Perché i poveri votano per i ricchi?, "LA DESTRA SOCIALE da Salò a Tremonti"

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odalisca
icon11  view post Posted on 24/4/2010, 05:33




"LA DESTRA SOCIALE da Salò a Tremonti"
di Guido Calderon



Recensione:

Populisti e postmoderni in nome del mercato

di Benedetto Vecchi


La lunga marcia della destra per conquistare l'egemonia culturale è terminata con la costituzione del Partito delle libertà e la vittoria alle elezioni del patto tra Silvio Berlusconi, Umberto Bossi e un recalcitrante Gianfranco Fini. È questa la premessa del nuovo lavoro di Guido Caldiron, ultima tappa di un attento lavoro di ricostruzione e analisi delle culture politiche della destra, sia di quella radicale che di quella «istituzionale». La tesi di fondo del volume è presto riassunta: da oltre trent'anni, tanto in Europa che al di là dell'Oceano, la destra ha compiuto un'innovazione dei suoi riferimenti teorici e della sua lettura della realtà sociale. Ma la parte più interessante di questo volume è quella dedicata all'Italia, laddove l'autore individua il collante culturale e ideologico della destra nell'attualizzazione di alcuni temi presenti nell'anticapitalismo romantico e in quello che, in passato, è stato chiamato il «fascismo di sinistra». Tesi affascinante che aiuta a comprendere come il fiume carsico del neofascismo italiano sia, talvolta, riuscito a raggiungere posti di rilevo istituzionale, ma che corre il rischio di occultare il dato più pregnante dell'attualità politica, cioè quel populismo «postmoderno» che ha nella Lega Nord e nel «cavaliere nero» le esemplificazioni più significative.

Nel laboratorio francese

Va riconosciuto che La destra sociale di Caldiron offre, come sempre nei suoi libri, una panoramica transnazionale. Ad esempio, gli Stati Uniti sono assunti come il paese che ha visto arrestarsi la lunga marcia nella conquista dello Stato federale da parte della destra repubblicana. La speranza è che, come altre volte in passato, la sconfitta di quel mix tra fondamentalismo cristiano e fede nel libero mercato anticipi un eguale esito nella vecchia Europa. Ma la prassi politica e la prassi teorica non contemplano attese messianiche. Semmai l'esito statunitense dovrebbe essere usato come una cassetta degli attrezzi per chi, da Parigi a Londra, da Berlino a Roma, lavora alla comprensione critica e alla sconfitta di quel populismo «postmoderno» che domina la scena, in forme diverse, all'Eliseo, al Bundestag, a Palazzo Chigi, mentre il candidato Tory a Downing Street non nasconde la scelta di discontinuità culturale rispetto alla tradizione conservatrice inglese.

Il libro di Caldiron prende avvio dalla Francia di Alain de Benoist, quando alla fine degli anni Sessanta questo ex-militante dei gruppi radicali della destra comincia a pubblicare i suoi scritti, all'interno dei quali c'è una presa di congedo dall'armamentario ideologico del fascismo francese per evitarne la scomparsa dalla scena politica. Al centro della riflessione di de Benoist c'è la società multietnica e l'impossibilità, dopo la sconfitta del nazismo, di riproporre il «razzismo» su basi biologiche. La superiorità dei «nativi» francesi va affermata in nome delle diversità culturali e non biologiche. Non è più il colore della pelle, secondo questo agit-prop della Nouvelle Droite, a definire le gerarchie sociali, bensì uno stile di vita, l'adesione ai valori occidentali, cioè a una comunità di popolo che contempla la differenza, ma sempre in nome della sua superiorità rispetto a altre comunità etniche e culturali.

