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Pastorale gotica
Michael Wood, London Review of Books, Gran Bretagna
Il Grinta dei fratelli Coen riprende lo spirito del libro da cui è tratto il ilm. E si spinge anche oltre
In Strange fruit, Billie Holiday cantava: “Pastoral scene of the gallant South”, evocando un paesaggio di corpi linciati che diventavano “strange fruit hanging from the poplar trees”. Certo, è una versione cupa della pastorale americana. Ma se tradizionalmente il genere pastorale idealizza la semplice vita rurale, non è mai riuscito a liberarsi del tutto dello spettro della violenza e della corruzione. Il punto è quello che il critico letterario William Epson chiamava “l’inganno della sempliicazione”: la pastorale ha conservato le tracce di quello di cui voleva sbarazzarsi. Il Grinta è il divertente e violento romanzo scritto da Charles Portis nel 1968, la perfetta trasposizione del genere pastorale nel meno cavalleresco far west. Il mondo presentato nel romanzo è caricaturalmente sempliicato e ridotto ai minimi elementi. Il Grinta spinge alla massima potenza il sogno della frontiera americana, di una terra di conquista (presunta) vuota e di un mitico tempo “prima della legge”. Un mondo idealizzato
Nel libro l’illegalità più che essere una condizione storica è infatti una promessa utopica. A un certo punto lo scerifo da un occhio solo “Rooster” Cogburn è chiamato in tribunale: il giudice vuole sapere a quanti uomini ha sparato nei suoi quattro anni di servizio. Lo scerifo non è sicuro di aver capito bene: “Feriti o uccisi?”, chiede. Nessuno nel romanzo si scandalizza. E meno di tutti la quattordicenne Mattie Ross, in cerca di qualcuno che l’aiuti a trovare l’assassino di suo padre. Mattie ha sentito dire che a Cogburn non manca il fegato, e quello che sente sembra confermarlo. Questa non è l’idealizzazione mitica del west, quella che ritroviamo in qualsiasi ilm o romanzo western: il west del Grinta va decisamente oltre. È facile non cogliere l’aspetto caricaturale, ed è proprio quello che ha fatto il primo ilm tratto dal romanzo, forse intenzionalmente. La pellicola del 1969 di Henry Hathaway ha colori saturi e accesi, paesaggi da cartolina, la colonna sonora stucchevole di Elmer Bernstein. E poi c’è John Wayne vicino alla ine della sua carriera, che trasforma Cogburn in una specie di geniale mostro sacro del cinema che gioca a fare il duro ma nasconde un cuore d’oro. Rivisto oggi, il ilm non è poi così male come si potrebbe ricordare, e ha perino degli autentici tocchi dark. La scena dell’impiccagione non è potente come nel romanzo, ma il senso di festa di paese è forte e sinistro. La presenza di bambini sull’altalena a poca distanza dal patibolo è un gustoso dettaglio grottesco, così come la nota che l’albergo della città è pieno a causa della gente accorsa per assistere all’esecuzione. Ma in nulla il tono del ilm è paragonabile all’umorismo secco e misurato del narratore del libro, ovvero Mattie diventata adulta. Pensando al giudice che si è convertito al cattolicesimo prima di essere impiccato, la presbiteriana di ferro Mattie dichiara: “Se hai condannato a morte centosessanta per- sone e ne hai viste appese almeno ottanta, forse hai bisogno di un rimedio più forte di quello oferto dai metodisti”. Obbligata, dai banditi che l’hanno rapita, a falsiicare una irma si dà da fare anche se non li approva: “Non riesco a fare un lavoro scadente quando si tratta di scrivere”, commenta. Quando alla ine si trova faccia a faccia con l’uomo che ha ucciso suo padre dice: “Potete immaginare che ho provato un certo shock alla vista di quell’assassino brutto e tarchiato”. E quando i banditi sono sconitti, registra: “Di certo erano abbastanza sorpresi e non poco contrariati dall’inattesa piega degli eventi”. Non c’è una