AMBER SERENITY HYDRACAPOSCUOLA DI TASSOROSSO ✧ 18 Y.O. ✧ O.W.L. ✧ INCANTESIMI
Composta, ascoltò il lento battito del cuore, appena calmatosi. Esporre davanti alla commissione quei piccoli frammenti di sé, non sarebbe mai stato semplice. La Tassorosso immaginava che avrebbe dovuto farlo; il senso del colloquio orale includeva anche una valutazione più intima, introspettiva. Se da un lato, quindi, trascrivere su carta i procedimenti studiati all'infinito in classe e in biblioteca, le era sembrato sufficientemente fattibile, dall'altro lato c'era l'introversione cronica avvinghiata al suo animo che vibrava di terrore all'idea di svelarsi, di perdere misurati frammenti di una corazza costruita nel tempo. Avrebbe voluto chiudere gli occhi e ripercorrere il ticchettio dolce del carillon che John le aveva regalato poche settimane prima. Un oggetto strano e affascinante, incantato per riprodurre una melodia breve ma sicura, e l'immagine in rilievo di un percorso boschivo. A prestare attenzione si poteva credere di essere avvolti dal profumo di un umido sottobosco. Lo custodiva così gelosamente che l'aveva perfino reso invisibile a chiunque. E vi aveva fatto appello anche più volte di quante effettivamente avrebbe desiderato ammettere. Ma c'era poco da fare, quell'uomo aveva imparato a conoscerla nonostante le mille barriere erette dalla figlia. Seguì il discorso della McLinder senza distrarsi troppo, ricacciando quel dolce desiderio un po' più in fondo, oltre la coltre di spessa attenzione che doveva prestare al suo esame. Annuì nel leggere in quelle parole un assenso profondo per quanto espresso fino a quel momento. Consapevolezza, il motore trainante di un ragionamento minuzioso. Era anche vero, come la docente sottolineò poco dopo, che si poteva avere l'istinto più reattivo dell'intero universo o una velocità di raziocinio altissima, ma a poco avrebbero valso entrambi se non v'era niente alla base della conoscenza. «Nulla da aggiungere. Come ha detto anche lei, se non vi sono nozioni a cui appellarsi, non si può nutrire a dovere la prontezza di spirito, e così facendo questa potrebbe non essere sufficiente» Ma non era il suo caso, lo sentiva. Sapeva di aver studiato e con ben poca modestia aveva imparato a credere nelle proprie capacità, costruendo nuovi appigli su cui arrampicarsi. Dopo una serie di missioni fallimentari, di viaggi in cui l'unica morale riscontrata albergava proprio nella sua incapacità di reagire, Amber aveva capito che avrebbe dovuto fare un lavoro impressionante su se stessa, e l'aveva fatto. L'orgoglio ferito l'aveva spinta a non fermarsi.
Trattenne il consiglio della docente, una conferma di quanto si era impegnata a comprendere per conto proprio. Avrebbe liberato un sospiro, se solo non fosse stata intenta a dividere la propria attenzione tra i movimenti della donna e la bacchetta che si rigirava tra le mani. Piccoli segnali, insufficienti per preparala a quanto sarebbe successo nei secondi successivi. Il tempo - irrisorio - di un battito di ciglia e perfino i trascorsi più burrascosi con l'animo martoriato della dodicenne che era stata, vennero accantonati dal sibilo di un serpente, e poi di un suo gemello. Uno scatto istintivo portò Amber a trascinare la seduta all'indietro di mezzo piede, quasi potesse bastare per allontanarla da quegli aculei velenosi già in bella mostra nelle fauci viscide. *Serpenti...* Un brivido tamburellò con fastidio lungo la spina dorsale. Sebbene Amber non schifasse particolarmente i rettili, non riuscì a reprimere il ribrezzo primordiale dell'averne uno che le strisciava lungo le caviglie, scivolando, freddo, tra le calze scure. Tre secondi di pura immobilità. Ma non bastava. Il tempo di allungare la mano verso il fodero della bacchetta ed una vampa di calore esplose letteralmente al fianco, distraendo - per fortuna - anche le serpi. Nel notare il timore delle bestie nei confronti del fuoco, la mente si accese e la mano corse ad astrarre finalmente il catalizzatore. Nelle iridi verdi si specchiavano le fiamme basse, un nuovo nemico da non sottovalutare. Accelerato, il ritmo del cuore implose letteralmente quando il terzo sventolio di bacchetta - che lei non vide - fu seguito dal clangore metallico delle catene di un lampadario, oh e quello invece lo udì. Non si trattava di un lampadario qualsiasi, ovviamente, ma di quello sopra la sua testa, trasfigurato per l'occasione in un orologio inclemente che segnava il tempo di una fuga urgente. Rapida, con la bacchetta in sorbo stretta nella mano dominante, la ragazza si diede la spinta con il piede libero dal serpente e si lanciò letteralmente dal lato opposto alle fiamme. La forza esercitata, aumentata dallo scorrere di un fiume di adrenalina nelle sue vene, le permise di atterrare sulla spalla destra e trascinarsi ancora pochi centimetri, mentre il grande lampadario vedeva l'inesorabile fine dei suoi giorni. Frammenti di ferro battuto urtarono ampolle di vetro e il tutto esplose in un fragore prevedibile, ma