Poesie e racconti

l'anima nel gruppo

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  1. schmit
     
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    Tramonto
    ********
    Finito è il giorno
    non rimane che abbracciar
    questa desiderata sera
    di fredde note
    di immutabil tempo.

    letizia schmit



    Edited by schmit - 27/1/2005, 17:24
     
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  2. schmit
     
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    Tu ed io
    *******
    Tu ed io
    trovarsi e perdersi
    in una danza senza fine

    Tu ed io
    conoscersi e disconoscersi
    nel vortice della vita

    trasportati come foglie al vento

    un appena sfiorarsi
    per essere nuovamente
    indirizzati altrove

    distanti l'uno dall'altra
    ci ascoltiamo i respiri
    ci frughiamo fra le pieghe dei pensieri

    donandoci felicita' celate.

    letizia schmit

     
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  3. schmit
     
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    Vucciria addio
    ************

    La musica di una pianola
    si perde lontana
    cosi' come il foglietto
    della fortuna nelle mani
    di un bambino
    con Timberland

    Il vociare sommesso
    come sommessa è la rabbia
    del popolo
    in disincanto
    Neanche la lira
    il suo giusto peso
    e poi...c'è l'euro

    Signura, ascultassi a mmia
    m'aprissi u' bbursellinu
    ce li trovo iu du' euri...
    "quantu so' du euri?
    dumila liri?"
    "no Signura su quasi quacttru"
    "quattcru?,no grazie,
    nun fa nenti,
    l'accattu 'nauctra vota...
    Vucciria 31 marzo 2004


    letizia Schmit

    Edited by schmit - 27/1/2005, 16:52
     
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  4. schmit
     
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    Raul
    ***
    Raul,non era mai stato ballerino,ne' amava molto la danza,ci capito' un giorno cosi' per caso in quella casa.Doveva portare delle rose ad una ballerina che compiva il suo diciottesimo anno di eta'.
    Era bello Raul, bruno tipico siciliano,con due occhi azzurri come un cielo terso in una giornata di primavera. E' credenza comune che i siciliani siano tutti bassi, bruni e con gli occhi neri,dimenticando che oltre agli arabi in Sicilia sono stati i Normanni e quindi si trovano anche persone alte,bionde e con gli occhi azzurri. Raul era bruno,ma oltre questo, aveva nella pelle ambrata e nell'altezza le caratteristiche dei suoi avi che si erano uniti nel corso dei secoli dando vita a questo meraviglioso incrocio di nord e sud.
    Raul busso' alla porta titubante,non era un fioraio vero e proprio ma ogni tanto aiutava suo padre nel negozio.
    Ad aprirgli venne trafelata una gentile signorinella con tutu' e due scarpette rosa ai piedi. Raul le porse le rose impacciato quanto mai alla vista di quella deliziosa fanciulla fresca e giovane come le rose che le portava, anzi le guance erano ancora rosee per la danza appena smessa. Si Raul noto' che anche le guance avevano il colore delle rose. Lei con in una mano le rose,dall'altra lo prese per mano e lo condusse in una stanza dove era un pianoforte e poggiato sopra un flauto. Lui si lascio' condurre come se fosse stata la cosa piu' naturale:
    "un flauto" disse lui:"posso suonarlo?" Raul aveva la passione della musica e studiava flauto al conservatorio.
    Lei rispose:"oh! si' ti prego suona,ed io ballero' per te"
    Che dolce melodia quella che suono' Raul con gli occhi azzurri cielo sempre fissi sul volteggiare delicato e leggero di una bella farfallina rosa, e quella volta Titti,questo era il nome della fanciulla, ballo' come non aveva mai fatto prima. La musica cesso' e con una voce cristallina come uno scroscio di cascata lei disse alternando le sue parole ad una risata: Ti è piaciuto? ho ballato bene? e prima ancora che lui rispondesse, d'impeto le si butto' tra le braccia. Raul si trovo' con questo corpicino esile ma che gia' lasciava intravedere i segni di tutta la sua femminilita',tra le braccia, con la mano color ambra le scosto' una ciocca di capelli biondi, contrasto stupendo, che le si erano scomposti nella danza e le ricadevano sul volto coprendolo in parte e delicatamente pose le sue belle labbra carnose su quei petali di rosa delle guance di lei. A quel tocco Titti arrossi' un poco e si lascio' guardare piu' a lungo rapita ella stessa. Fu' come un consenso e Raul ando' oltre,le bacio' le labbra,erano calde e umide come una succosa mela appena raccolta, le bacio' il collo e poi delicatamente... lei presa da una vertigine si aggrappo'al pianoforte, i fogli degli spartiti caddero e si sparsero attorno.
    Si adagio' su di essi,poi vide roteare la stanza dove si trovava,il sangue le afflui'in ogni piu' piccola parte di se' con una intensita' mai provata e lei adesso si era tuffata in quel lago azzurro degli occhi di Raul.Una ballerina che volteggiava sott'acqua di quel meraviglioso lago tepido e azzurro come il mare unita a Raul. Il mare della vita...dalle finestre aperte note di una pianola invasero la stanza.

