La curiosità uccide, [Concorso a Tema: Aprile 2015]

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Neƒelibata.
view post Posted on 28/4/2015, 23:57







Corri! Corri!
Nelle orecchie riesci a sentire solo il rombo assordante del tuo cuore.
Più veloce! Avanti, scappa da loro.
I tuoi respiri affannati sono il peggior suono che si potesse levare dal silenzio della natura che ti circonda.
Gli occhi sono offuscati dalla fatica e dalle lacrime: è impossibile mettere a fuoco qualsiasi cosa, ma le gambe affaticate non intendono fermarsi, vogliono portarti in salvo, malgrado la tua mente sia pervasa dalla disperazione e ti implora di arrestarti, di porre fine a quella fuga sfrenata.

«Qui, stanco viaggiatore, deponi la tua bacchetta. Sogna il viaggio dai tuoi occhi.»

Non desideri altro che questo. Vorresti gettarti al suolo, riprendere fiato, chiudere gli occhi e addormentarti.
Solo per un po’. Che male c’è?

«Costringi le tue gambe a rallentare, sei esausto: sei solo un bambino incosciente, non sei capace di far nulla se non disperarti.»

“Joel!! Non fermarti! Dobbiamo seminarli, non cedere a loro.”


La voce di Nonno Abel si sollevò alle sue spalle, tuonando in quel silenzio soffocante, interrotto solo dai loro passi di corsa e dall'ansimare. Il bambino dai capelli rossi parve rianimarsi, scosso nel profondo dell’animo da quella voce possente, e sentì un piccolo barlume di determinazione ardere ancora nel suo cuore; seppur fosse poco più che una fiammella lontana, era l’energia necessaria per continuare la sua corsa, per trovare la forza di costringersi a lottare.
Solo poche ore prima era stato il bambino più felice del mondo, il Nonno aveva anticipato il suo regalo di Natale e lo aveva condotto allo Zoo dove aveva lavorato quando era più giovane: Joel sapeva che quello era uno Zoo speciale, che lì vi erano unicamente esemplari di Creature Magiche, provenienti da tutto il mondo.
Non avrebbe potuto desiderare dono migliore; per tutto il viaggio fremeva, impaziente di recarsi in quel luogo, per riempirsi gli occhi con le forme e i colori delle creature che, fino a quel momento, aveva visto solo nel suo immaginario in seguito ai racconti fantastici sul loro conto.
Ed ora era un incubo: correvano come dei matti oltre le recinzioni che dividevano il percorso sicuro dall'habitat degli animali magici, in fuga da qualcosa che aveva il potere di attanagliare le loro menti con la disperazione.
Non avrebbero dovuto trasgredire alle leggi, introducendosi in quei luoghi affollati da creature magiche, nascoste in ogni angolo tra la fitta vegetazione ricreata per loro; ma il Nonno non era riuscito a non accontentare la richiesta del nipotino, forte anche del fatto che conosceva quel posto, e i suoi pericoli, grazie ai tanti anni di lavoro come curatore delle creature dello Zoo.