parola fuori posto, e la sua meticolosa e imperturbabile narrazione è una forma di coraggio e di resistenza al mondo che la circonda. Mattie è la versione estrema e parodica della donna come elemento di civilizzazione nel selvaggio west: a soli 14 anni è già in grado di dare ordini a tutti, compresi gli uomini attaccati alla loro indipendenza. Il tocco degli autori Il nuovo ilm dei fratelli Coen riporta la igura di Mattie alla sua potenza originale, le restituisce la voce fuoricampo, riprendendo molte delle sue battute direttamente dal romanzo. L’attrice nel ruolo di Mattie (Hailee Steinfeld) e la costumista che l’ha vestita (Mary Zophres) riescono a rendere la stranezza di una bambina precocemente matura molto meglio di quanto Kim Darby avesse fatto nel ilm precedente. Due lunghe trecce, un cappello troppo grande, lo sguardo serio e un tono grave e circospetto: Hailee Steinfeld trasmette dignità e una misteriosa autorità. Quasi tutto nel nuovo ilm è diverso: qui le tonalità cromatiche oscillano tra il ruggine e l’oro, gli interni sono trasandati, di notte c’è solo il bagliore delle candele e di giorno una luce polverosa iltra dalle inestre. Ci sono belle riprese negli spazi aperti, ma spesso le igure umane si perdono nel folto delle foreste, e i paesaggi tendono ad appiattirsi. Una certa ostilità pervade l’ambiente naturale, non si ritrova il grandioso senso di solitudine che i western tradizionali hanno sempre esaltato. Vediamo le impiccagioni molto più da vicino. I due condannati bianchi fanno pure un discorso prima di morire, mentre l’indiano ha il volto coperto da un sacco nero. Ma soprattutto c’è Jef Bridges al posto di John Wayne. I due uomini non sono poi così diversi nell’aspetto: entrambi sono malandati e vecchi, esageratamente vecchi rispetto al personaggio del libro, che dovrebbe avere all’incirca 45 anni. Ma Bridges afronta la parte rischiando molto di più. Il suo è davvero un personaggio pericoloso, autenticamente fuori controllo, non uno che gioca a fare il rimbambito. E le sue continue liti con Matt Damon, nei panni del ranger che insegue a sua volta l’assassino del padre di Mattie, sono genuini scontri tra due insicuri mascherati da coraggiosi spacconi. C’è una scena geniale (anche nel libro) in cui i due cercano di dimostrare la loro abilità con la pistola, ma continuano a mancare i bersagli. In ogni caso il ilm è più gotico che pastorale. Non è la parodia di un western, piuttosto l’analisi di alcuni difusi comportamenti statunitensi. La relazione a tre che si crea tra Mattie e i due uomini, e i loro scontri nella natura selvaggia con i banditi, hanno poco a che fare con la satira di Portis sulle convenzioni del genere western. Sono invece una nuova tappa dell’indagine dei fratelli Coen sugli individui relegati ai margini di un mondo che pensiamo di conoscere. Anche qui, come in A serious man e in Non è un paese per vecchi, ci avventuriamo nel regno dell’inspiegabile, e se la trama arriva a una soluzione inale, anche questa è più che altro una coincidenza fortuita. Infatti i Coen hanno portato una modiica signiicativa alla storia. Mattie si ritrova faccia a faccia con l’assassino di suo padre per caso, andando a prendere l’acqua. Ma nel romanzo questo succede perché l’incompetente Cogburn si è accampato molto più vicino di quanto immagini al rifugio dei banditi. Nel ilm invece i tre si sono persi, e i due uomini decidono di gettare la spugna. Ormai i banditi sono troppo lontani, irraggiungibili. È proprio in quel momento, quando la caccia è ormai terminata, che Mattie incontra il killer. La storia, già inita, sorprendentemente ricomincia. È una specie di miracolo o solo un modo per ricordarci che gli sceneggiatori sono maestri del caso e dell’imprevedibile.
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