    letizia schmit

    Edited by schmit - 4/2/2012, 01:51
     
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  5. trombotta
     
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    Bellissimo racconto, perche' non continui?
     
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  6. schmit
     
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    Eccoti accontentato:

    Dei primissimi anni di scuola,io ricordo la minestra calda delle suore,non era un granche' in realta', ma riusciva a sfamare una bimbetta del dopoguerra.Ce n'erano quattro da sfamare e mia mamma mi diceva:"vai dalle suore bimba mia, cosi' mangi un buon piatto di pasta calda e fumante". Ma sempre dalle suore,una volta,mentre cercavo di abbracciare la suora o meglio il suo vestito lungo, data la mia altezza,mi sentii allontanare con uno strattone, il cui modo mi feri' a tal punto che ancora ricordo.Le suore...chissa' perche' erano cosi' arcigne...non tutte pero'. Fui ripagata negli anni della adolescenza,sempre in un istituto di suore. Era un istituto privato,mia mamma trovava che mi avrebbero dato una sana educazione...
    Povere suorine...quanto le ho fatte disperare...questo continuo chiedere il perche' di tutte le cose,e non mi accontentavo mai, le risposte non mi soddisfacevano, specialmente quelle in campo religioso.
    Chissa' quanti dubbi ho fatto venire anche a loro...
    Non ho un buon ricordo della scuola in genere,solo gli anni ultimi,dalle mie suorine,quelli li ricordo con piacere,erano suore moderne,generose, colte,amorevoli,ancora oggi sono in contatto con loro e ancora oggi,forse, faccio a loro, venire ancora qualche dubbio.
    Non ho amato molto i banchi di scuola,ma ho amato e amo ancora la conoscenza.Sono stata troppo ribelle per insegnanti nozionistici e spesso, un po' troppo spesso, riconosco, ho messo in difficolta' di ogni genere gli insegnanti con le mie continue, asfissianti domande.
    Ma da loro mi sono sentita amata e questo fa si' che non li abbia dimenticati.
    Buratti: prof di italiano, Quirino: di musica,suor Maria:di pedagogia,suor Vittoria:la segretaria...,Don Bonelli,il bellissimo Don Bonelli del quale tutte le mie compagne erano innamorate, prof di filosofia,simpatico,non sembrava nemmeno un prete,o almeno di quelli usuali...le sere d'estate lo si poteva trovare senza tonaca in borghese a passeggiare lungo la riva della bellissima Versilia.
    Ma perche' avete dato questo tema? ecco..., ora non ho nemmeno un fazzoletto a portata di mano...

    letizia schmit

    Edited by schmit - 4/2/2012, 02:27
     
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  7. frichicchio
     
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    letizia, ho l'impressione che tu abbia un debole per trombotta,l'accontenti sempre e noi? bello il racconto anche questo,ma sono storie di vita vissuta?

    Edited by frichicchio - 3/2/2005, 18:11
     
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  8. schmit
     
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    Tutto cio' che scrivo,sono pezzi di vita vissuta,niente è fantasia.
     
