una pagina di Antonio Lanza

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  1. schmit
     
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    da Dominique

    ho percorso tutta la strada della rinascita spirituale e fi-sica.
    Dominique è più luminosa, glielo confermo con lo sguardo dell’inguaribile innamorato che ha dimenticato di non sperare più e quando anche lei mi guarda, la potenza del suo sorriso mi rende ancora più docile su livelli celestiali.
    E’ il momento più tenero della cerimonia: assaporare l’umanità concreta. Il primo ad abbracciarmi e a congratularsi è Alfredo, poi un giovane fisico, seduto accanto a me, infine Dominique che, superando una barriera umana afferra la mia mano, supera se stessa, sfida gli eventi e mi sfiora la guancia con un bacio.
    Nel mio cuore c’è un susseguirsi di fuochi d’artificio, i miei occhi vedono stelle filanti e raggi di sole delicati. Mai, prima d’ora, ho provato la certezza di essere amato e la delusione di perderla in un attimo; lei si allontana con Alfredo, scompare.
    Ripenso alle nostre gioie segrete, ai momenti d’intesa leti-zia, ai tormenti, alle sublimi vette dell’amore e, superando l’inflessibilità imposta al mio spirito, comincio a credere che il vulcano stia per esplodere.
    Alfredo trova la sua anima gemella, una brava ragazza di Firenze, conosciuta durante i frequenti viaggi fatti con sua madre. Sono contento e non lo annoio con i miei problemi, né lo sottraggo ai suoi dolci doveri. Casa mia torna a essere il rifugio più desiderato, il giardino dove ho coltivato il fiore più bello della mia vita: Dominique.
    Lo sento vivo e profumato, di una vitalità perenne, di una delicatezza rara, un fiore da cogliere e custodire per tutta la vita.
    Inseguo il mio sogno più recondito, più atteso e fremo per-ché la porta si apra e che qualcuno mi cerchi.
    Ho lavorato molto, è trascorsa una settimana dal giorno della premiazione. Dominique non si è fatta sentire; l’ho appena vista rientrare dopo avere accompagnato Maria Rosaria all’asilo.
    Nella serata, sul tardi mi telefona, balbetta, non resisto, le chiudo il telefono.
    Sono ancora a letto ed è trascorsa un’altra notte tormentata; La porta di apre, Dominique mi chiama, mi raggiunge. Si stringe a me, ansima.
    “Tonio, cosa sta succedendo?”
    “Vorrei saperlo anch’io.”
    “Stavo impazzendo quando hai interrotto la comunicazione. Non l’avevi mai fatto.”
    “Dominique, quel filo sottile che ha legato la nostra esi-stenza si sta spezzando; forse si è spezzato.”
    “No!”
    “Non credi che ci stiamo ingannando?”
    “No!”
    “Il nostro amore è morto.”
    “Non ci credo!”
    “E che cosa è rimasto?”
    “Dimmi che non è vero!”
    “Non dobbiamo mentirci più. E’ un gioco pericoloso che porta al massacro.”
    “No, ti prego!”
    “E’ stato meraviglioso il nostro amore, vivere insieme, ma ora dobbiamo dirci addio e per sempre.”
    “No! Non può essere!”
    “Se non lo facciamo adesso continueremo ad inseguirci come le ombre, a tormentarci inutilmente, a farci del male, a desiderare sogni impossibili. Non c’è più speranza, è finita davvero.”
    “Non può finire!”
    “Non possiamo tenerlo in vita, ci faremmo solo del male; io ti ho amata profondamente, non voglio farti del male e nemmeno tu devi farne a me.”
    “Ti appartengo...sono tua...nostra figlia. Domani tornerò qui e per sempre.”
    “Domani. Quanti domani, ancora! Sei stata la cosa più favolosa della mia vita, voglio continuare a pensarti così.”
    Dominique mostra la forza della disperazione, mi stringe da farmi male; piange con dolore, desidero che sia l’ultima volta. Mi dispiace sinceramente, non sarei mai voluto apparire così determinato, mi svincolo, le afferro le braccia e la supplico di ascoltarmi.