E se la Francia è un laboratorio teorico della destra, l'Italia ne costituisce un laboratorio politico e sociale. Da buon giornalista investigativo, Caldiron ricostruisce passaggio dopo passaggio la mutazione culturale della destra, ma si imbatte su un'anomalia che, per chi scrive, va ancora compresa fino in fondo. Va detto che l'autore sottolinea come le trasformazioni produttive dei decenni scorsi hanno determinato un terremoto tanto nel sistema politico che nella realtà sociale. Ma individua nella nouvelle droite la costellazione politica e culturale che meglio lo sa interpretare. È un dato di fatto che il Popolo delle libertà si ponga questo obiettivo, ma non secondo la griglia ideologica proposta dall'autore. C'è nella Lega Nord e in molti settori dell'ex-Forza Italia una propensione a far emergere il soggetto protagonista nell'organizzazione sociale, cioè quell'individuo proprietario, figura non data nella realtà, ma esito semmai di un'azione politica che fa leva sull'intervento normativo dello Stato.

I nemici del Sessantotto

La polemica virulenta contro il Sessantotto da parte della destra italiana non va quindi interpretata come la tradizionale richiesta di ordine e disciplina. C'è anche questo, ma soprattutto il tentativo di cancellare la politicizzazione dei rapporti sociali operata da quel movimento. Una politicizzazione che ha reso infatti centrale l'«individuo sociale», relegando così l'«individuo proprietario» a custode di feroci disuguaglianze sociali. Al di là della demagogia di Giulio Tremonti contro il «mercatismo», il libero mercato rimane cioè l'alfa e l'omega di un'azione statale che deve regolamentare ogni aspetto della vita sociale, senza che questo «interventismo» normativo rappresenti una camicia di forza per la vocazione «imprenditoriale» dei singoli. Da qui la distanza della componente egemone della destra rispetto alla triade reazionaria di «dio, patria e famiglia». Da qui una accentuata propensione a un'edonismo sociale che chiede la sua legittimazione nella trasformazione dello stato in una sua agency.

Il populismo postmoderno italiano va considerato come il tentativo si ridurre a sintesi politica la costellazione sociale che ha nel nord-est e nel nord-ovest il proprio habitat. È questa vocazione a interpretare politicamente la formazione sociale costituita da lavoro operaio, precarietà diffusa e cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione a costituire la vera pericolosità della destra italiana. Il lavoro di innovazione culturale dei gruppi neofascisti è stato forse necessario, ma non sufficiente per consegnare l'egemonia alla destra. Per contrastare questo tipo di populismo occorre cioè scendere negli atelier della produzione. La comprensione del populismo postmoderno non passa cioè per Casa Pound, ma per la critica dei rapporti sociali, senza nessuna deriva economicista, sviluppando proposte che, oltre che individuare risposte alla crisi economica, destrutturi, attraverso un serrato e al tempo stesso disincantato lavoro culturale, l'immaginario collettivo che la destra sta elaborando per quella costellazione sociale.


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dall'introduzione a "LA DESTRA SOCIALE - da Salò a Tremonti"

Perché i poveri votano per i ricchi?