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  9. schmit
     
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    Una lettera indirizzata a qualcuno che ha attraversato la mia vita:

    Hai detto: “FINE” fine perche’? Perche’ le cose non sono andate come avevi progettato tu?.
    Quanti cadaveri avresti voluto sulla tua strada per non dire mai fine?
    E’ meglio avere accanto a te una persona viva, che esprime tutta se’ stessa o una persona morta che ti accontenta solo perche’ non ti vuole vedere piangere ma muore giorno per giorno?
    Avrei dovuto continuare a vivere senza la volonta’ di vivere o scappare da quei mondi ristretti dove piano piano mi ero relegata per non farti soffrire? Ogni tanto mi dicevi:”sei infelice vero? Allora lo capivi, ma non andavi oltre. Tenere sotto controllo esseri, solo pensando di preservarli, da che poi dalla vita? non fa bene ne’ a loro ne’ a te. E’ meglio una bella corsa a respirare liberta’ col rischio di rimanere uccisi o essere preservati e non godere di quella corsa? Comincia a sgretolare le muraglie. Nell’unione c’è amore, non nella separazione. Questo afflato cosmico si regge sull’unione di anime. Nella condivisione sta’ l’unione. Si sente maggiore solitudine a stare vicini con il corpo senza esserlo nella mente. Si sente maggiore solitudine nella non condivisione. Questa è la vera separazione, non quella fisica. La muraglia l’hai costruita non il 3 di agosto 2003 ma, mano a mano che non volevi, o non potevi, non saprei, condividere piu’ nulla. Avevamo smesso pure di pranzare insieme, perche’ tu avevi sempre da fare qualcosa quando mi sedevo a tavola anche se ti avevo aspettato. Rifletti, rifletti... non ti impuntare sulle cose a priori, queste si ritorgeranno su di te.

    letizia schmit

    Edited by schmit - 4/2/2012, 01:50
     
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  10. schmit
     
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    Una lettera vera ad una amica immaginaria.
    ************************************
    Eccomi a te a mani vuote,non ho fatto a tempo a preparare nessun dolcetto,la mia bocca era troppo amara per addolcirla con un semplice dolcetto...ci sarebbero voluti quintali di zucchero d'amore,una gomma grande quanto tutto il mondo per cancellare la cattiveria,una enorme carta fatta con l'idea di Rousseau (l'uomo nasce buono,è la societa' che lo corrompe) per avvolgere questo grande mondo prima di essere corrotto, per gustarne il sapore della bonta' verginea come un cioccolatino.
    Su tutto posso non far caso,ma c'è una cosa sulla quale non riesco a passarci sopra indifferentemente,la cattiveria gratuita.Quella mi fa male e piu' ancora quando a produrla sono camaleonti che non riesci a distinguere subito,si mimetizzano nello stupendo paesaggio della bonta' per carpirti come fiere che aspettano il "lauto pasto". Sono gli Jago della vita,sono il venticello di Rossiniana memoria.
    Ho!!! Margherita che brutto imbatterci in questa sensazione di amarezza.
    L'uomo, il mio simile,l'essere al quale dovrei assomigliare...cos'è Margherita' cos'è per te la cattiveria? cosa spinge l'uomo a far male ad un altro? Perche' l'uomo non vuol capire che la bonta' è una moneta al sicuro nella banca del cuore e che investendola puo' renderti sempre piu' ricco?
    Buona notte Margherita,so che tu mi capirai. Passera' anche questo momento,perche' io so che dietro le nubi c'è il sole e il cielo azzurro,le nubi si dilegueranno ed il sole dell'amore tornera' a riscaldarmi l'anima del mio cielo azzurro.

