Letizia Schmitz figlia di Ettore Schmitz(Italo Svevo)

racconta suo padre

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. schmit
     
    .

    User deleted


    Letizia parla di suo padre Ettore Schmitz pseudonimo Italo Svevo

    http://roma.indymedia.org/taxonomy/term/2759

    letizia svevo fonda savio
    Versione stampabile
    MIO PADRE, ITALO SVEVO
    Sab, 13/09/2008 - 14:44
    Autore:
    Letizia Svevo Fonda Savio
    www.sergiofalcone.blogspot.com

    MIO PADRE, ITALO SVEVO
    di Letizia Svevo Fonda Savio

    a cura di sergio falcone

    La casa della figlia di Svevo è nella parte alta di Trieste, in via Monfort. Vengono in mente gli stessi aggettivi di Saba per indicare quelle vedute di mare e di monti, le vie e viuzze di Trieste, via della Pietà, via del Lazzaretto Vecchio, via del Monte. La casa sul retro ha un ampio giardino con alberi ad alto fusto; manca ogni apparato, ma si percepisce l’ambiente dell’alta borghesia triestina. La figlia di Svevo ha lo sguardo più profondo che ricorda tanto il padre, un atteggiamento di mitezza, un parlar sommesso. Dalla voce un po’ fioca del registratore, ritroviamo questo ritratto di Svevo e del suo ambiente familiare.
    Letizia Svevo Fonda Savio è nata a Trieste il 20 settembre 1897 da Ettore Schmitz (Italo Svevo) e da Livia Veneziani. Compì gli studi nella sua città; nel 1919 sposò il triestino Antonio Fonda. Dal matrimonio nacquero i figli Piero (1920), Paolo (1921) e Sergio (1924). Tutti e tre studenti universitari quando scoppiò la seconda guerra mondiale; i primi due furono dichiarati dispersi sul fronte russo, mentre il terzo morì a Trieste il 1° maggio 1945, durante l’insurrezione contro i tedeschi. Nel dopoguerra, l’autrice di questo racconto collaborò attivamente con la madre Livia alla diffusione e alla valorizzazione delle opere di Svevo e, dopo la morte della madre (1957) e quella del marito (1973), continua da sola tale attività. Commendatore al merito della Repubblica italiana, è presidente onorario del Consiglio nazionale Donne italiane e presidente del Comitato provinciale dell’Associazione nazionale delle famiglie dei caduti dispersi in guerra.
    Si è tenuto, a Trieste, un convegno internazionale su Edoardo Weiss e sull’importanza della città per la diffusione della psicoanalisi. Con l’occasione, abbiamo raccolto le memorie di Letizia Fonda Savio, figlia di Italo Svevo, la quale ci ha fatto un ritratto dello scrittore e del suo ambiente familiare. ( s.f.)

