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Il Redentore di Giobbe

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view post Posted on 27/6/2017, 15:05

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GIOBBE 19, 25-27

La strofa che ora commentiamo è stata vista agli albori stessi dell'esegesi come una cesura; come l'approdo ad una certezza e ad una speranza. Ancor oggi, pur nella distanza delle coordinate culturali e spirituali, un grande scrittore latino-americano, Jorge Luìs Borges, la citava come un emblema di fiducia. Nel racconto La casa di Asferione egli scriveva: « La solitudine non mi duole, perché so che il mio redentore vive... Se il mio udito potesse percepire tutti i rumori del mondo, io sentirei i suoi passi ».

Traduzione di Ravasi

Io, io so che il mio go'el è vivo
e, ultimo, sulla polvere si ergerà.
E poi dopo che la mia pelle avranno abbattuto
questo dalla mia carne vedrò Eloah
che lui io vedrò per me e non un altro (straniero);
i miei reni languiscono nel mio seno ...

E ovvio che il testo si rivela confuso e le varie versioni successive non hanno fatto che manipolarlo e correggerlo secondo le tesi preconcette con cui lo affrontavano.

STORIA DELL'ESEGESI. Possiamo rintracciare quasi due filoni interpretativi. Il primo legge nel testo una solenne affermazione di fede nella risurrezione ed è testimoniato soprattutto dalla scuola patristica latina da Clemente Romano ad Agostino ma con puntate anche in Origene (Comm. a Mt 22,23ss) e Cirillo Gerosolimitano. La più viva dimostrazione di tale impostazione è la Vulgata di Gerolamo la cui versione è stata normativa anche per l'uso della pericope di Giobbe nella liturgia funebre. Eccola:
25 Scio enim quia redemptor meus vivit et in novissimo die surrecturus sum

L'altro filone, più libero rispetto alla versione dei LXX e più preoccupato dell'oscuro originale ebraico, nega qualsiasi riferimento alla risurrezione, preparando così l'attuale posizione della maggioranza degli esegeti. Capofila di questa linea è il Crisostomo, legato alla scuola più « letteralista » di Antiochia. Anche Luterò, come tutta la liturgia e l'innografia cattolica e protestante, ha continuato a seguire la prima ìnterprelazione: « Io so che il mio Redentore vive e che mi desterò dalla terra e poi mi rivestirò della mia pelle e vedrò Dio nella mia carne ». Anche la spiritualità ebraica ha mantenuto la prima prospettiva. M. Buber in un contesto resurrezionistico scriveva: « (La redenzione ebraica) sola può dire come Giobbe: Io so che il mio redentore vive ».

UNA SOLUZIONE NEGATIVA. Per dare una risposta alla lettura tradizionale resurrezionistica ne dobbiamo mostrare innanzitutto l'inconsistenza, anche nelle varianti moderate più recenti. E per raggiungere questo scopo dobbiamo procedere per esclusione.
Giobbe a più riprese ha dichiarato la sua assenza totale di speranza (3,11-22; 7,6-7; 9,25...). A più riprese ha anche dichiarato l'irreversibilità del cammino che porta allo Sheol (7,9-10; 10,21; 14,20; 22; 17,1.13-16; 21,23-26), anzi in 16,18-22 ha esplicitamente richiesto un aiuto immediato prima sia troppo tardi. Se ora egli mutasse bruscamente opinione, il nostro passo diverrebbe il vertice del libro e la sua chiave di soluzione e dovrebbe illuminare il resto del dialogo punteggiandolo di riferimenti. La cosa però non avviene e l'ipotesi si rivela fragile.

