Nero. Il sangue di salamandra scivolò dolcemente lungo la lama argenta del pugnale: una goccia dopo l'altra, simile all'inchiostro, cadendo infine nel calderone in peltro già in ebollizione. Una schiera di ingredienti, una fiala di cristallo, un set di strumenti da lavoro, tutto evidenziava un'attenzione fondamentale per l'arte pozionistica. Il banco in legno sembrava tuttavia spoglio, al di là dell'essenziale – dov'erano le zanne di serpente, le radici di mandragola, le foglie di artemisia? Mancavano troppe cose, ne era consapevole; continuava imperterrito, un passo dopo l'altro, crogiolandosi nel fallimento che drasticamente, e curiosamente, aveva scelto in prima linea. Spirali voluminose, all'essenza della corteccia e della terra boschiva, vorticavano intorno fino a pizzicare la punta del naso; e lui, Oliver, ne assaporava – inebriato, quasi fuori controllo – ogni più intimo, sottile sentore. Una piuma azzurrina scintillò nella pozza alcolica, un tuffo cristallino e silenzioso ad accompagnare l'assalto del sangue. Bruciava, vapore ardente. Bruciava al punto da pretendere di spegnersi. Per un attimo, soltanto un attimo, non ebbe chiarezza circa
cosa o
chi stesse bruciando – le mani colte da un tremito, la gola asciutta, il cuore in tumulto ancora una volta. Le pagine della Gazzetta del Profeta svettavano sullo stesso tavolino, inusuali in quel trambusto di ampolle, provette e coltelli.
Un giornale violato, la carta arricciata dal calore del calderone nelle vicinanze; lacrime vermiglie, puntini tanto lucidi, conducevano lo sguardo alla coda tumefatta di un rettile. Una salamandra, quel che ne restava – un teatro dell'orrore, eppure leggero, a deturpare l'equilibrio del Profeta. C'era un articolo, un titolo in prima pagina, che non recava altro che una stilla rossa. La notizia del premio Chapman aveva fatto il giro del mondo magico, sorpassando nettamente perfino le ultime avvisaglie di cronaca oscura. Chiunque cercava una distrazione di quel periodo, e lui... lui non sentiva di escludersene. Si diceva che fosse un'onorificenza di prestigio per l'ambito medimagico, si diceva che fosse stato atteso da tempo dall'intera comunità – probabilmente non ne era così informato da poter trarne altro che una cornice d'insieme. Era una bella storia, non poteva negarlo, e una parte di lui aveva scovato interesse profondo nei riguardi dell'operazione al Maride. Ne era follemente incuriosito, tanto da aver coltivato da giorni l'idea di fare tappa all'evento: una serata di gala, un incontro che avrebbe portato frutti e risultati per più versi. C'era un problema, però. L'evento era al San Mungo.
«Evanesco» Un'impronta, niente di più. Il calderone zampillò, dissolvendo ogni contenuto. Gorgogliò come una creatura ferita, l'offesa di aver cotto a puntino gli ingredienti, di aver collaborato fino a quel punto,
invano. Qualsiasi cose fosse stata in preparazione, oramai era scomparsa. Restava un'aula vuota, un pomeriggio assente, e il dovere di sistemare ogni cosa prima di rientrare in classe. Bagnò l'indice nel sangue colato sul giornale e l'attimo seguente ne tracciò una riga rossastra lungo i bordi pergamenati; antichi simboli, quelli, per lui carichi di valore. Ben presto ritagliò l'articolo dedicato all'evento dell'Ospedale Magico, avendone cura di salvarlo dal resto. Un superstite, l'unico in quella stanza.
***
Arrivò in ritardo al San Mungo. O almeno, consultando l'orologio da taschino, poté essere certo di essere né in anticipo né in perfetto orario: aveva tentennato fino all'ultimo secondo, perfino quando aveva sfiorato la Passaporta da Hogsmeade.
Non essere sciocco, gli aveva detto Penny.