“Solo una sbirciatina e poi usciamo.”
Aveva detto al rosso, eppure il loro animo avventuroso li aveva condotti troppo oltre, la curiosità che li accomunava si rivelò una nemica fatale: immersi in quella natura florida e rigogliosa avevano perso la cognizione del tempo, ogni angolo era una scoperta da non trascurare; così calò la sera e presto divennero prede perfette per dei Pogrebin.
L’uomo anziano aveva capito in quale trappola erano caduti, sapeva che i Pogrebin adoravano inseguire gli esseri umani e nascondersi nella loro ombra –qualora questi si fossero voltati alla ricerca degli inseguitori–, mentre trasmettevano alle prede un senso di disagio e disperazione crescente, portandole fino al punto in cui, prese dal panico, cadevano in uno stato di letargia e permettevano ai Pogrebin di cibarsi della loro carne.
Si rese conto che ormai era da troppo tempo che quei piccoli demoni russi gli stavano alle costole, alterando il loro stato emotivo e creando nel loro cuore un montante senso di disperazione.
Ormai era buio e le creature erano diventate nemici invisibili contro i quali combattere, l’unica possibilità di salvezza era quella di seminarle correndo più veloce che potevano, senza cedere un solo istante alla tremenda disperazione in cui erano capaci di farli sprofondare.
Da quanto stavano correndo? Joel non lo sapeva, aveva le scarpe totalmente inzuppate di fango e melma, era bagnato di sudore, stanco e affaticato; l'aria pareva ferirgli la bocca ad ogni respiro, sentiva il sapore del suo sangue, la gola arida e secca.
Non riusciva a fermare le lacrime, riteneva stupido continuare a correre, si disperava pensando che presto non avrebbe avuto più energie e sarebbe diventato cibo per i Pogrebin.
Pensare di morire in quel luogo era una crudele ironia: morire tra le creature che aveva sempre amato, incapace di fronteggiarle e domarle a causa della sua inettitudine come Mago.
No! Aveva ancora troppo da imparare, ancora troppe cose da vedere e scoprire!
Con un ultimo esasperato tentativo svoltò rapido a sinistra, un movimento improvviso verso un sentiero più scuro, dove la natura era così fitta che a stento si vedeva il suolo.
Percepì il terreno venire a mancare sotto i suoi piedi, chiuse gli occhi e si abbandonò alla caduta: rotolò lungo un pendio, mentre il fango lo ricopriva del tutto; sentì il sapore della terra nella bocca, alcune rocce acuminate gli graffiarono braccia, gambe e volto.
Era giunto alla fine della corsa?! Sarebbe morto battendo la testa contro una roccia, incapace di fermare quella caduta?! E i suoi sogni?! Hogwarts?! I suoi cari?!
“Mamma! Papà!”
Gridò con tutta la disperazione che aveva, invocando il loro aiuto come se potessero materializzarsi all'istante e prenderlo tra le braccia, fermando la caduta, impedendo alle rocce di tagliargli ancora la pelle delicata, al terreno di pizzicargli gli occhi.
Era un bambino che implorava ai genitori di salvarlo dalla morte: una cosa dissacrante per un pargolo di appena undici anni; nel mondo dei bambini non sarebbe mai dovuta esistere la morte, mai si doveva permettere ad un innocente di arrivare a dover fare considerazioni del genere.
