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VINTAGE TOPIC 15, Astonishing X-Men 13 e Uncanny X-Men 469: un confronto. By H.P.L.

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james not jemas
view post Posted on 29/1/2014, 11:57




Questa soleggiata, ma fredda giornata di fine gennaio mi riporta alla mente un'altrettanto soleggiata e fredda giornata di fine marzo 2006 quando il prode H.P.L. ci deliziò con questa bellissima ed interessante analisi (come tutte quelle del mai troppo rimpianto H.P.L. :respect: ) fumettistica.

Topic che potete leggere per intero cliccando qui, ma che consiglio di soprassedere iniziando subito di seguito a leggere un confronto che potrebbe anche trovarvi non pienamente concordi.
E si aprirebbe il dibattito :B):

Buona lettura e buona giornata.


H.P.L.
CITAZIONE
Astonishing X-Men 13
Joss Whedon - storia
John Cassaday - disegni

Uncanny X-Men 469
Chris Claremont - storia
Billy Tan - matite
Jon Sibal - chine

Sean Ryan, Nick Lowe, Mike Marts - editors
Joe Quesada - EIC


Per una di quelle coincidenze che rendono ancora più piacevole il mestiere del lettore di mutanti, Uncanny X-Men 469 e Astonishing X-Men 13, usciti in contemporanea, appartengono entrambi alla categoria del “numero di raccordo”.
Un numero di raccordo è un episodio collocato al termine o all’inizio di una saga: ha lo scopo di riassumere la situazione e di preparare gli sviluppi successivi. Ideale punto di partenza per nuovi lettori, è croce e delizia per i vecchi appassionati, che soprattutto nei numeri di raccordo (molto più che nei “numeri di partenza”) misurano le vere capacità di uno scrittore. Un numero di raccordo si dedica ai personaggi singolarmente, esplorando la situazione psicologica di ognuno: dice chi sono, dove sono arrivati e cosa vorrebbero fare. Per questo, un numero di raccordo li rende vivi e credibili o, al contrario, li mortifica come vecchi attori che ormai recitano senza alcuna passione.
Ebbene, quale occasione migliore per fare un confronto fra due numeri di raccordo?

Su Uncanny 469 abbiamo Chris Claremont: lo storico scrittore dei mutanti, con un piede già fuori della porta. Uno che il numero di raccordo lo ha praticamente inventato, portandolo a vette di raffinatissima scrittura. Esponente di una “scuola” ormai considerata vetusta, fatta di narrazione densa e molte parole. Reduce da un periodo creativo confuso e decisamente deludente, costellato da saghe inutili e totalmente avulse dalla contemporaneità. Negli ultimi tre numeri dell’ammiraglia mutante ha però dimostrato, con una zampata degna di un vecchio leone orgoglioso, di saper ancora dire la sua e alla grande.
Su Astonishing 13 ecco Joss Whedon, scrittore-sensazione proveniente dalla TV, un Mozart dei dialoghi, una superstar che ha fatto della propria testata, nonostante il più totale isolamento narrativo, un vero e proprio evento. Una prima saga, “Gifted”, di eccezionale freschezza, piacevolissima da leggere, splendidamente orchestrata. Una seconda, “Dangerous”, che ha rappresentato una grande delusione: scritta con puro mestiere e zero passione, pericolosamente vicina all’auto-manierismo, dilatata all’inconcepibile e chiusa da un colpo di scena quantomeno irritante.

Diciamolo subito: in termini di pura scrittura, il confronto lo vince Claremont. Più solida la sua storia, completa, perfettamente compiuta in se stessa, con una tesi di partenza che viene pienamente esplorata e risolta nel finale. Whedon, dal canto suo, schiera i propri punti di forza: dialoghi frizzanti, emozioni in cui il lettore è in grado di identificarsi con immediatezza, slang contemporaneo, una sorta di realismo quotidiano, semplice, che a Claremont non riesce mai.

Ma già l’inizio di Astonishing 13 fa storcere il naso. Un flashback che ben presto si tramuta in retcon, ovvero nella modifica retrospettiva di un dato fatto, in questo caso il ruolo di Emma Frost.
Emma Frost è stata l’idea più geniale di tutta la gestione di Grant Morrison, che ha preceduto Whedon. Partendo da un’intuizione di Scott Lobdell, Morrison ha trasformato una telepate miliardaria sadica e viziosa in una donna innamorata follemente, suo malgrado, di un pesce lesso. Per questo suo amore si è fatta umiliare, ammazzare e odiare da tutti quanti, nascondendosi dietro una maschera da stronza glaciale che solo Scott Summers e il lettore riescono a sollevare.