    letizia schmit

    Edited by schmit - 4/2/2012, 01:56
     
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  11. schmit
     
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    Ciao Margherita,
    Sai, dopo una bella dormita,stamani mi sono svegliata fresca come una rosa,e delle sensazioni di ieri sera non c'era piu' nemmeno l'ombra. Ecco il bello della vita che tutto è fuggevole...
    Stamani dovevo andare a farmi la carta di identita',e mi sarebbe venuta a prendere una amica per accompagnarmi :
    "tieniti pronta mi aveva detto"
    ed io diligentemente ho cominciato a prepararmi. Pantaloni bleu,che mi snelliscono,camicetta corallo di seta larga larga che mi ricopre il sedere pronunciato,sandali bleu. Una lieve riga nera nel sotto dell'occhio,un lieve rossetto alle labbra, corallo, e due pizzichini con lo stesso rossetto ben sfumato sulle gote. Capelli lunghi raccolti a coda di cavallo. Questa tutta la mia toilette di trucco.
    Un ultimo sguardo allo specchio,nel quale mi sono compiaciuta e dettomi:"Beh,sei ancora giovane...vai tranquilla.
    Ero allegra e cinguettante come un uccellino al primo volo.
    La mia amica mi dice:"Che hai letizia stamani? sei raggiante" ed io:" bho? non so,mi sento bene".
    Arriviamo al municipio,primo intoppo:
    "Signora, la fotografia della patente non le somiglia"
    io."certo,sono passati 40 anni..."
    Prima botta, rifletto dentro di me:"da giovane ero bellissima, mi dicevano; allora se non somiglio vuol dire che sono cambiata moltissimo...e pensare che allo specchio stamani mi vedevo graziosa."
    Le faccio un sorriso forzato per la prima delusione subita e azzardo timidamente a dire:"sa...sono passati quarant'anni..."
    Lei nemmeno mi risponde e mi dice:"Ci vogliono due testimoni".
    "C'è una mia amica in macchina posso far venire lei"
    Categorica:
    "No, le ho detto due"
    "Ma dove vado a prendere l'altro, ognuno è al lavoro e di pomeriggio siete chiusi,è gia' molto che questa mia amica si sia prestata ad accompagnarmi"
    Niente da fare non si convince,allora tutto a un tratto mi ricordo della tessera di giornalista con foto piu' recente.
    "ah! dimenticavo, le posso far vedere la tessera di giornalista,vede? c'è scritto letizia schmit e porta lo stesso nome e gli stessi dati anagrafici della patente di guida.
    La guarda e dice:" non c'è il timbro sopra la foto".
    Non è colpa mia se non l'hanno messo proprio sopra ma al lato, ma sotto la foto c'è la mia firma,vede che la firma è la stessa?
    "si' ma la foto potrebbe essere un'altra,non quella sua"
    Io ancora piu' calma ma gia' le mani mi cominciavano a tremare dal nervosismo.
    Ricapitoliamo:"la firma della patente è la stessa della tessera dove c'è una foto piu' somigliante alla persona che in questo momento le sta' di fronte io, le faccio una firma e lei vedra' che sono identiche mi dice come potrebbe dedurre che non sono io?
    " ci vogliono due testimoni".
    Esco, lo dico alla mia amica,lei piu' intrapprendente di me,dice:"vieni con me"
    Andiamo alla pompa di benzina e chiede ad un signore che doveva essere un coadiuvante del benzinaro se ci poteva fare un favore testimoniando al municipio che io ero io...
    Quello subito disponibile ci accompagna, ed io ho la mia nuova carta d'identita' con una foto uguale all'immagine del mattino vista davanti allo specchio e che mi aveva fatto sentire ancora giovane e bella!!!
    Conclusione,per il secondo testimone che non mi conosceva io ho la mia carta di identita'!!!
    Com'e' strano il mondo...o lo sono io?




     
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  12. schmit
     
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    Ho ricevuto in meil un raccono che mi è piaciuto molto e lo bubblico col permesso dell'autrice:Francesca Frizzi

    Marzo 1997 (è la data di quando è stato scritto)



    Finivano le scuole e già pensavo al momento in cui sarei partita; andare in colonia per me era come andare in vacanza a SANTO DOMINGO; mi sentivo felice ed importante e mi pareva che gli altri mi invidiassero. Lo raccontavo con anticipo a quelli che invece "poverini" se ne restavano a casa e nei loro occhi scorgevo curiosità e ammirazione.

    Cominciavo per tempo ad andare con la mamma all’'ufficio d'igiene dove una signora molto gentile ma altrettanto bruttina e segaligna mi faceva prendere delle compresse che inghiottivo davanti a lei e che avevano un odore dolciastro di disinfettante; probabilmente dovevano coprirci dal tifo, dato che la promiscuità e la poca igiene in cui vivevamo poteva far scatenare epidemie di quel tipo.