di Guido Caldiron


Nell'anno che segna l'anniversario del "giovedì nero" del 25 ottobre del 1929, il mondo torna a misurarsi con lo scenario della crisi (...). Immaginare un parallelo, per altro non fondato sul piano della concretezza, tra il 1929 e il 2009, significa fare i conti con una parte delle radici culturali della destra europea che seppe allora, come sta cercando di fare oggi, costruire una propria "cultura della crisi" e darsi un forte profilo "sociale" (...).
La cultura della destra nel periodo tra le due guerre mondiali fu infatti soprattutto "cultura della crisi": indicò il declino in atto e propose le sue terribili soluzioni. Gli intellettuali della cosiddetta Rivoluzione Conservatrice tedesca furono gli interpreti
più noti di quella fase della cultura europea che, anche se solo in parte, contribuì alla genesi dei fascismi continentali. Con Il tramonto dell'Occidente (Longanesi, 2008), Oswald Spengler si fece interprete di quella sorta di senso comune che cominciava a prendere piede, propugnando un rinnovamento della società a partire dai suoi valori "tradizionali" e in opposizione sia alle istanze socialiste che allo sviluppo di un capitalismo senza regole. «Comprendere se la cultura occidentale è al tramonto e quali sono le ragioni della decadenza, diventa la condizione necessaria per affidarsi a un destino di declino e prepararsi all'evento della rinascita», scrive Stefano Zecchi nell'introduzione al libro di Spengler, sottolineando che «quando il partito di Hitler prese il potere, la sua propaganda si preoccupò subito di mostrare l'inversione di un processo: contro la coscienza della disgregazione e del tramonto furono usate parole come "risveglio", "rottura", "insurrezione", per sottolineare che se l'epoca borghese stava per finire, qualcosa di nuovo stava nascendo. Il nazionalsocialismo si presentava in questo modo come superamento del nichilismo, dell'ideologia scientista del progresso e della dittatura del denaro».
Ma, anche al di là del caso tedesco, si chiede uno dei maggiori storici europei, Walter Laqueur in Fascismi. Passato, presente, futuro (Tropea, 2008), «quali settori della popolazione erano affascinati dal fascismo? Essi variavano da paese a paese, a seconda delle tradizioni politiche e delle condizioni sociali. In genere, la piccola borghesia mostrò più affinità col fascismo, specie gli individui che avevano sofferto maggiormente gli effetti della depressione». Quanto agli operai, «uno degli assiomi fondamentali del fascismo era la sua contrarietà alla lotta di classe. A un certo punto, gli elementi di sinistra nell'ideologia fascista (tedesca e italiana) vennero cassati (...) Il conflitto venne in teoria risolto con la fondazione dello Stato corporativo, la cui legge sui rapporti di lavoro collettivo proibiva sia gli scioperi sia le serrate. In Germania l'istituzione del Fronte del lavoro, col suo relativo codice, si fondava sul principio autoritario e mise fine a qualsiasi azione indipendente da parte della classe operaia».
Ma nella genesi del fascismo in Europa, c'è chi ha voluto leggere anche altro. Già nel 1972 con la pubblicazione di Maurice Barrès et le nationalisme francais (Pfnsp éditions) la prima di una serie di ricerche dedicate alle radici culturali del fenomeno, lo storico Zeev Sternhell ha avanzato la sua ipotesi che identifica nel fascismo una "nuova destra" anti-borghese e rivoluzionaria, contrapposta alla vecchia tradizione conservatrice. Così, come ha spiegato Marco Revelli nell'introduzione a Nascita dell'ideologia fascista (Baldini & Castoldi, 2002), il libro forse più importante di Sternhell, l'essenza più profonda del fascismo andrebbe cercata nello spostamento di centralità dalla "classe" alla "nazione" come nuovo "soggetto rivoluzionario": «Che qualifica, appunto, il fascismo come "ideologia di rottura" per definizione, radicalismo allo stato puro, capace di catalizzare tutte le istanze antagonistiche (...) al di là del loro fondamento materiale, sostituendo alla "rivoluzione sociale" una "rivoluzione etica" (una "rivoluzione senza proletariato") e all'inerzia deterministica delle forze sociali la potenza volontaristica dello Stato».
Ma se queste sono state le forme con cui "i fascismi" hanno cercato di intercettare nel corso del Novecento le trasformazioni sociali e le conseguenze della grande crisi della fine degli anni Venti, con quali caratteristiche "le nuove destre" cercano di darsi oggi un profilo sociale nel pieno di una nuova tempesta dell'economia internazionale?
