Alda Merini

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  1. magnific
     
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    da l'Avvenire

    3 Novembre 2009
    LA TESTIMONIANZA
    «Donna d’affetti» alla ricerca di Cristo
    Così nel 2004 l’attuale presidente del Pontificio Consiglio della Cultura presentava il «Poema della croce» dell’amica Alda Merini (Frassinelli, 2004) DI G IANFRANCO R AVASI N el 1918, in piena rivoluzione sovietica, il poeta Aleksandr Blok pubblicava il poema I Dodici e sulla sua genesi confessava: «Quando l’ebbi finito, mi meravigliai io stesso: perché mai Cristo? Davvero Cristo? Ma più il mio esame era attento, più distintamente vedevo Cristo. Annotai allora sul diario: Purtroppo Cristo. Purtroppo proprio Cristo!». Ho pensato a queste parole del poeta di San Pietroburgo seguendo l’ultimo percorso poetico di Alda Merini: col Poema della croce si compone, infatti, quel trittico che era iniziato con Corpo d’amore ed era proceduto con Magnificat. In queste tavole e in un costante ammiccamento in tante altre pagine e tappe del suo itinerario umano e letterario la poetessa milanese continua la sua ricerca del volto di Cristo. Solo che nel suo diario ideale essa non scriverebbe mai un «purtroppo« ma un «certamente, sicuramente, finalmente Cristo».

    Alda Merini il suo Cristo lo pone al centro dello spazio e del tempo in un’epifania drammatica e gloriosa, incontrandolo su quello sperone roccioso di Gerusalemme ove si consuma la sua crocifissione. Dall’alto di quella rupe lo sguardo si allarga, raggiunge la lontana Galilea e ripercorre tutta la storia di questo uomo che non ha come estuario ultimo della sua vita la tenebra d’un sepolcro ma l’alba dell’eternità e della gloria. È «il teatro magnifico della crocifissione», il «teatro della derisione«. S’addensa, infatti, sul Calvario non solo l’odio del mondo in quel duello epico tra Bene e Male che l’evangelista Giovanni rappresenta con le immagini e col linguaggio processuale. Lassù si svela anche la brutale stupidità dell’umanità che rende quella piccola altura una sorta di palco per un orrido carnevale, come annotava Luca: «Tutte le folle erano accorse a questo spettacolo» (23, 48). Non per nulla il primo titolo a cui Alda aveva pensato era provocatoriamente Il carnevale della crocifissione. Un’irrisione che prosegue nella storia se è vero che San Paolo di sé e degli apostoli dichiara: «Noi siamo diventati spettacolo davanti al mondo, agli angeli e agli uomini» (1 Cor 4, 9).

    Eppure su quel legno, attraverso il Crocifisso, si celebra un atto supremo di liberazione e di salvazione. La croce, ove si raggruma il dolore di Dio, diventa perciò segno di amore: «Dio ha espresso il suo amore per l’uomo col pianto». Cristo è «la lacrima di Dio», una lacrima che «coprì tutta la carne del Figlio». Alla croce converge anche tutto il dolore dell’uomo, tutte le sue lacrime perché non si dissolvano nel vuoto ma vengano consacrate e diventino la nuova terra promessa. Alle ondate sanguinolente di una Passione di Gesù alla Mel Gibson, Alda sostituisce l’autenticità dell’incarnazione e della redenzione nella sua sobria severità ma anche nella sua dolcezza. Quei lugubri uccelli che nel film orridamente scarnificano gli occhi dei condannati del Golgota, qui diventano segno di pietà tenera e delicata: «Tutti gli uccelli avrebbero voluto salvare una spina/ dall’iniquo compito di entrare nella pelle del Creatore/ Tutti gli uccelli abbassarono il velo/ sul volto di Maria,/ affinché non vedesse lo scempio della sua carne».

    Ed è proprio in questa scena che vediamo apparire la figura più cara ad Alda Merini dopo quella di Gesù. È Maria, la madre che non invecchia, conservando sempre la freschezza della sua verginità, che dialoga col Figlio in parole e silenzi, che riesce a indossare come «morbida stola» persino il «cencio di dolore» del Cristo crocifisso per il quale l’unico limite è che le sue braccia inchiodate non la possono più stringere al cuore. Idealmente al volto di Maria, in dissolvenza, subentra il viso stesso di Alda che è salita sull’erta del Golgota per il suo canto d’amore. Un po’ come facevano alcuni artisti del passato che amavano affacciarsi col loro profilo nelle scene della vita del Cristo che essi raffiguravano. Ed è a lei che vorrei lasciare la parola conclusiva. Lei che, dopo aver composto il Poema della croce, ha raccolto in una lettera, indirizzata a me ma idealmente anche a tutti i suoi molti amici, il senso ultimo di quel suo canto cristologico. Scriveva: «Credo che il cristianesimo e la poesia siano stati creati per la gioia dell’universo e non per le mie personali esperienze. Chissà se l’uomo disperato ha voglia di risorgere o di addormentarsi pietosamente in Dio. Io credo, io che sono volgarmente detta 'donna d’amore', di avere conosciuto, in amore, molti rovesci di fortuna, ma non voglio arrivare a Dio per queste strade: voglio prima ritrovare la gioia che ho perso per poterlo lodare all’infinito».
    Gianfranco Ravasi
     
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