    Il movimento psicanalitico aveva in Trieste il primo centro di diffusione. Edoardo Weiss, allievo di Freud, è il primo psicanalista italiano. Trieste faceva da ponte tra diverse culture; città di tensioni, contraddizioni, propizia allo sviluppo di caratteri introversi, nevrastenici, a tendenze autopunitive come Slataper, come Saba. Per quanto riguardava la psicoanalisi, Svevo era interessato all’indagine del sogno e degli atti mancati.
    Nella commedia La rigenerazione, che in questi giorni è rappresentata con grande successo a Trieste, evidenzia l’importanza dei sogni. Mi diceva: “Grande uomo quel Freud, ma più per i romanzieri che per gli ammalati”. E frequenti, infatti, erano i suggerimenti desunti da Freud; ad esempio, la figura del padre in Zeno con la scena dello schiaffo: è il ricordo bruciante in mio padre di uno schiaffo dato all’amico Veruda dalla madre. Ma già in Corto viaggio sentimentale (uscito postumo) il freudismo è un ricordo. Semmai papà, nell’ultimo periodo, pensava a Proust, a Joyce, alla memoria involontaria del primo, al monologo interiore e flusso di coscienza del secondo.
    Nel 1918, un mio cugino medico pregò mio padre di aiutarlo a tradurre Die Traumdeutung di Freud. Suo cognato Bruno Veneziani, afflitto da paranoia, introverso, psicopatico, genialoide, era stato in cura da Freud senza trarre giovamento dalla terapia. Un suo amico nevrotico era tornato dalla cura a Vienna distrutto e abulico più di prima. Mio padre diceva: “… Dopo anni di cure e di spese, il dottore dichiarava che il soggetto era incurabile,… ad ogni modo, una diagnosi che costava troppo”. A Jahier, che gli confidava di aver già fatto sessanta sedute di psicoanalisi, mio padre chiedeva ironico: “E sei ancora vivo?”. Aveva conosciuto Weiss che era amico di suo cognato, e che frequentava villa Veneziani; l’impatto forse era stato sgradevole per entrambi: Weiss si chiedeva se il medico psicanalista di Trieste, di cui si burlava nella Coscienza di Zeno, fosse proprio lui. Mio padre, invece, da quegli incontri derivava una seconda malattia (la prima, sempre ricorrente, come lui stesso affermava, quella di non sapere la lingua italiana), a cui si aggiungeva l’accusa di Weiss di scarsa conoscenza del metodo della psicoanalisi. Mio padre preferiva la cura nella solitudine, senza medico, in contrasto con la stessa teoria di Freud: una sorta di suggestione e autosuggestione.
    Non tutto è stato ancora decifrato nell’opera di mio padre, che oramai è esente da diritti, mentre si susseguono le traduzioni all’estero. L’Olanda è il paese che l’ha tradotto di più. In questi giorni, ho ricevuto Svevo e Joyce tradotti in giapponese, che è una lingua assai sintetica, la quale riesce a contenere in una paginetta varie pagine delle nostre. Per cui, ho chiesto alla traduttrice di indicarmi quale passaggio di Svevo corrispondesse alla tale pagina. Vivo ancora nella memoria di Svevo. In questi giorni, incapace di camminare, mi hanno letteralmente “issata” per farmi assistere in teatro a una rappresentazione de La rigenerazione.
    Mio padre si alzava alle otto, alle nove andava in fabbrica. Si coricava alle 22, leggeva fino a notte. Scriveva durante il giorno: la scrittura lo distendeva, lo calmava. A pranzo, mangiava di solito pasta e verdure cotte. Aveva la erre. Come industriale di vernici per navi, viaggiava spesso anche all’estero. Qualche volta i suoi viaggi erano dei pretesti; per esempio, quando andava a Parigi per far visita a Joyce. Quando era libero, suonava per ore il violino. Ma aveva delle mani poco adatte, e continuava tuttavia ad applicarsi con ostinazione allo strumento. In casa si viveva di musica: papà faceva parte di un quartetto familiare come secondo violino. Si parlava il dialetto triestino, un via vai di gente. Si riceveva in giardino d’estate: un prato d’erba al centro, una serra, molte piante di rose. Appena tornato dal lavoro, papà dava del pane ai passeri sotto gli ippocastani. La villa era rumorosa, per questo mia madre aveva fatto ricavare per papà uno studiolo esterno sulla terrazza al primo piano. Di una profonda calma, una tranquilla realtà quotidiana, nulla che facesse pensare alla solitudine, almeno nelle apparenze, un gusto ricorrente per i motti di spirito. Era iscritto ad un circolo, vedeva gli altri intellettuali al caffè Garibaldi e, dopo la fama, anche Bazlen, Umberto Saba. Incontri erano sempre le letture personali. Quasi mai offriva una visione del proprio interno, mai lo sguardo vitreo della tragedia.
