viaggio nell'Italia degli ultimi 50 anni

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  1. Il Federalista
     
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    Il caso Tortora:

    18 maggio 2008 - ore 00:30

    Applausi e sputi, ovvero dei diritti e delle pene di Enzo Tortora a vent'anni dalla morte di Enzo Tortora
    Erano le quattro e un quarto del mattino quando, 25 anni fa, alcuni carabinieri in borghese bussarono alla porta di una camera dell’Hotel Plaza di Roma. Controllarono gli armadi, rovistarono in una valigia, sequestrarono un’agenda telefonica, ruppero un salvadanaio a forma di porcellino ed arrestarono l’ospite di quella stanza: si chiamava Enzo Tortora ed era uno dei volti tv più noti di quegli anni, il presentatore di Portobello. In questi giorni, nel ventennale della morte del giornalista e presentatore genovese un altro giornalista genovese, Vittorio Pezzuto, una vita politica spesa nei Radicali, ripercorre quei giorni che segnarono il debutto del giustizialismo italiano, pure di quello giornalistico, dei cronisti che vanno a braccetto con le Procure per inseguire lo scoop della vita (sulla pelle degli altri). Per questo “Applausi e sputi” oltre a essere l’antinomia di due vite, quelle di Tortora, spese tra l’altare della notorietà e la polvere di accuse infondate (uscite dalla bocca di pentiti), è anche un ritratto storico del buono e del cattivo giornalismo, ammesso che si possa aggettivare un mestieraccio che ha che fare con le notizie e le opinioni. Vent’anni dopo, nel 2008 dello scontro tra Giuseppe D’Avanzo (La Repubblica) e Marco Travaglio sui i fatti che non sempre sono la verità, sulle intercettazioni quotidiane che spiano le vite degli altri, nella penombra della biografia di un uomo si intravede, sempre lui, il giornalismo. Il cronista del Tempo, Alfredo Passarelli, nel raccontare il processo, scriveva di Tortora: “La sua arringa è quasi un capolavoro, certamente a effetto, ma non ribatte con dati sostanziali alle testimonianze, ai riscontri, ai dati processuali”. Luisa Forti, per il Secolo XIX, annotava: “Modulando la voce su tutti i toni, ossequioso e al tempo stesso sdegnato, osservando pause a effetto soprattutto dopo i due battimani e i ‘bravo!’ provenienti dai gabbioni dei camorristi traditi da Melluso (ndr, il pentito che lo accusava), Tortora si butta appassionatamente nell’arringa. Il presentatore sta urlando, gli occhi sono abilmente lucidi”. Paolo Gambescia, sul Messaggero, notava invece che “Tortora non può pensare di aver vinto perché non è riuscito a dare una spiegazione convincente all’interrogativo principale che da sempre lo insegue: perché i pentiti dovrebbero avercela con lui?”. Il libro, mentre fotografa la tragedia di un uomo famoso & innocente, sbattuto in carcere dalla sera alla mattina, ci rimanda anche alcuni esempi di lucidità giornalistica: è il caso di Giorgio Bocca e di Vittorio Feltri. Il primo, su Repubblica, osserva: “Un processo basato su un’istruttoria inesistente e tutto affidato alle confessioni dei pentiti non poteva in alcun modo mandare assolto Tortora. Lui assolto, sarebbe crollato l’intero castello dell’accusa, come non ha esitato a dire la pubblica accusa. Giuristi, politici e altri di autorevole e prudente opinione dicono che per esprimerla attendono il dispositivo della sentenza. Ma la sentenza non può inventare ciò che è rimasto assente nel processo, non può fabbricare quei riscontri oggettivi che nel processo non si sono visti”. Vittorio Feltri, all’epoca al Corriere della Sera, scrive: “Ho visto giornalisti che si sbranavano e io mi sono trovato nell’arena. Ero arrivato a Napoli (sede del processo, ndr), diciamo agnostico e per la mia riluttanza a sposare la tesi colpevolista sono stato bollato innocentista, come fosse un’infamia. E deriso. La corporazione voleva a larga maggioranza la condanna di Tortora, neanche si trattasse di una conquista per la categoria. E se tentavo di far presente che non c’erano prove, ero travolto: i pentiti sono testimoni come gli altri e lui deve essere incastrato. Ma perché tanto accanimento? Ho avuto l’impressione di uno scoppio di irrazionalità, di una specie di tifo cieco analogo a quello negli stadi, alimentato per giunta dall’antipatia dell’imputato”. Un italiano colpevole soltanto di innocenza.

    di Massimiliano Lenzi "il foglio"

    Perche' tanto accanimento si chiede Massimiliano Lenzi?,perche' gli uomini non sopportano che ce ne siano alcuni migliori di loro e Enzo Tortora era uno di questi. Perche' qualcosa cambi, l'uomo dovrebbe cominciare a conoscersi e a fare il mea culpa, cosa che negli spacchiosi e nei tronfi, non è facile fare.
     
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6 replies since 3/4/2008, 14:51   302 views
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