Ora giaceva immobile, il suo corpicino aveva smesso di ruzzolare lungo il fianco del pendio, era disteso supino nella poltiglia di terra e acqua stagnante, in una piccola valle oscura, priva di alberi e vegetazione. Percepiva la sensazione pungente della pelle lacerata lungo una guancia, il sangue caldo che colava mischiandosi al fango marrone e puzzolente; gli occhi appannati dalla melma riuscivano appena a scorgere il cielo buio e nero che lo sovrastava, ogni muscolo del suo corpo lamentava un dolore lancinante; intuiva di essere ferito un po’ ovunque, sentiva il pizzicore delle ferite, causate dal ruzzolone, lungo tutto il corpo: il dolore era l’unica cosa che ancora lo teneva vigile e attento.
*Dove sono finito?!*
Pensò mentre fiotti di lacrime correvano giù dai suoi occhi e scrostavano lo strato di terriccio che si era formato sul volto. In compenso ora tutto sembrava più tranquillo, tutto era più silenzioso, una sorta di quiete profondamente sinistra.
Affondò le mani nel suolo e convogliò le ultime forze che aveva per farsi leva ed alzarsi, se fosse giunta la morte voleva almeno essere in piedi.
Barcollò e quasi ricadde rovinosamente, le gambe sembravano rifiutare il peso del suo corpo, eppure si costrinse a resistere; appena fu in posizione eretta si strofinò il dorso della mano sugli occhi, nel tentativo di liberarli dal fango e dalle lacrime: tutt’attorno non vi era nulla, sembrava che fosse precipitato nello stomaco di una qualche creatura; ma, quando il suo sguardo si abituò alle tenebre, scorse davanti a lui l’ingresso di una tana alta almeno quattro metri, o forse più.
Gli si formò un nodo in gola, l’abitante di quella grotta enorme doveva essere di dimensioni spropositate; involontariamente iniziò a tremare, il panico iniziò a crescere in lui: era finito dalla padella alla brace.
Si ripeté che forse non era tutto perduto, forse la bestia che dimorava in quel luogo non era stata destata dalla sua presenza; doveva crederci con tutto sé stesso visto quanto teneva alla sua giovane vita; si voltò cercando di non fare il minimo rumore, fissò il pendio dal quale era precipitato e, per quanto impossibile gli parve l’idea, camminò verso di esso. Una volta raggiunto affondò le mani nella fanghiglia, deciso a risalirlo, aggrappandosi alle pietre che spuntavano dal terreno umido, sentendo le unghie incrinarsi per la veemenza di quel tentativo assurdo di afferrare l’unica possibilità di salvezza; fece leva sulle gambe al fine di darsi la spinta necessaria per iniziare la sua rimonta verso la superficie: fu una disgrazia apprendere che i piedi affondavano nella melma impedendo ogni tentativo di fuga; ma non demorse, e, con la furia di chi si opponeva ad un infausto destino con ogni fibra del suo essere, si lanciò in altri rovinosi tentativi fin quando alle sue spalle captò una presenza, un lungo brivido di puro terrore lo scosse violentemente; non aveva il coraggio di voltarsi per dare un aspetto a ciò che avvertiva dietro di lui, con maggior foga riprese a spingersi su per il pendio: più i piedi affondavano tanto più spingeva, creando solo dei profondi solchi nel terreno, senza procurare altri risultati.