Non perderesti mai un'occasione simile. Aveva ragione, e tutto in lui ne era sicuro. Se la premiazione fosse avvenuta in qualsiasi altro luogo, non avrebbe avuto dubbi di partecipazione; ma più s'apprestava ai cancelli d'apertura, più sentiva la pelle bruciare nervosamente. Era una sensazione insopportabile, l'istinto di un'anima in tormento che gridava,
gridava in silenzio. Corri, pretendeva. Corri, corri, corri via. Nell'incavo di un soprabito elegantissimo, un completo di seta scura, Oliver sfiorò un bocciolo di biancospino. L'aveva strappato dalla corona di fiori che ancora custodiva dal Ballo delle Rose, la stessa che aveva cristallizzato in perpetua magia: un memorandum, quello, di quanto accaduto. La fila davanti a sé sfumava rapidamente, e lui... lui era solo. Per la prima volta non era in compagnia di nessuno, intravide in lontananza volti familiari – avrebbe potuto sfruttare i benefici della Redazione del Profeta, invischiarsi a sua volta nella troupe dei giornalisti e dei fotoreporter. Invece, assente, procedeva da sé. Pagò il biglietto quasi senza usuale saluto, perduto in un temperamento emotivo che avrebbe potuto giocargli brutti scherzi. Non gli capitava da molto di vivere condizioni così distratte, ma il San Mungo rappresentava per lui la tragedia maestra, il culmine di un incubo divenuto fin troppo tangibile. Gli sembrava fosse trascorso pochissimo dalla sua degenza in quel luogo, una degenza che aveva creduto infinita. Cominciò ad interrogarsi circa la scelta di essere lì, quella sera, come se tutto fosse stato normale. Non si trattava più dell'infantile, innata fobia degli ospedali, in quel senso s'inaspriva un'esperienza vissuta sottopelle. S'accorse infatti di aver trattenuto il respiro, varcando l'ingresso; quasi a non voler sperimentare gli stessi odori d'una volta. Costringendosi a non fare dietrofront, osservò tutto intorno: lentamente.
*È diverso*, pensò d'immediato. Le carole natalizie, le decorazioni vivaci, le ghirlande di vischio in festa, ogni aspetto lasciava dimenticare le tende bianche, le lenzuola di lino e i vasi di calendule sul comodino della sua camera d'ospedale; il profumo delle spezie dolci, del liquore e dei frutti di bosco, quello di cannella che tanto gli piaceva, perfino quei gusti non rimandavano alle note arcigne del disinfettante, delle pozioni curative e del sangue. Passò una mano sulla giacca, a sistemare pieghe invisibili; strinse maggiormente il nodo della cravatta, pizzicò così le guance per concedervi un incarnato più roseo, e gradualmente trovò controllo sul proprio cuore. Non avrebbe fatto un giro rapidissimo, non subito; voleva testare le sue sensazioni, tenendosi alla larga dalle sale interne per il momento. Arrivò inconsapevolmente verso il mini-bar disponibile all'evento, e sebbene tutto in lui pretendesse di correre a perdifiato verso la vasca del Maride, fu grato di essere lì come prima destinazione. Si fermò al bancone, impeccabile nell'aspetto e nel portamento. Desiderò da bere, qualsiasi cosa per la gola arsa, ma una parte di lui sapeva di essere all'evento anche per un altro motivo. Dove sei, si chiedeva. Indugiava nella ricerca, e tuttavia ebbe concretezza della
sua vicinanza ancor prima che i sensi svegliassero contatto. Un volto, un volto che ricordava nitidamente. Un volto, l'unico volto, che aveva sperato di non dimenticare. E un nome, ancora una volta, di cui aveva fatto tesoro nella raccolta di più di un articolo di sua firma. Avanzò a passi lenti, intrecciando un sorriso gentile sul tremito della bocca: né imbarazzo né ansia, soltanto... l'anelito di una paura ancestrale.
«Dottoressa Read.» Suonò come un punto di domanda, la voce simile ad un sospiro cauto. Era lei, sembrava chiedere. Un cenno d'inchino con il capo.
«È un privilegio poter incontrarla in occasioni migliori.» Attese, girando d'un passo per porsi di fronte l'altra figura. Attese, assicurandosi potesse essere lei.
«Spero possa ricordarsi di me.» Studente, diciassette anni, ferite all'addome, perdita di sangue... Una voce, un'altra, un'altra ancora. Indelebili in mente e in cuore, più forti di un colpo di cannone.
Bruciature, ustioni di primo e secondo grado, danni... Un tremito, un tacito grido.
Silenzio.
È pazzo.L'avevano detto. L'avevano detto tutti loro.
Medimaghi allo sbaraglio, burattini in camice.
Non lei.
Lei l'aveva salvato.