    Mi trovavo nella nostra casa a Opicina. Arrivò un telegramma che mi avvertiva dell’incidente: l’auto con mio padre, mia madre e mio figlio Paolo, slittando sulla strada bagnata, era finita contro un albero. Dapprima, il meno grave era sembrato proprio papà; partii con mio cugino, il medico Aurelio Finzi, con un’ambulanza per Treviso; trovai mio padre con gravi difficoltà di respirazione, immerso nei cuscini: aveva riportato la frattura del femore, lesione non mortale in sé, ma il suo cuore indebolito non resisteva al tremendo choc. Per tutta la vita, aveva avuto il presentimento che il fumo (60 sigarette al giorno) lo avrebbe portato alla morte. Anche allora chiese invano una sigaretta a mio cugino e, rivolto a noi con voce già indistinta, disse: “Questa sarebbe davvero l’ultima sigaretta”. Mia madre, che era cattolica, gli chiese a bassa voce: “Vuoi pregare?”. Egli gemette: “Quando non si è pregato tutta la vita, non serve all’ultimo momento”. Non era credente né in una religione, né nell’altra. Non parlammo più: due ore dopo era spirato. Erano le due e mezzo di giovedì 13 settembre 1928. Aveva 67 anni.
    Fumatore vizioso, sempre al traguardo di ogni “ultima sigaretta”, preoccupato sempre della propria salute, il suo declino fisico si accompagnava all’ascesa letteraria. Il nipote medico lo aveva avvertito del pericolo, ma non aveva mai potuto smettere; eppure, aveva paura del fumo: tossiva, aveva disturbi per questo. Ogni anno andava a Bormio per i polmoni. E da lì tornava il giorno dell’incidente. Ma l’anno in cui morì, la mamma mi scrisse che il papà non traeva più alcun beneficio dalla cura. Quando il medico gli disse di limitare la carne, adottò una dieta vegetariana, piselli all’olio e basta… Era un malato immaginario, ossessionato dalla malattia, che era certamente un mascheramento della morte, e la sua opera gira attorno a questa protagonista. Eppure, al momento di morire conservò una stoicità da filosofo antico.
    Era stato costretto ad impiegarsi a 19 anni, quale corrispondente in lingua tedesca e francese, alla filiale triestina della Banca Union di Vienna. Ne sarebbe uscito all’età di 38 anni. Aveva sofferto della banalità della vita di banca, anche se poi dedicava le ore della sera alla lettura nella biblioteca civica, oppure andava ai concerti (la musica era privilegiata nella Trieste austriaca), e ancora la compagnia degli amici al circolo. Tuttavia, subiva una sorta di frattura nevrotica tra obblighi e aspirazioni. E poi un irrimediabile pessimismo accumulato proprio in quegli anni, il fallimento commerciale del padre, lo spettro della miseria, la morte dell’amato fratello Elio, altri lutti in casa, la morte del pittore amico Umberto Veruda.
    Aveva letto Flaubert, Daudet, Zola, Balzac, Stendhal. E assai forte era il suo interesse per Schopenhauer. Mi diceva di aver portato avanti Una vita alla luce di quelle teorie. Già adolescente era stato socio dell’associazione di Schopenhauer di cui era rimasto un convinto assertore per tutta la vita.
    Nel 1896, all’età di 35 anni, sposò mia madre Livia Veneziani e si trasferì nella villa di lei. Tre anni dopo lasciò il lavoro in banca e la collaborazione notturna al Piccolo per entrare nell’industria di vernici del suocero. Una matrimonio felice, che portò un po’ d’ordine e che modificò in parte la sua visione pessimistica della esistenza. Il destino gli accordava una tregua, una sorta di pace interiore che prima non aveva. Era un malato di nervi, con una doppia personalità, questo è certo…
    Innamorato della mamma, assai geloso di lei, non voleva turbarla, soprattutto quando lei era molto giovane (tredici anni di differenza). Non lasciava intravedere il proprio interno: ma chi legge il Diario per la fidanzata (1896) intende i dubbi, le sue angosce e paure. L’Epistolario (Dall’Oglio, 1966), l’ho letto solo dopo la morte di mia madre, che lo custodiva gelosamente.
    Nel 1899 esce da Vram il suo secondo romanzo, Senilità. Ancora una volta indifferenza del pubblico e della critica. Un romanzo in cui portava avanti la propria autoanalisi;… una lingua scarna influenzata dalla cultura tedesca e dal dialetto triestino. Il titolo si prestava a qualche equivoco. Lo stesso Joyce aveva tradotto in inglese in modo erroneo: “Un uomo che si sente vecchio”. Una anticipazione del tema della vecchiaia intesa come stagione della conoscenza e della libertà, ma anche della inettitudine; temi ripresi nella Coscienza di Zeno, in una continua alternanza di malattia e salute.
    1905 – 1915: James Joyce è a Trieste, professorino alla Berlitz School, frequenta villa Veneziani, diviene amico della nostra famiglia. Aveva 23 anni allora. Lungo e dinoccolato, viveva modestamente, sempre senza un soldo, con la tentazione dell’osteria, cambiava spesso di abitazione perché moroso. La moglie, Nora Barnacle, era ancora più strana di lui; i suoi figli nacquero qui, frequentavano le scuole italiane e, quando andarono via, parlavano tutti il dialetto triestino. Anche Joyce scriveva a mio padre in dialetto. Joyce dava lezioni di inglese in casa nostra, si era stabilita un’amicizia profonda con papà, nonostante la differenza di età; nell’Ulysses, infatti, si ispirava a papà per il personaggio di Bloom, e mia madre dava vita non so a quanti personaggi femminili, se l’irlandese ripeteva spesso che i capelli della mamma gli ricordavano il fiume biondo che passa per Dublino. Quando nel ’22 mio padre andò a trovarlo a Parigi, lo pregò di spedirgli il manoscritto di Ulysses che aveva dimenticato da noi. A Trieste, quindi, aveva scritto Ulysses e il dramma Exiles, mentre l’esperienza triestina gli avrebbe poi suggerito Anna Livia Plurabelle.