    Gli ultimissimi giorni di Giugno tiravamo fuori una grande valigia di cartone e cominciavamo a fare i preparativi per la partenza. Gli indumenti erano pochi ma la valigia era unica e dovevamo faticare perché non si aprisse per strada. Io mi portavo tutto il mio guardaroba: due grembiulini in zephir a quadretti e uno scamiciato in creton a fiori, una camicettina bianca, due magliette di cotone, due mutandine, due calzini e qualche cioccolata. La valigia era pronta e così il primo Luglio ce ne andavamo; il pullman doveva partire alle otto e noi a piedi con il valigione che ovviamente portava la mamma, ci avviavamo lungo la strada a quell'ora deserta dove l'odore dell'estate ancor inesplosa inondava l'aria e dove il primo sole del mattino mi ubriacava. In quel momento soffrivo nell'andarmene. Ho sempre sofferto nei distacchi; e poi il giorno prima avevo salutato il mio orto, i miei gatti, il lungo fosso e quell'odore di estate nascente che mi pareva di tradire andandomene. Tornando avrei trovato un'estate matura, il mio orto trasformato dai convolvoli e dai nasturzi in fiore; ovviamente non avrei più ritrovato i miei adorati gatti e avrei provveduto immediatamente a procurarmene altri. Ma per giorni avrei portato dentro me l'odore e il verde di un'estate montana.

    A1 Comune trovavamo un foltissimo gruppo di bambine accompagnate dalle loro madri; molte di loro piangevano ed io mi sentivo fortunata perché non avrei dovuto staccarmi dalla mia. Molte di quelle bambine non avevano nemmeno la valigia, ma un fagottino minuscolo legato con lo spago; qualcuna aveva solo quello che indossava.

    Eravamo a meta’ anni cinquanta; quando arrivava il pullman, polveroso e scassato, il frastuono e i pianti aumentavano; i bagagli venivano caricati sopra il tetto della vettura e tra un abbraccio ed un pianto si partiva. Quello era un momento di grande emozione; il pullman era vecchio ed andava adagio, ma Levigliani era vicino; nonostante questo a me piaceva raccontare che per arrivarci occorrevano due ore e mezzo e due grandi gallerie. La mamma si assumeva subito le sue responsabilità e iniziava a controllare che quei piccoli demoni non si sbranassero. Quando il pullman iniziava a salire la collina cominciavamo a cantare canzoni che poi diventavano inni di quei momenti. Ad ogni curva speravamo di vedere il paese con le sue case abbozzate nella pietra ed il campanile che emergeva tra quei tetti di lavagna, e quando improvvisamente, dietro una curva, ci appariva, le urla di gioia soffocavano il lamento di chi ancora piangeva. Ancor oggi, se chiudessi gli occhi, il profumo mi condurrebbe là; in quell'angolo di paradiso immerso nel verde ritroverei come per incanto la mia infanzia ancora intatta.

    Là ho vissuto i quattro anni più belli della mia giovane età e là, in quel luogo incantato, la mia adolescenza si è trasformata con i primi teneri amori. L'incanto di un mattino avanzato mostrava ai nostri sguardi assetati i volti scolpiti nel marmo di chi veniva a riceverci, volti dalla pelle scura e increspata da un sole troppo amato e da un lavoro ingrato; lo sguardo bonario e sornione di Giulio ci diceva: benvenuti a casa. Prendevamo i nostri miseri bagagli e piano, assaporando con lentezza ogni cosa, salivamo sotto un'esplosione di sole e di verde.

    La strada era sterrata e in parte ricoperta da pergolati di uva, e la salita piuttosto faticosa per chi come noi era abituato alla pianura. Sulla piazza gruppetti di persone ci scrutavano senza simpatia e già pensavano a come difendersi dai nostri attacchi distruttivi. Più avanti iniziava la mulattiera che attraverso il paese passava davanti alla chiesa sino al cancello di una grande villa; ecco, eravamo arrivate.

    La villa era molto vecchia e mal tenuta, ma grande ed accogliente. Le mura doppie e i soffitti alti ci avvolgevano in un fresco abbraccio. Il progresso e le pessime ristrutturazioni l'hanno rovinata dandole l'aspetto di un casermone anonimo; ma io ancora la ricordo avvolta di fascino e di mistero, e in quei suoi stanzoni disadorni e scalcinati vago spesso con il pensiero per ritrovarmi in ogni angolo con lo stupore di allora. Il personale, costituito da alcune donne del paese, ci veniva incontro festoso conducendoci attraverso un corridoio oscuro e fresco su per grandi scale e lì, nei grandi cameroni disadorni, prendevamo possesso dei nostri letti. I letti non erano che misere cuccette con sacconi di foglie ricoperti da tristi coperte grigio militare; la valigia prendeva posto sotto di essi e così i nostri poveri cenci erano sistemati. Io ero fortunata perché la mamma mi faceva dormire nella sua camera che divideva con altre lavoranti; però dentro di me invidiavo quelle loro intimità che a me sfuggivano. Mi intrufolavo spesso tra di loro e vi rimanevo timida spettatrice finché le luci non venivano spente; poi in silenzio come ero venuta me ne ritornavo via.