Era come un topo in trappola, che si dimenava lungo le pareti per sfuggire, inutilmente, alla sua morte.
Spinse e spinse fino a quando, ormai esausto, si convinse che era meglio conoscere ciò che sicuramente voleva ghermirgli la vita; deglutì sonoramente, poi, con gli occhi ormai traboccanti di lacrime amare, prese coraggio e si voltò: davanti ai suoi occhi apparve la titanica figura di un ragno enorme –il quale si frapponeva tra lui e la volta del cielo notturno–, ricoperto da una ispida peluria nera e padrone di ben otto occhi neri che fissavano l’inerme bambino; le zampe lunghissime e possenti sembravano alte quanto cinque umani adulti, le chele avevano preso a ticchettare con un ritmo angosciante.
*L’Acromantula!!* Il rosso gemette, era la più grossa creatura che avesse mai visto, nemmeno la sua immensa fantasia aveva conferito alla figura immaginaria dell’Acromantula simili dimensioni.
Non tentò nemmeno di afferrare la bacchetta, era troppo inesperto per affidarsi alla Magia.
Lottare sarebbe stato ridicolo, ma non volle rassegnarsi all’idea di essere nato solo per diventare il cibo di quella bestia, che ora pareva fissarlo con aria beffarda, visibilmente in estasi a causa del sangue che si era versato dalle ferite dal fanciullo.
Joel sbirciò con la coda degli occhi prima a destra e poi sinistra, alla ricerca anche del più piccolo varco verso la fuga; poi nella sua mente balenò un’idea, per quanto ripugnante e azzardata fosse: doveva tentare di passare sotto quel ragno enorme, approfittando del fatto che non sarebbe riuscito a ghermirlo con le zampe fin lì.
Se avesse ancora disposto della ragione avrebbe compreso che era una follia spingersi così vicino alle fauci dell’Acromantula, ma ormai non era più in sé, ciò che lo animava era l’accanimento con il quale tentava di aggrapparsi alla vita.
Trattenne il fiato e scattò proprio sotto le zampe della bestia, la quale emise un verso stridulo e acuto che quasi lo assordò; parve riecheggiare lungo tutta la zona, scuotere le criniere degli alberi al disopra di quella voragine, far tremare le foglie e gli steli delle piante. Si tappò le orecchie mentre correva più veloce che poteva, a pochi metri dalle fauci della creatura svoltò a sinistra, scappando attraverso lo spazio esistente tra le due zampe laterali: era riuscito a conquistare qualche minuto di vita, ma restava pur sempre in trappola, tuttavia non era schiacciato contro la parete del pendio, dunque aveva migliorato lievemente la sua situazione.
Il ragno prese a voltarsi in direzione del pargolo, eccitato ancor di più dalla vivacità della sua preda intenta in una fuga che era solo un delizioso antipasto; gli concesse di mettere altra distanza tra loro mentre fletteva le zampe pelose per prepararsi in un balzo fatale .
Nel buio della vallata solo i capelli fulvi e riccioluti del bambino spiccavano come la fiamma di una candela accesa nell’oscurità; l’intero scenario pareva colorato con le sole tonalità del nero: dal terreno fangoso, al cielo notturno, all’Acromantula stessa, che ora era più lontana ma in posa per un salto a cui Joel non si sarebbe potuto sottrarre; malgrado tale incombenza il pargolo non demordeva, continuava a correre senza meta, a destra e a manca, come una minuscola formichina impazzita. L’impeto del pianto e l’affanno della corsa quasi lo stavano soffocando, nella mente prendeva forma la terribile immagine del suo corpo smembrato e lacerato dalle fauci del gigantesco ragno, la sua carne ridotta in brandelli, la sua vita spezzata miseramente.
Inciampò in un sasso che emergeva appena dal suolo, cadde e si girò subito verso la feroce creatura, pronto ad affrontare quell’epilogo faccia a faccia.
In realtà non era pronto, ma doveva arrendersi, non c’era altro da fare.
*Addio.*
La vide balzare verso di lui e non riuscì a resistere alla tentazione di chiudere gli occhi -seppur poco prima aveva deciso di sedersi in prima fila per lo spettacolo-, si sentì un codardo negandosi la vista dello scempio; i piccoli muscoli erano tutti contratti nell’attesa di percepire l’acuto dolore finale che avrebbe stroncato quella breve vita per sempre.
“Bonnie, ti prego, no! E’ mio Nipote!!”
Il grido straziante di Abel proveniva dall’alto e ricadeva nella voragine dove Joel e l’Acromantuala stavano inscenando il dramma della morte atroce di un infante; quest’ultima parve fermarsi attratta dalla voce implorante, ma non accennò a voltarsi verso la provenienza di quel suono, restava immobile a fissare la preda disparata.
“Sono io, Abel. Per favore, lascia andare il ragazzo… Fallo per me.”
Spalancò le fauci e Joel quasi riuscì a vedere le zanne affilate brillare nell'oscurità, emise un grido di puro terrore mentre indietreggiava da seduto.
“Abel…”
Sibilò con una voce spaventosa che fece gelare il sangue nelle vene all'innocente di fronte a lei.
“…Quanto tempo è passato…”
Disse ancora, poi si mosse, saltò atterrando oltre il fanciullo e corse verso la sua tana, dissolvendosi nel buio da dove era emersa.
“Oh… Nonno…”

Furono le ultime parole che riuscì a dire prima di perdere i sensi e sprofondare in uno stato di incoscienza; l’unica cosa che lo aveva tenuto vigile e reattivo era stata l’ Adrenalina.
Ed ora, che era salvo, essa aveva abbandonato il suo corpo, prosciugato, ormai, di ogni altra energia.
Non avrebbe mai dimenticato quella notte e tutte le profonde emozioni che aveva provato, e, conscio di quell’esperienza, maturò nel suo cuore la consapevolezza di quanto egli tenesse alla sua esistenza, più di ogni altra cosa.



Edited by Neƒelibata. - 12/7/2015, 10:55
 
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