    1914 – 1918: è la “finis Austriae” e, insieme, il lento decadere di Trieste città mercantile, scelta da Maria Teresa nel ‘700 quale porto franco dell’Impero, città delle arti e delle scienze. Gli studenti andavano a Vienna a imparare la lingua tedesca, la cultura era mitteleuropea. La mia famiglia aveva scelto per me il liceo italiano pagato dal comune, anche se le quattro ore di tedesco la settimana erano d’obbligo. Mio padre, invece, all’età di dodici anni era stato mandato a Wurzburg per imparare il tedesco, lingua allora indispensabile ad ogni commerciante triestino. Mio nonno Francesco Schmitz, infatti, era un piccolo industriale nel ramo vetrario. Ma, agli studi di indirizzo commerciale, mio padre preferiva la lettura di Goethe, Schiller, Heine, Jean-Paul nella lingua originale e, ancora, i russi nella traduzione tedesca. Da giovane aveva sognato un lungo soggiorno a Firenze per apprendere la corretta lingua italiana, come Slataper e Stuparich e i collaboratori della Voce; ma, col fallimento dell’impresa paterna e col forzato impiego, Firenze era rimasta solo un sogno. Non era un guerrafondaio; da qui anche la sua crisi interiore, ma aveva sempre sperato nella annessione di Trieste all’Italia: il significato del suo pseudonimo è molto chiaro.
    Nel 1919 inizia La coscienza di Zeno, che esce da Cappelli nel ’23: silenzio della critica, indifferenza dei lettori. Mio padre manda il romanzo a Joyce che, entusiasta, lo raccomanda ai critici francesi Valery Larbaud e Benjamin Crémieux. Nel ’25 e ’26 è spesso a Parigi e a Londra; Svevo romanziere è scoperto in Francia: traduzione francese della “Coscienza di Zeno”.
    Ricordo la sua felicità… Joyce aveva parlato del suo libro a Eliot. 1892 – 1915: più di trent’anni di attività letteraria svolta nel silenzio, e mio padre che rassegnato ripeteva: “Pubblicare non è necessario, scrivere si deve”. Ora veniva trionfante da noi: “Guardate, ragazzi, che cosa mi accade alla mia veneranda età”, e ci mostrava la lettera di Larbaud che iniziava così: “Egregio signore e maestro…”. Poi l’amicizia con la moglie di Crémieux, che gli parlava di Proust, e mio padre che si affrettava a scrivere a Cappelli per avere tutta la “Ricerca” di “un certo” Proust. E, finalmente, i critici italiani: Solmi, Bazlen e il capofila Montale col saggio critico Omaggio a Svevo, nel dicembre del ’25. Scriveva Montale: “Svevo riflette al pari di pochissimi altri gli impulsi e gli sbandamenti dell’anima contemporanea”. E le lettere di papà a Montale: “… perché non si attiene alla prosa?... con questo metodo (la poesia) rischia di lasciare in bianco metà del foglio”. Aveva sempre accarezzato il sogno del teatro e gli dolse non riuscire ad attirare l’attenzione di Pirandello, al quale aveva inviato una copia della “Coscienza di Zeno”, senza ottenere risposta. Il silenzio ostinato di Pirandello lo amareggiava: eppure erano due temperamenti abbastanza eguali.
    E ancora il “personaggio” Trieste nella “Coscienza di Zeno”. Una Trieste, come scriveva Larbaud, dove una Musa comica, fine, “désabusée” (disincantata), ironica e caritatevole, ha per qualche tempo abitato. Zeno Corsini, il protagonista della “Coscienza di Zeno”, era un antieroe che esulava dalla retorica dell’epoca. Siamo lontani dal D’Annunzio “immaginifico”, che mio padre detestava e dal “superuomo” desunto da Nietzsche. I personaggi di mio padre erano degli antieroi, abulici, nevrotici, malati. La coscienza di Zeno è la concezione della vita come malattia: il contrario del mito dell’eroe. In Zeno, mio padre esprimeva l’impotenza e l’ambiguità borghese, egli stesso borghese in contraddizione costante. Ostile a una società triestina dedita al danaro e al mercantilismo, per gusto di un socialismo utopico e spesso controverso. Non dico le critiche, lui vivente, di certi fascisti: nel ’42, il busto di papà fu gettato in terra con la motivazione: “Bronzo alla patria”, lasciata sul marmo.
    Nel 1927, venne la scoperta di Kafka, che seguiva la stagione dei mitteleuropei: Musil, Rilke, Roth, Walser. Kafka era più esagerato di papà; portava all’estremo la propria disperazione, ebreo in un paese cattolico, tedesco in un paese slavo. Mio padre, che era di origine israelitica, si ritrovava in quella psicologia. Pertanto, mi regalò Le metamorfosi, Il castello, Il processo, opere postume edite in quegli anni (1924-1926). Altri ancora erano i suoi autori congeniali: Ibsen, la cui opera mi regalò per il mio matrimonio; tutto Strindberg, che annotava ai margini e che andò perduto nel ’45, nella distruzione di villa Veneziani; Gogol, che mi regalò in lingua tedesca; l’amato Jean-Paul. Mio padre è morto in tempo per non assistere alla distruzione della nostra casa, alla morte dei miei tre figli… due dei quali dispersi in Russia, l’altro ucciso dalle truppe titine… poi di quello adottivo.
     