    “Dominique, guardami! Guardami per l’ultima volta e di-ciamoci addio, per sempre.”
    “No! Non devi chiedermi questo! Io ti amo! Ho capito di avere sbagliato, ma ti amo! Non aspetterò domani, tornerò oggi stesso, dammi solo l’ultima speranza.”
    “Oggi non mi troverai più.”
    “Oggi, sì, oggi!” sembra farneticare e si avvia alla porta asciugandosi gli occhi.
    Una smorfia di dolore compare sulle mie labbra, corro alla porta, Dominique è in strada. Chiudo la porta e ho la sensazione che il mondo mi sta crollando addosso.
    Gli ammonimenti, i volti severi mi tengono inchiodato alla porta per impedirmi di uscire e correrle dietro. Mi accascio sul divano, vorrei annientare la memoria, dormire, svegliarmi senza ricordi.
    Gli amici mi attendono sulla spiaggia; Ostia non è lontana, telefono loro che li sto raggiungendo.
    Viaggio a velocità folle, avverto la necessità di circondarmi di amici, desidero compagnia.
    Mi sfogo, è caduta anche qualche lacrima. Lascio la mac-china all’ombra e avanzo sulla sabbia che scotta.
    “Siamo qui, Fortin!” qualcuno grida.
    “Arrivo.”
    “Ti sei deciso, finalmente!”
    “Sono in ritardo?”
    “Come il solito” puntualizzano all’unisono.
    “Non siate severi, ho molti impegni.”
    “Dimenticavamo che sei una celebrità.”
    “Possiamo goderci la giornata!”
    “Certamente. In acqua!”
    “L’ultimo paga il pranzo” decide il solito furbo.
    Sento l’abbraccio del mare consolatorio, mi abbandono, mi lascio trasportare con fiducia, io che non mi sono mai fidato del mare e l’ho guardato con sospetto.
    “Attento, rischi di arrostire” mi avverte Aurelio.
    Mi tuffo in acqua e scarico tanta rabbia accumulata in corpo. Raggiungo l’ombra, dopo una doccia rinfrescante.
    Si sta bene in compagnia.
    “Splendida giornata” commenta Fulvio.
    “Davvero splendida” sento bisbigliare dietro di me.
    “Hai notizie di Alfredo?” chiede Aurelio.
    “E’ sempre innamorato.”
    “E trascura gli amici.”
    “L’amore è un soffio di primavera, bisogna coglierlo al volo” dico e forse sul mio volto tornano i segni del dispiacere.
    “Lo dici quasi con mestizia. Hai dei problemi?” chiede Aurelio.
    “No.”
    Leggo sui loro volti un’evidente perplessità.
    “Ho fame” si lamenta Marta, la fidanzata di Aurelio.
    “Si mangia!”
    Il cervello sembra aver perso il desiderio di ragionare, di pensare e seguo gli amici verso le cabine. Indosso un pantalone, una camiciola e occupiamo posto sul terrazzo, sotto un fitto pergolato fiorito e profumato.
    Dominique sta salendo le scale dell’ambasciata, ha lo sguardo assente, il passo deciso.
    Il marito si libera e rimangono soli.
    “Che piacevole sorpresa!” si compiace il marito.
    “Devo parlarti.”
    “Dimmi cara. Hai gli occhi stanchi.”
    “Il sole, sarà stato il troppo sole.”
    “Sei sempre così attenta!”
    “Non è nulla.”
    “Volevi parlarmi?”
    “Sì.”
    “E’ urgente? Ci sono due persone che attendono di là.”
    “Credo di sì.”
    “Allora li faccio attendere.”
    “Ciò che sto per dirti è molto importante e ti prego non chiedermi molte spiegazioni.”
    “Consentimi di deciderlo da me.”
    “Il nostro matrimonio è stato un follia, io ho onorato il patto fino al giorno che...” si trattiene.
    “Ti ascolto, continua.”
    “Ho scoperto cosa significa amare, cosa significa essere donna, essere madre.”
    “Mi sono sforzato di renderti felice.”
    “Di quale felicità parli!”
    “Ti ho dato onori, una vita agiata, quanto potevi desiderare.”
    “Tranne farmi sentire donna.”
    “E Il mio affetto?”


