Sul destino

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stellina_29
TOPIC_ICON1  view post Posted on 28/3/2008, 13:33




Il mondo è per l'uomo, da sempre, un gigantesco enigma da decifrare, e decifrare il mondo, conoscere la natura delle cose era apparso già ai presocratici una possibile via per capire il senso del nostro destino. Possiamo quindi dire che tutta la nostra conoscenza e il nostro desiderio di conoscere hanno un fine ultimo, quello di comprendere il nostro destino o in altre parole il senso della vita.

Siamo dunque grati a Claudio Widmann psicoanalista e psicoterapeuta junghiano che si è dedicato con un testo vasto e importante a questo tema centrale nella riflessione di quanti (antropologi, psicologi, filosofi, scienziati) hanno a cura la sorte dell'uomo, microcosmo di un macrocosmo che è l'universo. Perché l'uomo, come ci insegna Heidegger, è esser-ci , la sua sorte è appartenenza all'Essere.

E “la sorte – dice Widmann – segue le linee della molteplicità, non quelle dell'equità, e dispone di una potenza assoluta che non risponde a gerarchie di potere. Le signorie della sorte si collocano non solo al di sopra degli uomini, ma persino degli dèi” (p. 23). La prima constatazione che l'uomo è costretto a fare è che la sua capacità di comprendere sembra annichilita di fronte all'insondabile onnipotenza del fato , di ciò che è stato “detto” “decretato” da una potenza ineffabile, indicibile. Eppure per l'uomo è giocoforza accettare il destino, perché, come dice l'antica saggezza “fata volentem ducunt nolentem trahunt”.

Claudio Widmann attento studioso dei miti delle più differenti culture e tradizioni passa in rassegna numerosi racconti, leggende, fiabe popolari di ogni angolo della terra che raccontano come invano l'eroe o il protagonista tenti di sfuggire al fato che gli era stato predetto; suo malgrado dovrà constatare che proprio ciò da cui tentava di fuggire si è presentato con assoluta puntualità.

Non possiamo fare ameno di citare quell'Edipo che avendo saputo dall'oracolo che era destinato a uccidere suo padre e sposare sua madre fugge lontano dai genitori che lo avevano allevato e che ignorava fossero adottivi, per giungere in una città straniera, Tebe, ma in realtà sua terra nativa. Lì incontrerà, per caso , un uomo tracotante e lo ucciderà, ignorando che fosse proprio colui che lo aveva generato. Dopo aver liberato la città dalla sfinge ‘risolvendo' l'enigma che essa proponeva ai cittadini, pena la morte per chi non sapesse risolverlo, ottiene in sposa la regina che, come dovrà apprendere un giorno, era proprio colei che lo aveva partorito.

Sulla lettura e sull'interpretazione del mito di Edipo Freud ha costruito la psicoanalisi. Perché infatti Edipo è un uomo che come tutti gli uomini si deve confrontare con il destino, la Sfinge che sbarrando il passo minaccia di morte coloro che non sanno svelare l'enigma sul vivente dal triplice aspetto nei tre momenti della vita. Edipo darà la risposta: l'uomo. Ma che cosa è un uomo?

Edipo crede di aver completamente compreso il mistero inafferrabile dell'enigma, di aver dato una risposta definitiva alla domanda e dunque di aver salvato sé stesso e la città. Dovrà scoprire che lui, vedente, è immerso nella confusione mentre la verità gli verrà rivelata dal cieco vate Tiresia.

Edipo diverrà veramente un salvatore, ma non quando crede di svelare l'enigma della vita, ma solo quando, dopo aver rinunciato alla vista degli occhi mortali, accetta la sua natura di uomo mortale, accetta la morte (a un tempo madre, sposa e figlia).

Il mito è atopon, fuori del tempo, e nel mito non c'è prima e dopo, non c'è una madre prima della sposa, della sorella, della figlia, esse sono un tutt'uno: la grande madre dea della vita è anche dea della morte, essa è triplice: madre-moglie-figlia, Demetra-Persefone-Ecate.

Edipo soltanto nella morte risolve il vero enigma della vita e può vedere quella verità la cui luce accecante non poteva essere sostenuta dai suoi occhi mortali e conciliarsi con essa, cioè con il suo destino di uomo. In questo senso egli è un eroe salvatore che insegna agli uomini a percorrere la via tracciata dal destino, il loro cammino di individuazione (divieni ciò che sei), fidando nello sguardo interiore, nello sguardo dell'anima. Questo cammino di individuazione porta l'uomo a prendere coscienza, e dunque ad accettare e amare il proprio destino, la propria sorte. Perché “individuazione è primariamente adesione; all'individuo spetta il compito di ‘mostrarsi all'altezza del destino con la propria grandezza interiore” (p. 213).

Se e in quanto vi riesce egli diventa il destino stesso.
 
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