Nei suoi primi sei numeri Whedon ha gestito ottimamente questo personaggio, regalandole battute memorabili. Nel numero 12, tuttavia, sembrava intenzionato a negare tutto quanto, introducendo lo stra-abusato dubbio (soprattutto per gli X-Men) che in realtà Emma fosse una traditrice.
Il numero corrente sembra voler impostare una sorta di ambiguità: da un lato Emma è sì una traditrice, ma dall’altro ama Scott veramente e almeno su questo non sta fingendo. Anzi, forse stritolata dalla cosa più vicina ad un senso di colpa che abbia mai provato, non riesce a fare altro che vestire, ancora una volta, i panni della sua eterna rivale, Fenice. Con risultati che vedremo.

Ma in ogni numero di raccordo l’occhio dell’osservatore si muove da un personaggio all’altro. In questo senso, la storia di Whedon si muove fra ottimi dialoghi ma caratterizzazioni alquanto stantie. Hank McCoy che passa il proprio tempo nel laboratorio risale ai tempi del Legacy. Logan che fa il sergente nella Stanza (non più) del Pericolo è una gustosa citazione di Joe Kelly, ma da quanti numeri, fra qui e i New Avengers, Wolverine sta facendo nient’altro che la macchietta?
Assolutamente scontatissima la scena dell’incubo di Kitty: il lettore non ci crede nemmeno per un secondo al ritorno di suo padre, il colpo di scena è telefonato e gratuito, e bisogna sottolineare una certa legnosità, sia nella reazione di Kitty sia nella successiva sequenza fra i membri del Club Infernale.
A questo proposito, non depone a favore di Whedon nemmeno il suo ricorrere ad una trovatina molto debole tipica dei primi anni ‘90: l’introdurre dal nulla personaggi potentissimi che, seppur privi di alcuna credibilità, fanno fare la figura dei fessi a consolidati protagonisti. Per questo non sta in piedi la soggezione di gente come Sebastian Shaw davanti alla figura incappucciata che porta il nome di Perfection. Per certi versi, sembra di leggere una scena degli esordi degli Iniziati.
Ma Whedon si riprende nel finale.
Bello l’incontro fra Kitty e Colosso, che vale la pena di analizzare a livello di tecnica narrativa. Whedon fa un ampio utilizzo del fermo immagine, ovverosia della ripetizione di vignette identiche. Tuttavia, con leggiadra maestria, al fermo immagine fa seguire un salto narrativo: manca la scena in cui Kitty bussa alla porta di Peter. Ci siamo già spostati al momento successivo. Il coraggio di bussare alla porta, la porta che si apre, le prime parole sono lasciate alla fantasia del lettore che “completa” la sequenza.

Ed è nella “sparata” di Kitty, interrotta da un telefonatissimo bacio, così come nel calore della camera di Scott Summers, che emerge la splendida capacità di Whedon di scrivere situazioni realistiche, quotidiane. Non so dire il perchè, ma lo Scott Summers che sistema le bollette è molto più realistico e credibile di Rachel Grey che noleggia dvd. Al primo ci credi davvero. Alla seconda meno, c’è qualcosa di costruito, di artefatto.

Ed è interessante domandarsi, vista la presenza di Scott in entrambe le storie, quale possa essere considerata la sua “vera” voce. Perchè non c’è dubbio che i due Scott Summers siano assolutamente, profondamente diversi. Ma forse la differenza sta nella relazione: in Astonishing Scott è a suo agio, parla con un vecchio amico e con la sua donna. In Uncanny è rigido, nascostamente timoroso. Parla con una sua quasi-figlia, sembra avere quella paura che hanno i genitori divorziati. Ma anche con Rachel riesce ad essere caldo, presente. Certo, Claremont gli ficca in bocca tutto l’universo, come fa con tutti i suoi personaggi. Claremont non sa scrivere un dialogo semplice, quotidiano, non sa scrivere di gente che cazzeggia: per lui le parole devono sempre voler dire qualcosa, e Scott è sempre sopra le righe, a livello di massimi sistemi, di iperboli, di sensazioni così profonde che non si possono descrivere. Lo Scott Summers di Claremont è sempre stato così, fin dall’inizio. Lo Scott di Whedon invece è un geometra che rientra stanco alla sera, si siede in camera e prende in mano le bollette. E’ uno che potresti incontrare al bar, si mette una vecchia tuta e ha una splendida mimica regalatagli da John Cassaday, un viso un po’ imbronciato, la barba ispida, la bocca all’ingiù che dice molto più delle parole.