    La direttrice, donna nera dentro e fuori, piena di nei, di peli e di rabbia verso tutti, ci aspettava per formare le squadre e con occhi inespressivi e cattivi ci scrutava per poi dividerci con non so quale criterio. Si formavano così quattro o cinque squadre, ognuna capeggiata da una vigilatrice quasi sempre giovane e carina. Ci veniva assegnato poi un grembiule a quadretti bianchi e rossi che poteva essere o troppo grande o troppo piccolo e che doveva bastarci per un'intera settimana.

    Il pasto del primo giorno era una gran festa. La Giuditta, cuoca di non so che ordine, nel suo abito perennemente nero e un po' sdrucito, con un ciuffetto di capelli incolti tra il grigio e il nero, presentava i suoi piatti come il migliore degli chef e forse in cuor suo ne era anche convinta. Il minestrone non mancava mai sulla nostra mensa e il profumo si sentiva per tutto il paese; a me piaceva solo quello e ovviamente mi guardavo bene dal mettermelo alla bocca. La stessa cosa valeva per l'insalata e i pomodori, si capisce sconditi, dove qualche piccolissimo pezzetto di tonno vagava solitario.

    La sveglia era alle otto e dopo una fugace corsa in bagno dove l'acqua delle piccole polle scorreva sempre in un lungo e concavo raccoglitore in ferro e dove mezze pareti divisorie senza porte offrivano buchi neri quali servizi igienici non del tutto osceni a chi prima arrivava. L'acqua era sorgiva e gelida ma tutte ne facevamo poco uso e gli occhi rimanevano chiusi fino a che l'aria fresca del mattino non ci faceva lacrimare tingendoci le gote di rosso; l'odore, poi, del pane fresco e del latte un po' attaccato ci dava il buongiorno, e la mattina era nostra. Iniziavamo così le escursioni che ci portavano in luoghi bellissimi tra sentieri di felci e mulattiere scolpite nella roccia.

    Le gite più frequenti erano rivolte a Terrinca, alla bella dormiente e al mulino. Ma la Sassaia era un posto da favola; il biancore di quelle pietre tondeggianti e lisce, dove l'acqua scorreva infiltrandosi e scavando torrentelli sino a formare piccole pozze di cristallo e dove il sole scrutandovi metteva in risalto tutta la superba trasparenza ci accoglieva a distanza con la sua voce cristallina e l'eco delle nostre grida festose si confondeva con il gorgogliare di quelle acque chiare. E noi piccole donne in boccio potevamo berla o lavarci indifferentemente tanta era la sua purezza. Da lì potevamo proseguire, e tra il verde di un viottolo in pendio su una montagna tondeggiante si arrivava a quella che da sopra non abbiamo mai visto: la "bella addormentata". La gente del luogo racconta una storia magica che riguarda una fanciulla che ancora è là dormiente ad aspettare il suo amore.

    Le gite più lunghe erano riservate al mattino perché più fresche e riposate sentivamo meno la fatica delle ripide salite e perché l'aria fresca e pungente ci faceva sentire leggere ed agili fino a che il sole esplodeva arroventando pietre ed aria; allora facevamo ritorno e già in paese gli odori del cibo ci raggiungevano stimolando e saziando i morsi di uno stomaco ormai vuoto. Dopo l'ultima ripida salita eravamo dentro nel fresco avvolgente di quell'androne e dopo una frettolosa sciacquata di mani il lungo tavolo ci aspettava. Mangiavamo sempre fuori a meno che non piovesse, in quel caso avevamo due sale interne, e sotto un pergolato tra magnolie e camelie in fiore con dinanzi un pezzo di roccia umida e muschiosa, stava un lungo tavolo con due panche laterali. I piatti e i bicchieri erano in alluminio una volta lucido. A noi non conveniva passarci sopra il dito se non volevamo tingerci di nero. L'acqua e il pane non mancavano ed effettivamente erano due cose buonissime. Il giovedì e la domenica c'era la pasta con il sugo e il dolce; io di questo ne mangiavo due porzioni, perché la Giuditta, nonostante il suo aspetto, aveva un cuore e forse mi voleva un po' di bene; infatti mi chiamava nell'infermeria, una stanzetta bianca e fresca, e lì perché nessuno mi vedesse divoravo con voracità il secondo budino.

