All that I am not

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view post Posted on 26/2/2016, 09:11
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Tassorosso
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Elhena Attwater/Prefetto Tassorosso/V Anno

La lezione di Divinazione mattutina era stata particolarmente soporifera e particolarmente fumosa, in una stanzetta particolarmente calda e afosa. Gli inebrianti fumi profumati dell'incenso bruciato per la capnomanzia impregnavano non solo la stoffa del maglione, che di certo avrebbe odorato per sempre di sandalo, ma la stessa mente della ragazza, quasi che i vapori fossero penetrati nelle orecchie e, come droga, avessero infettato il cervello, alterando ogni percezione sensibile.

Elhena, portandosi una mano alla fronte per saggiarne la temperatura, si ripromise di parlare al professoressa Jackson dell'importanza di aerare con cura un ambiente, soprattutto dopo avervi impiegato sostanze semi-stupefacenti. Pensò poi a tutte le rampe di scale che l'attendevano prima di poter raggiungere la solida sicurezza del primo piano, la comodità della poltrona gialla su cui era solita accoccolarsi per leggere e lo stomaco si strinse in una lieve, ma fastidiosa morsa di nausea, accompagnata da un grugnito.
Stava per abbandonare con un piccolo salto l'ultimo gradino della rampa, mossa che l'avrebbe portata a trovarsi su una piattaforma in pietra che fungeva da collegamento tra le scale che conducevano al quinto piano e quelle che portavano al quarto, quando la rampa in questione voltò bruscamente verso destra. Per poco la Tassa non perse l'equilibrio, rischiando di cadere nel vuoto. Fare un volto di cinque piani non era assolutamente nei suoi piani giornalieri.
Sconsolata, attese, con le braccia spenzolate oltre la balaustra, finché non udì il tonfo sordo che annunciava che la rampa si era di nuovo fermata, secondo uno schema che non rispondeva ad alcuna logica se non a quella dei suoi capricci; prima che si muovesse di nuovo, Elhena si affrettò ad abbandonarla. Rimase qualche minuto ad aspettare un nuovo passaggio, battendo il piede a terra secondo il ritmo di una canzoncina sussurrata a mezza voce, ma dovette presto arrendersi all'idea che la sua sosta sarebbe stata più lunga del previsto. Si strinse allora nelle spalle, piroettò su se stessa e pensò che, già che c'era, tanto valeva sfruttare l'opportunità per passare in biblioteca a consultare quel libro di Rune che già da tempo si era ripromessa di chiedere in prestito.

Non aveva percorso che qualche metro, tenendosi il più possibile contro la parete di destra per non urtare nessuno col proprio incedere incerto, quando la udì, una voce così familiare da risultare estranea.


“Lhena, dolce, santarellina, Lhena.”

Fece un passo indietro, quasi d’istinto, come si fa quando si crede di aver visto una persona conosciuta tra la folla, mentre si passeggia per strada verso i propri molteplici impegni, e per esserne sicuri, ci si volta nella speranza che il dubbio trovi una risposta. Le mani portate alla bocca furono la naturale reazione del trovarsi faccia a faccia con l’esatta copia di se stessa. Eppure, un occhio attento avrebbe rivelato una serie di particolari che rendevano la figura altra da sé, diversa per il fatto di essere troppo uguale. I capelli di Elhena erano ben pettinati, quelli dell'Altra perfetti; le mani della Tassina avevano unghie corte e lievemente mangiucchiate, quelle dell'Altra esibivano mezzelune bianche limate al millimetro. Elhena teneva la schiena appena curva per il carico di libri, l'Altra era tanto dritta e leggera sui propri piedi che quasi non toccava terra.
Soprattutto, emanava cattiveria.

Il suo doppio non si mosse. Trasportate entrambe in una sovradimensione estranea alla realtà sperimentata dagli altri, in uno scenario sito in un altro spazio e in un altro tempo rispetto alla folla di studenti che perciò non riusciva a tangerle, si fissarono.

Elhena si riconobbe nel suo doppio e allo stesso tempo lo respinse, disgustata dalla più profonda antipatia viscerale che avesse mai sperimentato. Se si fosse affidata mente e corpo all'istinto, a quello che chiamavano istinto, sarebbe fuggita a gambe levate, lontano dall'essere che le sbarrava la strada, rifiutando ogni spiegazione a favore della quiete dell'ignoranza. Invece c'era qualcosa di ipnotico nel doppio, qualcosa di pericolosamente affascinante, come il buio denso di un baratro senza fine, che spingeva a sporgersi sull'orlo oltre i limiti della sicurezza.

Doppelganger. La parola apparve in un angolo remoto della propria mente, effimero e inafferrabile, residuo di una lettura estiva. Doppelganger. Secondo la leggenda non solo ogni persona sulla faccia della Terra possedeva un doppio che incarnava il suo esatto contrario, come se fosse stato vomitato da un mondo opposto che esisteva solo dietro allo specchio, ma incontrare tale doppio significava morte certa.


"Elhena. Lhena. La ragazza che vuole conciliare i mondi" la canzonò l'apparizione. Parlava con voce bassa e calma, strascicando le lettere e indugiando in una certa asprezza. Grondava disprezzo. C'era nelle sue frasi la freddezza del Serpentese, privato del sapore di sicurezza che accompagnava quel linguaggio ancestrale, mentre negli occhi chiari scintillava l'orgoglio che si compiace di null'altro se non di se stesso. Il Doppelganger alzò una mano fino a sfiorarle in volto, sulla guancia, in un gesto che nella sua strana tenerezza era ancora più inaccettabile. Il tocco era freddo sulla pelle, liscio come il marmo e altrettanto duro. Se le mani di Elhena erano fatte per aiutare, quelle del Doppelganger erano nate per uccidere. Erano mani che non avrebbero esitato a chiudersi attorno a un collo.