    .
  2. D'Atene
     
    .

    User deleted


    Ma dimmi una cosa, questa figlia è ancora viva?
     
    .
  3. francesco56_8
     
    .

    User deleted


    credo di sì D'Atene e vive a Trieste dove ha ancora la casa che fu del Padre
     
    .
  4. schmit
     
    .

    User deleted


    avevano la villa a Opicina vicino Trieste

    Edited by Letizia Schmit - 21/2/2018, 21:05
     
    .
  5. schmit
     
    .

    User deleted


    ora vi racconto cosa mi successe qui a Palermo.Andai in comune per fare un estratto di nascita e invece di Marina di Carrara mi ritrovai nata a Opicina la data della nascita pero' era la mia 27 Novembre 1939 chiesi spiegazioni in comune e dopo lunghe ricerche si trovo' l'errore.Ero stata scambiata per la figlia di Ettore Schmitz,
    Ma santo cielo non vedevano che sono nata nel 39?
    A proposito della z finale, mio nonno fece togliere la z perche' essendo in commercio sbagliavano sempre il cognome...almeno cosi' disse mio nonno, in realta' io ho sempre pensato che il motivo fosse stato altro...Forse lo danneggiava l'origine...si apprestavano brutti periodi...
    infatti fu la nostra salvezza!
     
    .
4 replies since 13/5/2009, 15:28   4606 views
  Share  
.