    Dopo il pranzo dovevamo andare a riposare e così le camere venivano oscurate e tutte dovevamo andare a letto; tutte meno io che, ovviamente dormendo in un'altra camera, facevo cosa volevo. Alle sedici eravamo di nuovo in piedi pronte per uscire; dopo una fetta di buon pane con un velo di marmellata la comitiva riprendeva la strada per un qualche luogo. Ovviamente andavamo più vicine e come rituale passavamo al negozio del paese. Chiamarlo negozio mi è difficile ma non saprei in quale altro modo definirlo. Gli odori che emanava già da fuori erano indescrivibili ed inconfondibili, dentro poi era tutto da scoprire; buio, stivato di cose più diverse tra loro poteva offrirti cimeli dell'avanti guerra o caramelle, gomitoli di lana merina o bastoncini di zucchero, smalto per unghie o santini e coroncine. I padroni erano uguali alla bottega; piccoli, bui e strani, con uno sguardo tra l'ottuso e il furbo e con tanta antipatia nei nostri confronti. Noi ci fermavamo sin dai primi giorni per comperare catenine e anelli di finto argento che regolarmente dopo un paio di giorni diventava nero, ma che ovviamente non toglievamo più.

    Ritornavamo alla colonia verso le diciannove e avevamo così prima di cena il tempo di giocare in quello spazio di piazzale antistante la villa. Sul retro il giardino era bellissimo; in particolare al nostro arrivo si presentava ai nostri occhi pieno di colori e di profumi. Le dalie e le giorgine pareva ci aspettassero mostrandoci con orgoglio le loro corolle stellate nei più svariati colori. Pochi giorni e dei fiori non rimaneva traccia. In quella zona del giardino si trovavano anche le grandi pile dove le donne il lunedì risciacquavano cantando il bucato di una settimana.

    L'ora della cena era altrettanto bella come lo era stato tutto dal momento in cui avevamo aperto gli occhi al mattino. Però quelle sere fresche e dolci in cui la luna la toccavi, alle stelle ci stavi in mezzo e le lucciole accendevano il buio, mentre il profumo del rosmarino, del timo e delle selve diventavano con la notte penetranti indelebili nella mente, quando la direttrice in piedi su di una panchina di marmo distribuiva la posta per i più fortunati e la biancheria pulita. Io quelle sere non le dimenticherò più.

    La gente di quassù viveva tranquilla aspettando la festa che regolarmente riportava a casa i loro uomini. Il sabato alla locanda, sotto un grande pergolato, la gente ballava e il suono di quelle note arrivava fino ai picchi più alti. Le ragazze del luogo, tirate a lucido, indossavano gli abiti della festa e gli odori della cucina si confondevano tra di loro. E così la domenica iniziava tra uno scampanio festoso ed un richiamo d'amore di una melodia lontana. Il pullman arrivava in tarda mattinata e noi tutte linde e lustre coi vestiti puliti aspettavamo le visite che anche quando non erano per noi ci facevano felici. Arrivavano anche i pacchi che i familiari ci spedivano; a me non mancava mai quello della nonna Caterina; lo mettevo sotto il letto ed ogni tanto assaporavo il dolce nettare del cioccolato. E dopo un pasto più ricco, il pomeriggio domenicale arrivava con la tediosa lunghezza di quegli spazi vuoti in cui vagavo mesta e assente per ritrovarmi in vicoli e sentieri ancora da noi inesplorati; in quel mare di verde io mi perdevo con la mente, e con le magre gambe da gazzella saltellavo su pietre aguzze e scivolose, dove ogni roccia muschiosa mi salutava con il sorriso di un'amica cara.

    Ho sempre pensato che sarebbe stato bello vivere qui, in questo posto piccolo e ridente, dove le grandi cose sono le piccole e le piccole sono la vita. Poi ritornava sera e tra un improvviso scroscio di pioggia da cui inutilmente cercavamo di sfuggire riparandoci in chiesette alpine disseminate lungo sentieri impervi rientravamo per ritrovarci ancora insieme. Di nuovo c'erano pianti per gli addii, e quelle sere nemmeno l'odore del minestrone ci piaceva più. Ma il mese passava in fretta e, dopo una fugace pesatura che ci faceva risultare tutte aumentate di un paio di chili, cominciavamo i preparativi per la partenza.

