palmo della mano sinistra, in un cambio che mi ricorda un allenamento di Quidditch. La figura femminile si fa più alta, più lontana, come se stesse avanzando verso qualcosa: tra la nebbia si realizza un imponente edificio, a più piani, l'uno sull'altro. Ricorda un luogo che ho già visitato e a dispetto del calore crescente, porto la sfera più vicina agli occhi: mi sembra di essere stato in quel luogo, mi rimanda a Zonko per qualche assurdo motivo. Ed allora capisco, quando la strada sulla destra mi spinge ad una memoria non troppo lontana: l'acquisto di alcune fiale di Pozioni preziose, in un nuovo abitacolo nei pressi di sentieri poco battuti dalla folla, poco illuminati. Mi avvio con i pensieri tra le strade dissestate di Nocturn Alley, ma la sfera è ferma, per un attimo rimanda un'immagine fissa, fissa nel tempo. Brucia, brucia ancora di più istante dopo istante che passa e non ho idea del perché; sembra arrossare la pelle della mano che la sostiene, così tento di recuperare la sciarpa con quella libera, sfilandola dal collo. Poco prima di avvolgerla attorno la sfera, al suo interno la visione muta ancora, repentina e senza apparente ragione. La donna avanza, guarda all'ingresso dell'edificio simile ad un albergo abbandonato, fin quando dal suo ingresso compare un'altra figura, un'altra persona. Ha i capelli corti e... castani, mi sembra. Ha gli occhiali, piccoli e rotondi, come in primo piano appare in superficie in una geometria intricata di soffi e di fumo dispersivo: muovo la sfera come a darle uno scossone, a ripristinare una certa chiarezza e per un attimo sembra funzionare, a dispetto di quanto possa apparire come una strategia quasi da gioco vero e proprio; il calore sulla pelle è così intenso da farmi digrignare improvvisamente i denti, ma qualcosa sta prendendo vita nella sfera e la scena cambia, cambia ancora una volta. Se sposto il manufatto per coprirlo con la sciarpa, mi dico, tutto potrebbe dissiparsi. Resisto per curiosità ormai ancor più viva, la sfera sembra rispondere con apprezzamento e giusto riconoscimento al mio sacrificio, perché la figura femminile si avvicina correndo a quella maschile, che si porta... un braccio, sembra il braccio sinistro sul volto, a coprire la bocca forse. Alle sue spalle c'è fumo, ora è chiaro, è più delineato, ma quando si gira di profilo, raggiunto dalla donna dai capelli rossi, noto che l'altro braccio è disteso e scoperto, senza maglietta. Stracciata, sfilata, in parte distrutta, mi rimanda l'immagine in movimento; la pelle scoperta, sulla spalla si presenta in primo piano un disegno intricato, un tatuaggio. Mi avvicino ancor di più alla sfera, le ciglia dei miei occhi sfiorano il cristallo, il calore mi arriva alla fronte e la imperla di tante sottili gocce di sudore, ma è troppa la curiosità per allontanarmi, per lasciar perdere proprio ora. Il tatuaggio acquista più chiarezza ed è... ed è...

Non è possibile.
Non è possibile, mi dico. Non è possibile. La sfera vibra, si scuote da sola come se viva per la prima volta, più di quanto non sia stata fino a quel momento; la donna stringe a sé il ragazzo con una mano, mentre l'altra solleva in alto, troppo in alto la bacchetta magica. Un'esplosione silenziosa, attutita, muta rispolvera la confusione, dal piano superiore compare fumo, altro fumo, e poi detriti, frammenti, intonaco e muro. Un'esplosione che vedo senza sentire, senza subire, senza percepire altro che quell'immagine pari ad un palese disastro senza ragione di esistere. Ma quando la sfera si colma di nebbia, la stessa che Herbelia aveva visto fin dal principio, è solo allora che il simbolo sulla pelle del ragazzo mi torna in mente. Tremo convulsamente, la sfera brucia, brucia ancora, brucia così tanto. Mi lascia un segno tanto profondo da strapparmi un grido, così la lascio finalmente cadere, riversa al suolo, seguendola mentre rotola fino ad una poltrona. Il tatuaggio, quel simbolo, quegli occhiali rotondi. Non è possibile, mi ripeto. Ma la donna, l'esplosione, il palazzo in fiamme e cenere, il ricordo di esserci già stato con lui. Ora ho capito, l'ho riconosciuto. Spingo la testa all'indietro, preda di sconforto e di rabbia, la stessa rabbia che ancora mi coglie attivamente mentre scrivo queste parole. Lo vedo, Diario. Lo vedo in pericolo, lo vedo mentre tutto si annienta, lo vedo morire. Dannazione.

Non è giusto.
Non può essere. Non deve.
Non deve andare in questo modo.
Dannazione. Non deve, mi ripeto, come se questo potesse cambiare le cose. La rabbia cresce, la scottatura si rivela vana, non ho ferite sulla pelle. Mi prende in giro ancora una volta, mi rimanda ad un dolore che so di non poter contenere. Ancora, mi dico. Ancora una volta. ll Futuro è già scritto, il Futuro è una colossale stronzata. Sento le lacrime farsi strada nel mio petto, il nervosismo bruciare sotto la pelle. Sono da solo, lo so bene. Lui morirà, so anche questo.
La sfera è viva, la sfera è viva per me.
«Dannazione.» Non posso fermarmi, non posso fermarla. Perdo la ragione, perdo il controllo. Sento un fruscio poco distante, l'ingresso della Sala Comune si apre, la Signora Grassa saluta qualcuno; recupero la sfera di cristallo caduta poco lontana e mi accorgo di quanto sia fredda. La stringo, la nascondo in tasca come l'ultima delle Piperille, infine respiro profondamente e cerco il mio autocontrollo. Dannazione, mi ripeto. «Ho bisogno del tuo aiuto.»
Ora è tornata, Diario. Lei è tornata, lei è qui. La mia amica, la mia confidente, la persona che non ha paura di me, di ciò che sono, di chi posso ancora essere.
«C'è una donna dai capelli rossi da cercare.» Forse non è troppo tardi, mi dico. Non troppo tardi. Per favore, Diario, che non sia così tardi.


KdvevZy
 
Top
1 replies since 23/3/2018, 13:34   312 views
  Share