4. UNA SOLUZIONE POSITIVA. Con molti esegeti riteniamo che esista una sola via praticabile. Ed è la più semplice: Giobbe afferma con forza la sua speranza di vedere Dio manifestarsi prima della sua morte come difensore del suo diritto. Prima Giobbe aveva invocato la terra perché non coprisse il suo sangue lasciandolo gridare (16,18), ora invoca il vendicatore del suo sangue nella certezza che è « vivo » e può ascoltare la sua richiesta. Più che la questione della morte a Giobbe sta a cuore la questione della giustizia che deve ora attuarsi « prima che me ne vada per una via senza ritorno » (16,22). Dopo essersi augurato nei versetti precedenti (vv. 23-24) che almeno la storia successiva riconosca la sua innocenza, Giobbe intravede all'improvviso una certezza più forte di quella delle epigrafi storiche: Egli sa che il suo difensore esiste (v. 25a). Egli sa che il suo difensore entrerà in azione, anche se tutti finora l'hanno irrimediabilmente condannato: ultimo, si ergerà sulla terra (v. 25b). Egli sa che, sia pur in articulo mortìs, egli vedrà questa arringa difensiva di Dio nei suoi confronti: « Anche con questa pelle in rovina, anche senza la mia carne, io vedrò Dio». È questa la certezza intoccabile ribadita con fierezza: « Io, io lo vedrò e i miei occhi lo contempleranno non da straniero » (v. 27). Questa interpretazione conserva il testo originale e soprattutto tiene conto del genere letterario giuridico entro cui la strofa si svolge.
Il personaggio centrale della strofa è senz'altro il go'el con cui ci siamo già incontrati durante l'immenso contendere di Giobbe (16,19). Il termine nel diritto sociale indica la persona che vendica l'omicidio di un parente sulla base dell'etica del taglione (Dt 19,16; Nm 35,9ss), riscatta i beni familiari alienati (Lv 25,15.47ss; 27,13ss; Rut passim) e da una posterità al parente morto senza prole sposandone la vedova secondo la legge del levirato (Dt 25,5-6). Applicato a Dio, il termine rivendica una vera parentela, un'alleanza di sangue tra Dio e Israele per cui il Signore si impegna a liberare il suo popolo dalla schiavitù d'Egitto (Es 6,6; 15,13), dall'esilio (Gr 1,34), dalla diaspora (Is 43,1; 44,6.24; 48,20; 52,9: è un vocabolo caro al Secondo Isaia. Applicato a Dio, il termine rivela una nuova dimensione, il vendicatore del sangue diventa il difensore della giustizia (Gr 50,34; Pr 23,11; Sl 119,54; Is 41,14).
Questo go'el è haj « vivo », è pronto ad entrare in azione. Il titolo non è solo teologico, destinato dall'apologetica anti-idolatrica ad esaltare la personalità di Dio contro la materialità degli idoli-oggetto, ma è soprattutto giuridico, usato nei giuramenti solenni anche dallo stesso Giobbe (27,2; cfr. Gdc 8,19; 1 Sm 14,39.45; 2 Sm 2,27; 1 Re 1,29; 2 Re 2,2.4.6; 2 Cr 18,13; Ru 3,13; Gr 4,2; Os 4,15 etc.). L'intervento di Dio sarà, quindi, dinamico ed efficace. Il go'el si leverà (qwn) come il testimone o l'avvocato difensore nei processi in difesa dell'assistito ingiustamente accusato (Sl 27,12; 35,11; Dt 19,15-16; So 3,8). Ma l'arringa di Dio sarà quella definitiva e decisiva.
Infatti il go'el si alzerà come 'aharon, «ultimo», dopo tutti i pronunciamenti negativi degli amici: un certo senso l'Autore anticipa sulle labbra di Giobbe il vertice del dramma, la grandiosa deposizione finale della teofania conclusiva (cc. 38-42). Il senso non è, perciò, escatologico come ha inteso la Vg (in novissimo die) e come il termine in sé preso potrebbe suggerire, ma è quello giuridico dei testi di sfida in cui Dio si presenta come la prova definitiva, « l'ultimo e il primo » (Is 44,6; 48,12). È da notare che sulla base della terminologia mishnaica e talmudica, Pope ha proposto una resa del vocabolo con « garante » in ottimo parallelismo con go'el. Il go'el si ergerà « sulla polvere » (al-afar), cioè sulla terra, ma con una duplice connotazione. La prima è di riferimento alla condizione umana perché, secondo l'antropologia di Gn 2,7, l'uomo ha una parentela profonda con la 'afar, con la materia. La seconda connotazione è, invece, di riferimento al destino dell'uomo che, come inizia dalla polvere, così si spegne nella polvere (Gn 3,19; Qo 3,20; 12,7). Non è, quindi, un intervento metastorico ma temporale, non è escatologico ma legato alla « polvere » della terra su cui vive l'uomo. Il go'el parlerà ad un Giobbe « senza carne », ridotto magari all'estremo come aveva preannunciato il v. 20, ma ad un Giobbe ormai soddisfatto di « vedere Dio ». L'espressione, di origine cultica, ha de se il significato di « accedere al Tempio » (Sl 42-43 e il relativo desiderio di ritorno al Tempio in 42,3.5; 43,3.4). Qui, però, ha il valore teofanico presente nell'esperienza di Mosè (Es 33: « Fammi vedere la tua Gloria! »): Dio si alzerà a giustificare il suo servo davanti al mondo e Giobbe finalmente sperimenterà la sua presenza giusta e benefica.

Il go'el divino, « vivo », cioè pronto ad entrare in azione, « si alzerà » come in un dibattimento processuale dopo tutti gli altri difensori-accusatori umani (gli amici) e difenderà Giobbe ormai vicino alle soglie della morte giustificandolo davanti a tutti. Giobbe, ridotto allora a pelle e ossa, sentirà la parola giudicatrice e liberatrice di Dio. Questa speranza anticipa l'incontro finale risolutivo tra Dio e il sofferente.

Edited by Fra Roberto Brunelli - 27/6/2017, 16:22
 
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