    Fagotti e valigie riprendevano vagamente le loro forme e qualche mutanda mancante scatenava risse e contusioni. A quel punto non desideravamo altro che andarcene e forse, uscendo da lì, non mi sarò nemmeno voltata per un ultimo sguardo; ma certo è che, appena arrivava il pullman, appena prendevamo coscienza di quello che avremmo lasciato dietro di noi, in quel momento dentro di noi qualcosa accadeva. E allora i canti e i risi si facevano più spenti e fiacchi, già non ci conoscevamo più e ognuna forse pensava a qualcosa lontano. Il ritorno per me era particolarmente triste e il senso di vuoto e di sgomento mi accompagnava per tutto il viaggio e quando all'ultima curva il paese spariva definitivamente dai nostri occhi un pianto arrivava dal profondo e le lacrime mi nascondevano l'ultima immagine di un paesaggio che ormai pareva nostro.

    E Viareggio appariva in tutto il suo splendore, con un sole accecante dove il verde era annientato dall'azzurro del cielo e del mare, e tutto quello spazio e quella luce mi angosciavano facendomi sentire sola e fragile. E il desiderio di quelle fresche braccia dove era facile cullarsi e sentirsi appagata dal verde, mi accompagnava per molti giorni ancora; poi, piano piano, il mio orto e i miei luoghi mi sorridevano con un nuovo volto ed io mi ritrovavo felice in quello spazio senza fine. Ed ora che la mano dell'uomo ha distrutto ciò che di bello la natura aveva creato, ora che del paese incantato non resta che il ricordo, invano cerco un qualcosa che attraverso il tempo mi riporti alla mente i miei ricordi; ma niente più mi appare tale e della colonia, chiusa alla fine degli anni cinquanta, resta solo, in quella che fu la grande villa, una panchina in marmo dove con mano ferma di fanciulla in fiore un giorno incisi con pazienza e amore un nome e una data: Francesca 1955

    Edited by schmit - 11/2/2005, 16:38
     
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  13. schmit
     
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    Si' francesca,ho ritrovato luogni della mia infanzia e adolescenza. Grazie e continua a inviarmene,anzi,vieni a farci visita e fallo di tua spontanea volonta'.
     
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  14. schmit
     
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    cielo
    mare
    terra
    mi affaccio
    e abbraccio.


     
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  15. schmit
     
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    ...mi convinco sempre più che non è assolutamente facile essere consapevoli del proprio condizionamento, né tantomeno della rete di influenze in cui la maggior parte di noi resta impigliato. Tutto quanto avviene durante la nostra "plasmazione" appare a tutti noi quanto mai naturale, spontaneo, poiché avviene gradualmente, in un contesto che ne asseconda completamente la realizzazione. Ci si ritrova così ad essere paradossalmente prigionieri in quella stessa rete da noi tutti lentamente e pazientemente intessuta nell'arco dei millenni.
    Liberarci dalla rete è un tragitto doloroso ma quando finalmente ne sei fuori...ecco la liberta'...Saper affermare sempre se'stessi è VIVERE.
    ....

    Gesù disse:«...Il Regno di Dio è dentro di voi...
    ... colui che conosce tutto, ma ignora se stesso, è privo di ogni cosa.»


    Perché Gesù fece questa esortazione? Gesù ci ha chiaramente invitato a ricercare intensamente la Verità in noi stessi. Voleva rivelarci che l'ultima realtà siamo noi stessi, l'ultima verità siamo noi stessi, la *Persona Suprema* siamo noi stessi.

    Gesù disse: «Colui che cerca non desista dal cercare, fino a quando non avrà trovato; quando avrà trovato sarà commosso e si stupirà, allora farà meraviglie, contemplerà e regnerà sul Tutto»


    Solo centrando il nostro essere potremo comprendere nell'essenza il significato dell'invito di Gesù.

    Gesù disse: «Chiunque trova la spiegazione di queste parole non gusterà la morte»

    Non è possibile conoscere ciò che è eterno tramite il semplice pensiero o la mera riflessione.

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152 replies since 27/1/2005, 16:40   3108 views
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