“Quando capirai che non puoi salvare tutti? Che non è giusto salvare tutti? Qualcuno deve essere lasciato indietro!"

Il Doppelganger scoppiò in una risata acuta, violenta, fastidiosa, piatta. La risata di chi si compiace della propria malvagità.

Elhena sapeva chi era, quale follia l'avesse partorita. Quando il Doppelganger affondò le unghie nel l'avambraccio e premette fino a far comparire le prime stille di sangue, fu la prova definitiva. Il sangue, infatti, prese a scorrere lungo il braccio, fino al polso, gocciolando sul pavimento, senza accennare a fermarsi, nonostante l'apparente banalità della ferita. Il Doppelganger leccò con fare osceno le dita sporche.

"Sono come tu saresti dovuto essere. Guarda! Guarda il mio sangue puro!”

Anehle – quale nome poteva essere più perfetto per il doppio – incarnava il desiderio di mantenere la purezza del sangue fino al limite di considerare la comunità magica come un insieme di nuclei i cui legami, se stabiliti, si fondavano solo su una necessità genetica. si arrivava a una situazione dove la rete di contatti stringeva sempre più le proprie maglie, degenerando in una divisione totale. Anehle portava con sé il proibito, si ergeva quale prodotto illecito della natura, la minaccia palpabile dell’incesto. Per comprenderla pensare che avesse come madre una donna diversa da Lysa Hemlock era solo la superficie di un iceberg di mostruosità, il prodotto di folli unioni in nome della purezza di sangue.

Il Doppelganger non conosceva né amore, né affetto, né comprensione e tali sentimenti erano estranei anche a suo padre, a sua madre, a qualsiasi membro della sua famiglia. Erano per lei vocaboli incomprensibili, come lo è il concetto di neve per un uomo che ha sempre vissuto nel deserto.
Questa Elhena non era mai stata tenuta in braccio, non aveva avuto nessuno a leggerle la fiaba della buonanotte, non era stata educata nel rispetto della diversità e non percepiva tutto ciò come una limitazione, ma accoglieva il proprio mondo come l’unico esistente e che avesse il diritto di esistere. Priva della curiosità che spinge ad arrampicarsi oltre al muro per vedere cosa si estende oltre, accettava con gioia meschina i propri ristretti orizzonti, primitiva nel suo non porsi domande.


“Guarda con i miei occhi, Lhena, osserva la semplicità della mia realtà! Abbracciala!”
Senza che la Tassina potesse opporre resistenza, le afferrò il polso con una presa ferrea nonostante le dita sporche di sangue, mormorò un incantesimo sconosciuto e tanto bastò perché i colori scomparissero, sostituiti dalla loro totalità – il bianco accecante – e dalla loro assenza – il nero più profondo. La visione mutò in un puro aut aut, in una successione infinita di un unico rapporto binario, in una classificazione grossolana che accettava solo il pro e il contro quale risposta. In sottofondo Anehle sibilava suadente, ricordando quanto tutto fosse più semplice. Posò le proprie labbra fredde contro l’orecchio di Elhena: “Basta fare la paladina dei deboli. Non sai nemmeno salvare te stessa. Ti complichi troppo la vita.”
Le prese il volto fra le mani, fino a coprire le orecchie della Tassina. Ormai la sua voce non aveva più nulla di umano. Eppure c’era un’insana tenerezza nel suo gesto.
“Tu … sarai … sconfitta. E non t’importerà affatto” rise, quasi con dolcezza, prima di serrarla in un bacio che parve volerla assorbire.
Fu proprio il bacio della morte, per uno strano paradosso, a scuoterla dal torpore malsano in cui era caduta. Consapevole di colpo della bocca che da lei succhiava aria e forza vitale, priva dj altro interesse se non di portarla alla rovina, lottò per liberarsi. Le dita si serrarono sul vuoto in preda agli spasmi.
Si sentiva spossata, respirava a fatica dal naso, la visione si confondeva nella macchia indistinta del viso di Anehle.

"Quante storie!"
protestò il Doppelganger, quando infine si decise a rompere il bacio, in un sussurro da brividi scandito dal suo stesso respiro.
"Lhena. Lhena, lo vedi quanto sei debole? La prossima volta non sarò tanto buona!"
" ... da dove vieni ..?" boccheggiò Elhena
"Ma non è ovvio? Da te!"
Fece dietrofront e, prima che Elhena potesse inseguirla, scomparve tra la folla che aveva ricominciato a scorrere.

La sera trovò Elhena ancora profondamente scossa, in piedi davanti al lavabo, con la testa china per evitare di incrociare lo sguardo della propria immagine riflessa, per paura che questa, di colpo, iniziasse a muoversi di volontà propria.
Sputò il dentifricio, per la quinta, la sesta volta, poi passò la lingua sulle gengive arrossate per il troppo sfregare. Eppure, non riusciva a liberarsi dal sapore che Anehele le aveva lasciato, un gusto spiacevole e difficile da descrivere, ma non dissimile di quando per errore si addenta un frutto marcio. Si disse che era stata solo una suggestione, ma i suoi gesti contraddicevano le sue parole, nello spremere il tubetto di dentifricio direttamente sulla lingua e sfregare, sfregare, sfregare.
Un rumore di piedi nudi sul pavimento la fece sobbalzare, spedendole in bocca il cuore. Non osando voltarsi, attese che una voce giungesse a pronunciare la sua condanna. Arrivò invece il tono sommesso, velato di stupore, di una concasata del secondo anno.

“Elhena? Ma ti ho vista un secondo fa in camera!”

Just because I am a pacifist doesn't mean I won't defend myself


Edited by Gwen chan - 21/3/2016, 18:13
 
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