    “Uno strano affetto.”
    “Comincio a capire. Non ci posso credere!”
    “Non posso più mentirti.”
    “C’è un altro uomo!”
    “E mi ama più della sua vita.”
    “Nostra figlia...”
    “Non ti appartiene.”
    “Come hai potuto farmi questo!”
    “Non me lo chiedere.”
    “Non devo chiederlo!”
    “Non posso spiegartelo.”
    “Che cosa vuoi ancora da me!”
    “Lasciarmi libera.”
    “Acconsentire al divorzio?”
    “Sì.”
    “Sei impazzita!”
    “E lasciare che Maria Rosaria venga con me.”
    “Con te!”
    “E’ mia figlia.”
    “Mia figlia!”
    “Non è tua.”
    “Potrei anche... acconsentire di... andartene... tu... devi uscire da questa casa, ma non ti permetterò di portare con te Maria Rosaria.”
    “La bambina appartiene a me. E’ mia figlia! Nessuno può impedirmi di portarla con me!”
    “Per farne un’altra... no, cosa mi succede, sto perdendo la testa.”
    “Perdonami!”
    Uno steccato spinoso si alza e li separa; il silenzio è premonitore ben più accese discussioni.
    Le volte dello studio rimbombano, raccolgono in segreto,
    l’asprezza dei toni, le suppliche imploranti, i dinieghi più decisi.
    Dominique fugge agitata, il marito cade pesantemente sulla poltrona, negli occhi i colori dell’ira e un vulcano di pensieri che preparano l’eruzione più devastante.
    Dominique sale in macchina e corre a velocità folle.
    La spiaggia è deserta, le onde del mare sono smorzate e accarezzano la sabbia.
    Aurelio versa il vino, qualcuno distratto fa rovesciare il bicchiere.
    “Porta fortuna” esulta Marta.
    “Scusami” sento dire.
    “Bagnate i polpastrelli, sarete fortunati” insiste lei. “Dietro la nuca, così, bravi” istruisce.
    Sento un tonfo al cuore e guardo lontano.
    Maria Rosaria canta, tenendosi per mano con le compagne. Sua madre la afferra sotto lo sguardo attonito della suora vigilatrice e la trascina in machina.
    “Signora!” grida la suora, invano.
    Dominique si allontana spedita; Maria Rosaria la osserva, allunga la mano. La velocità aumenta, la bimba si spaventa, piange.
    La macchina lascia il viale e infila il sottopassaggio che costeggia il fiume, torna in superficie, poi di nuovo nel tunnel.
    Dominique sta accarezzando il suo sogno, la gioia riempie la macchina, ride, piange; guarda la piccola, le stringe la mano, sbanda.
    Dopo un urto tremendo, una carambola spaventosa, la macchina si arresta. Si ode solo un debole lamento.
    I soccorsi sono immediati e all’ospedale i medici sono all’o-pera.
    Alfredo mi raggiunge a Ostia, saluta frettolosamente gli a- mici, poche parole, mi sollecita a salire in macchina.
    L’ambasciatore è appena uscito dalla sala operatoria. La piccola è morta, Dominique ha invocato il mio nome.
    “E’ stata colpa mia” mi dice. “Lei voleva te. Va’ da lei.”
    Ho paura, tanta paura.
    “Deve fare presto se vuole vederla” mi esorta un medico.
    “Dio mio!” supplico.
    Dominique si affanna a chiamarmi.
    “Dominique, amore mio! Sono qui, vicino a te.”
    “Tonio... venivo da te... l’avevo giurato.”
    “Non parlare, ti prego!”
    “Non mi scaccerai, vero? Io ti amo!”
    “Ti amo anch’io. Ti ho sempre amata.”
    “Non ci lasceremo più, vero?”
    “Mai più.”
    “La...bambina. Maria...Rosaria...dov’è?”
    “La vedrai presto.”
    “Niente ci separerà, è così?”
    “Sì, tesoro.”
    “Sarò...tua, sarò...tua.”
    Il respiro è debole, la voce fioca, lo sguardo pallido.
    Cerca la mia mano, la stringe. Mi chino su di lei, la bacio, asciugo le sue lacrime.
    “Maria... Rosaria.”
    “E’ fuori pericolo.”
    “Mi chiama, vuole me.”
    “Non devi agitarti, ti supplico!”
    “Tonio, dove sei?”
    “Sono qui, vicino a te.”
    “Non ti vedo!”
    “Dio mio, ti supplico!” invoco mestamente con un filo di voce.
    “Tonio... Ton” sono le ultime parole.
    La sua mano scivola, mi abbandono disperato su di lei, la stringo, la copro di lacrime.
    “Tonio, mi dispiace!” sussurra Alfredo.
    “No!” urlo disperatamente.
    Alfredo mi solleva, mi porta via. I due corpi senza vita sono uno accanto all’altro, su un marmo freddo, coperti da bianche lenzuola.
    L’amore, ancora più forte, il profumo di due teneri fiori mi trattiene.
    “Alfredo.”
    “ Sì.”
    “Voglio vederli per l’ultima volta.”
    Mi accontenta. Sono immobili e muti. Li guardo, li bacio, porto il loro ricordo dentro di me. Le giornate trascorrono lente e trascorro molte ore adagiato sulla poltrona e ammiro una foto. Verso sera mi affaccio al balcone e osservo il cielo. Giuseppe mi fa compagnia.
    “Signor Fortin, perché guarda sempre il cielo? Cosa vuole vedere?”
    Giuseppe ha due grandi occhi mesti, ma pieni di infantile curiosità e illuminano il mio cuore.
    “Mi piace guardare.”
    “Perché?”
    “Aspetto che si accendono due nuove stelle.”
     
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