Nel mio primo articolo su Whedon ho già parlato di “vera voce” dei personaggi, sottolineando come alla perfezione dei dialoghi del creatore di Buffy non corrisponda un disegno dell’animo, una psicologia approfondita, un “sentire” riconoscibile. E’ un parere che mi sento di confermare anche in questo numero 13, soprattutto nei confronti di Kitty, Logan e Scott. Eppure, dove non arriva Whedon c’è il magico segno di Cassaday a ritrarre i personaggi, dando loro un palpitare, una vita che raramente si sono visti. Guardate gli occhi spalancati di Kitty, le rughe sotto gli occhi di Emma, il profilo a mezza luce di Scott. Questi sono personaggi vivi, con una loro vita interna alla pagina e al proprio corpo.

Chris Claremont invece, si sa, queste cose preferisce renderle da solo.
Coadiuvato da un efficacissimo Billy Tan in veste di ottimo narratore, Claremont ritrova il suo perfetto equilibrio fra dialogo, didascalia e psicologia. Se Whedon “suona” sei personaggi principali nella propria storia, Claremont ne orchestra il doppio e non ne sbaglia nessuno.
L’inizio è il più classico inizio claremontiano che si possa immaginare: camera all’indietro che rivela un interno, scandita dalle didascalie. Ma questa volta c’è una stringatezza, una concretezza che mancava da anni. E da qui in avanti, non c’è un attacco sbagliato, non c’è più la pesantezza che gravava da mesi e mesi sulle scene, non c’è traccia del manierismo claremontiano così odioso. I personaggi sono liberi, sono loro stessi, parlano se è necessario se no stanno zitti. Come deve essere.
Ma soprattutto, ogni dialogo è funzionale ad esprimere un concetto, a far procedere la storia, a ritrarre un personaggio. Bellissimo il dialogo finale fra Sam e Paige (dimostrazione di come nemmeno Chuck Austen può rovinare per sempre un personaggio), vero, concreto, plausibilissimo. Magistrale però, in tutto l’episodio, è la gestione di Alfiere.
Alfiere è il personaggio che, da X-treme X-Men in poi, Claremont non ha mai sbagliato. Ha perso le misure più o meno con tutti: da Tempesta a Sage, da Nightcrawler a Betsy. Alfiere mai. Che diamine, persino nella tremenda saga della Terra Selvaggia era l’unico a conservare il proprio carisma.
E qui Alfiere diventa l’elemento di giunzione dei vari tronconi della storia, passando da una situazione all’altra, dimostrandosi al momento la “roccia” su cui gli X-Men possono appoggiarsi, dimostrandosi l’unico con le idee chiare.
Come sempre il miglior Claremont riesce a dire le cose anche solo con due parole: osserviamo il dialogo fra Tempesta e Alfiere. La prima non riesce a nominare T’challa, e Alfiere, che lo intuisce lo stesso, risponde solo “I see”. In quell’ “I see” c’è tutto: gelosia, rassegnazione, serenità.

Ma soprattutto Claremont riesce finalmente a rendere un mood, un’ambientazione. E senza ricorrere alle sue solite, abusate soluzioni retoriche. La casa degli X-Men si è trasformata in una sorta di campo profughi sotto assedio, con le Sentinelle a sua difesa. Mai come in questo numero Claremont riesce a narrarlo con efficacia, ancor più che nei numeri precedenti disegnati da Chris Bachalo.

Uncanny 469, insieme al 467 (“24 seconds”) è la miglior prova di Claremont dall’inizio del 3rd run, sta alla pari con “Intifada” e supera i numeri con Adam Kubert del 2nd run. Ma al di là di questo, è soprattutto una storia che riporta gli X-Men verso il lettore. Cosa che Whedon con il suo Astonishing non riesce del tutto a fare.
 
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view post Posted on 29/1/2014, 13:04
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Box. Genio mutante della meccanica. Paranoico

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whedon e claremont, leggerò dopo pranzo se non mi scordo :D
 
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view post Posted on 30/1/2014, 10:37
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Box. Genio mutante della meccanica. Paranoico

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bellissimo pezzo! poi quando si parla di whedon e claremont come dicevo prima rimango "stregato"
sincerametne non ricordo proprio il numero di ucnanny in questione e non ho gli albi sottomano per controllarlo :(
comunque bell'analisi su tutti e due gli autori che evidenzia punti forti e punti deboli, anche se per Whedon ci è andato
giù pensate in certi frangenti :D
 
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harlan1982
view post Posted on 30/1/2014, 16:03




non ricordo le due storie in questione
però ricordo le sensazioni di quel periodo
un Claremont stanco e provato dai guai al cuore che aveva lasciato il segno con l'ultima zampata del vecchio leone ferito,
aumentando il rammarico per il suo ritorno che, forse in altre condizioni di casa editrice e di mercato avrebbe potuto essere davvero un qualcosa di grande
e ricordo l'astonishing di Whedon, fan fiction decompressa all'inverosimile

forse sta tutta lì la differenza tra i due
il primo è uno scrittore di fumetti, il secondo no
 
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3 replies since 29/1/2014, 11:57   61 views
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