Perché faceva così male? Perché anima e corpo, per una volta, non avevano potuto far pace tra loro, lasciandogli un attimo di serenità? Perché aveva voluto forzare quel contatto, sapendo che di lì a poco ne avrebbe pagato le conseguenze?
Mentre il cuore pian piano si era riassestato, tornando a bussare regolarmente contro il petto, come il metronomo di un andantino che sulla punta teneva un martello, la mente si era agitata in un moto convulso di pensieri che per nulla rispecchiavano quel devastante ticchettio. Un prestissimo, la discesa cromatica in un baratro cacofonico, che apriva le danze di un valzer disperato e frenetico proprio sui tasti piú gravi. Non ci capiva piú nulla. Non distingueva un suono dall'altro, non era in grado di mettere ordine sullo spartito della sua esistenza. Eppure tutto gli sembrava cosí sbagliato. Ma il cuore teneva il tempo giusto e tanto gli bastava, poiché quiete voleva comunicare e quiete comunicò. Perché almeno lui, la quiete l'aveva trovata.
Adeline si era irrigidita, il che da un lato era una cosa estremamente negativa, perché non era affatto la risposta di qualcuno che aveva accolto con leggerezza il contatto. Dall'altro forse era meglio cosí, – ingenuamente, s'era detto – quello era il riflesso fisico di una persona che riacquisiva compostezza. Bene o male, l'aveva aiutata a riprendere il controllo di sé stessa. O l'aveva forzata a chiudersi?
Un sasso posato o un sasso lanciato? Un altro accordo fastidioso scattò come una molla rotta. Avrebbe dovuto lasciare che si sfogasse, che il flusso di coscienza facesse il suo corso fino a condurla verso la propria pace, senza interferire. Non era da lui, ma a conti fatti doveva essere il modo migliore per gestire tutta quell'energia.
Poi arrivò la smentita, il corpo di lei che tornava a rilassarsi. E fu lì che si domandò se potesse essere a tutti gli effetti una smentita o la maniera in cui s'era abbandonata all'inevitabile.
Cosa aveva combinato?
La spinta gli fece tornare a battere il cuore a mille, come se le mani di Adeline fossero state defibrillatori, un fulmine in petto che l'aveva ricaricato e bruciato nello stesso istante. Assecondò la pressione per separarsi da lei, sentendosi cingere da un ennesimo abbraccio subito dopo. Un contatto fisico che non era stato lui ad innescare, che non si era minimamente aspettato, dopo lo sguardo indecifrabile che gli era stato rivolto.
Perché una cosa cosí semplice, una dimostrazione d'affetto come tante, doveva fare cosí male? Perché era carica di significati nascosti che non era in grado di comprendere.
"Io lo so" il diavolo gli balzò in corpo, prendendosi la libertà di occupare un guscio all'apparenza vuoto. Vuoto non era. Lo divorò tra fauci iraconde e spietate, il sangue a zampilli di lava con la sassaiola dei suoi pensieri a grandinare violenta. Ed il silenzio ad accogliere quelle tre parole.
Avrebbe voluto urlarle in faccia che la vita non era un merito e che, come non si decideva di venire al mondo, nemmeno era un privilegio che si poteva guadagnare. Succedeva e basta, non c'era un motivo, e non era una punizione. Sarebbe stato incoerente. Proprio lui che s'era sempre detto che quando le cose fossero andate allo sfacelo, avrebbe sempre potuto uscire di scena con grande stile. Proprio lui, che inconsapevolmente aveva iniziato ad organizzare tutto nei minimi dettagli, giorno per giorno. E invece stette zitto, ignorando anche quel ringraziamento sterile.
– Vattene! –
Il grillo parlante fu imperativo, cercava di conservare il briciolo di speranza rimasta di uscirne illeso, senza rendersi conto che il danno ormai era bello che fatto. Il pensiero di annegare nel suo dolce veleno per un istante mise ordine tra le sue idee. Un artificio disgustoso, la promessa di una serenità imposta, che nulla aveva a che vedere con ciò che desiderava veramente. Aveva voluto tutto e qualcosa gli era stato dato, quello era vero. Ma non era abbastanza.
Lo aveva ribadito la Professoressa Walker, con aria quasi di sfida o come se la sua piú grande paura si fosse concretizzata. Una burrobirra. Limitarsi. Avrebbe riso, se in quel momento ne fosse stato capace.
Invece rimase composto e le restituì uno sguardo sornione e mite, al contempo. Aveva finalmente intravisto uno spiraglio di ciò che si celava veramente dietro alla facciata vivace e serena con cui aveva familiarizzato.