«La crisi del movimento operaio crea condizioni favorevoli per uno spostamento verso l'estrema destra di settori interi del proletariato, in particolare di vittime della crisi o di quanti temono di diventarlo. (...) A questo punto, una domanda sorge spontanea: il movimento di Le Pen potrebbe essere capace di mobilitare dietro di sé la maggioranza del proletariato? In altri termini, potrebbe risultare capace di ricomporre, sotto la propria egemonia, un movimento operaio in crisi?». Era questo il quesito che all'inizio degli anni Novanta il filosofo e sociologo francese Alain Bihr poneva a fondamento della sua ricerca sull'exploit della nuova destra razzista del Front national nella società francese: L'avvenire di un passato (Jaca Book/BFS, 1997).
Il quesito di Bihr resta, con tutta evidenza, di stretta attualità in tutto l'Occidente, anche al di là delle evoluzioni specifiche conosciute dalla situazione francese (dove Sarkozy ha recuperato i temi cari a Le Pen costringendo alla marginalità elettorale il Fn). I crescenti consensi popolari alle destre indicano che, almeno in parte, lo "sfondamento" presso i settori del mondo del lavoro, è effettivamente avvenuto. Non nella forma apocalittica enunciata dall'intellettuale francese, ma certo in una misura che non può più essere ignorata. Per capire di quale natura sia questo successo, si devono però considerare i due elementi che lo hanno reso possibile: da un lato le trasformazioni che hanno interessato "la destra", dall'altro quelle che hanno riguardato il "mondo del lavoro". Due elementi che risultano, se osservati lungo l'arco degli ultimi trent'anni, inestricabilmente e inesorabilmente legati tra loro, fino a far emergere la constatazione che per molti aspetti "le destre" hanno saputo leggere profondamente quanto stava cambiando nella società, candidandosi a rappresentarlo. (...)
Così la "rivoluzione neoliberale", che si è andata definendo alla fine degli anni Settanta attraverso una progressiva privatizzazione e finanziarizzazione dell'economia, si è accompagnata a una sorta di "rivoluzione conservatrice" diffusa: la sua visione economica si è dotata di un potente strumento ideologico che ha ricominciato a far circolare un'idea "organica" della società all'insegna di quel "Dio, patria e famiglia" che si pensava ormai inutilizzabile dopo il 1945 e che il Sessantotto aveva contribuito a seppellire ancor più profondamente un po' in tutto il mondo.
Il percorso iniziato alla fine degli anni Settanta, e simboleggiato, pur con le loro evidenti differenze, da Reagan e Thatcher ha aperto la strada a una radicalizzazione della destra conservatrice e a un allargamento della sua base sociale, con la conquista di settori crescenti del mondo del lavoro. Questa prospettiva incrocerà alla fine del decennio successivo l'emergere di un'altra destra, quella che il politologo Piero Ignazi definisce come "estrema destra postindustriale", per indicare un fenomeno che trae origine dalle trasformazioni sociali e culturali
più recenti. Un destra "radicale" che farà soprattutto dell'immigrazione il proprio cavallo di battaglia: dal Front national in Francia alla Lega Nord nelle regioni settentrionali del nostro paese, per non citare che i movimenti più noti. Formazioni politiche che «offrono una risposta ai conflitti della società contemporanea (ed è questa la chiave del loro successo). - spiegava ancora Ignazi in L'estrema destra in Europa (il Mulino, 2000) - La difesa della comunità naturale dalle presenze straniere (da cui razzismo e xenofobia) una risposta in termini di identità all'atomizzazione e alla spersonalizzazione; l'invocazione di legge ed ordine, l'appello diretto al popolo e il fastidio per i meccanismi rappresentativi rispondono al bisogno di autorità e di guida di una società dove l'autorealizzazione e l'individualismo hanno lacerato le maglie protettive dei legami sociali tradizionali». Queste forze "anti-sistema" hanno spesso programmi sociali e economici che più che mettere in discussione l'iniquità delle formule redistributive imperanti, propugnano l'adozione di una preferenza "etnica" per l'accesso al lavoro, alla casa o, più in generale, alle risorse del welfare. Con proposte del genere, dalla Scandinavia alla Francia, passando per le Fiandre, l'Austria, l'Italia e più di recente per i paesi dell'Europa dell'Est, partiti populisti, di estrema destra e xenofobi sono diventati i più votati dagli operai nel corso degli anni Novanta.
Il convergere di una destra conservatrice e liberista sempre più radicale e di una nuova destra postindustriale e xenofoba ha dato così vita negli ultimi anni a un fenomeno inedito. Con modalità e forme che rimandano alle diverse culture politiche e storie nazionali, si è infatti andati verso la progressiva definizione di una "destra plurale", in grado cioè di tenere al proprio interno spinte e suggestioni anche molto diverse le une dalle altre e offrire rappresentanza a ampi settori della società. E' solo grazie a questa capacità di sintesi o di giustapposizione, a seconda dei casi, che le destre sono riuscite ad assumere fino in fondo il loro attuale volto "sociale", candidandosi a interpreti della crisi globale.


 
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