Gli era rimasto sulla lingua il desiderio di un grande discorso da pronunciare, quasi una ramanzina. Lui era l'ultimo degli stronzi che poteva permettersi di farlo, perché era un ragazzino che ancora andava a scuola, sotto l'ala di un'insegnante, una donna adulta già formata e che per anni s'era abbeverata a grandi sorsi di un male che lui da poco aveva imparato ad accogliere. E non ne sapeva niente, aveva esperienza della sua individualità. Ma tutta quella rabbia era frutto di un concetto, fondamenta che sorreggevano i pilastri di un'idea: in fin dei conti la matrice era la medesima, si era ritrovato nelle sue parole perché condivideva lo stesso dolore. Che poi le cause fossero altre, fu in sorte al fato e nulla di piú. Uno scherzo del destino, come si usava dire.
A volte faceva proprio schifo vivere.
Lui faceva schifo come studente e come amico, il problema era quello – scavalcò la battutina –, non era solo una questione di non essere divertente. Avrebbe potuto fare di più da entrambe le parti, perché una cosa non escludeva l'altra, non era un gioco a somma zero. E lo avrebbe fatto, anche quando una delle due parti avesse esaurito il proprio corso.
Stemperò la tensione, il tono si sintonizzò sulla stessa ironia che gli era stata rivolta. «Se ci tiene ad aiutarmi e mi ritiene idoneo, professoressa Walker, può farlo concretamente firmando le carte. Scrivere che ho le idee chiare sul mio futuro e lasciarmi andare. Temo non ci sia altro da fare».
Licenziandolo cosí dal suo obbligo burocratico. Si era spiegato con la massima serenità d'animo, suggerendo che fosse sua - di Adeline - la scelta di come gestire tutta quella faccenda. Un bungee jumping tra formalismi, nomi e nomignoli; una corsa su montagne russe costruite sopra un flusso di emozioni e sentimenti che chiamava a gran voce un secondo giro, e poi un altro ed un altro ancora, tra le grida divertite e terrorizzate dei passeggeri. Almeno per lui.
– Vattene, ora. –
Questa volta una richiesta, celata come un consiglio. Per lui quella era una parte di sé esplorata ed inesplorata, sostenuta da un filo di incertezza che poteva spezzarsi in qualsiasi momento. O un cappio bello solido, dal nodo fatto a regola d'arte. Quale fosse il suo destino, in effetti, non era piú tanto chiaro ed il cuore che correva come un dannato gli aveva in qualche modo fatto capire che sì, forse era davvero meglio levarsi di torno, almeno per il momento. Finalmente anche la testa era d'accordo con la sua controparte impulsiva, ma per uno strano scherzo della sua indole, lui era di un altro avviso.
Perché sotto sotto si stava divertendo piú del dovuto, perché il dolore era solo l'ennesimo punto in comune che aveva trovato con Adeline. Perché il suo sguardo non si era mai mostrato impietosito. Non le aveva mai detto che gli era dispiaciuto per come lei avesse vissuto la sua vita, che sua madre fosse morta, che suo padre fosse scappato. Sua zia, per quanto lo riguardava, per come gli era stata presentata, poteva anche schiattare – se già non l'aveva fatto – e attenderlo pazientemente tra le vampate di un inferno vuoto e rovente. Non ci credeva nemmeno per sbaglio che quell'idea di essere sbagliata, cattiva, immeritevole, buona solo a far del male, fosse un seme spontaneo e non un'idea che Adeline stessa aveva contribuito a coltivare, ma non a piantare. E sarebbe rimasto nella sua vita, se lei glielo avesse permesso, finché non lo avesse ammesso lei stessa – e oltre, per godersi la sua felicità. A costo di far schifo in due, marci e maledetti come fiori da buttare via.
Allungò una mano verso il biscotto lasciato sulla scrivania e l'altra a fare un gesto un tantinello sgraziato, come per dire "avanti fammi a pezzi se ci riesci". Gli era tornato in mente quel suo: "Hai voluto tutto…".
«Chiedimi se mi pento di qualcosa». Il tu. Comandò, come se ne avesse avuto il diritto. Gli occhi seri, indagatori. La risposta era ovvia. Poi avrebbe potuto mandarlo a quel paese fino a data da destinarsi, o per il resto dell'eternità, se questo fosse stato il suo volere; cosí sarebbe tornato ad essere solo uno dei tanti studenti che frequentavano l'aula di Pozioni, per il poco tempo che gli restava. La condanna da scontare: l'ultimo anno in compagnia di se stesso, poi una vita da uomo libero.