troppo vicino ad Amber. Due piccole lame di vetro affondarono con poca clemenza all'altezza della vita, stretta in quella camiciola non più così candida. Niente di profondo, ma le goccioline di sangue cremisi macchiarono l'impeccabile divisa. Lei però non seguì con lo sguardo quel colpo, perché la stretta del primo serpente lungo la caviglia destra ed il sibilo inferocito del secondo, innalzatosi oltre la piccola scrivania in legno, catturarono le sue intenzioni. Invisibili ingranaggi mossero la mano della ragazza, lo sguardo fisso sulle squame verde scuro e sulla testolina triangolare. Quel primo serpente non aveva ancora snudato le zanne e non v'era tempo da perdere prima che lo facesse. Un battito della terza palpebra candida, fu tutto quanto Amber gli concesse. Ruotò il polso in senso antiorario, ancora adagiata su un fianco, e ringhiò la formula della liberazione dimenticandosi di quanti la stessero osservando. Il movimento più preciso possibile, venne quindi seguito da un *Relascio!*. Imperativo e pulito, l'ordine tremò per frazioni di secondo, rianimando il nucleo della bacchetta e producendo il raggio che spedì il primo nemico sibilante verso le fiamme. Spinto dall'intenzione di affondare i denti nella carne morbida della studentessa, il secondo serpente ignorò il compagno lambito dal fuoco e si lanciò oltre il metro e mezzo di piccolo vuoto, cadendo al suolo nell'esatto momento in cui Amber si era rimessa in piedi. Le schegge in vita premevano, imponendo almeno che le togliesse per non ferirsi in continuazione, e così lei assecondò quel volere, sollevano appena la camicia e lasciandole cadere al suolo, facendo espandere ancora di poco la chiazza rossa al fianco. Una lieve smorfia di dolore le arricciò le labbra, ma non sarebbe bastato a distrarla. Il calore delle fiamme in avanzata verso di lei era comunque messo in secondo piano rispetto all'ancora velenoso rettile in avvicinamento. Non voleva propriamente mandarlo al rogo, il primo ci era finito per l'impeto usato nel liberare la caviglia, al secondo forse sarebbe spettato un destino migliore. Le servivano incantesimi veloci, istintivi e in grado di portare a termine i suoi desideri in fretta, e questi non si fecero pregare. Precisa, vinta forse da quell'impeto di necessità che sorgeva come una fenice dalle ceneri del suo spirito, puntò la bacchetta verso l'animale, già pronto a dare dimostrazione della sua pericolosità. Il corpo molle avrebbe compiuto l'ennesimo scatto. Fauci aperte, denti in mostra e gocce di veleno da inoculare direttamente nella caviglia della malcapitata. Ma la studentessa non l'avrebbe permesso. Distese il braccio, tenendolo perpendicolare al corpo - più in là avrebbe ringraziato le ore spese a studiare ed esercitarsi, e le lezioni impartite da Nonna Cordelia, che avevano reso la postura di Amber pressoché perfetta - immaginò un blocco totale del serpente, dalla punta viscida della prima estremità, alle squame ruvide del muso, attraversando le viscere molli, il sangue e quel canale ignobile di puro veleno che finiva proprio in quei due stiletti affilati. «Immòbilus» ordinò, accentando la seconda sillaba, quasi stesse discutendo con lui come con un qualsiasi studente. "Non devi più muoverti, siamo intesi?" sembrava imporre lo sguardo determinato. Lo scatto non si concluse, rigido come un tronco, il piccolo strisciante nemico si immobilizzò come desiderato dalla Tassorosso, che però non si concesse alcun sospiro di sollievo; era un blocco solo temporaneo, c'era bisogno di renderlo effettivo, ma prima ancora di rendere innocue le fiamme che ora si inerpicavano sui resti del banchetto, mezzo distrutto dal lampadario e dello stesso distruttore. Ignorò il pizzicò delle lievi ferite, aggirando i detriti e portandosi a distanza di sicurezza. Rigirò il catalizzatore tra le mani, ma non perse altro tempo. Si muoveva con la precisione di chi era un tutt'uno con la propria bacchetta, ormai resa estensione naturale del proprio volere. Inquadrò il fuoco in tutta la sua nuova dimensione, muovendo il sorbo dall'alto al basso finché non fu sufficiente. Una sola occhiata al corpo carbonizzato del primo animale, poi le iridi acquamarina imposero alle fiamme di morire, di estinguersi come non fossero mai state generate. Avevano fatto la loro corsa, non erano certo state inutili, in qualche modo doveva perfino ringraziarle, ma ora basta. La formula, contro ogni previsione, le morì in gola nel momento in cui un grido di dolore prese vita in quella giovane mente sotto pressione. Le sclere candide respinsero la Sala Grande, dipingendo davanti allo sguardo vacuo, i profili di una Gerusalemme invasa dal fuoco nemico. Piegata sotto il volere dei Romani, degli invasori che con l'intento di portare a forza il loro volere avevano fatto insorgere la popolazione, prima di una vera difesa. O forse no, no perché era Amber la loro difesa, lei era la stata scelta per guidare quei Ribelli in un'impresa che fin da subito era parsa incredibilmente complesse. Era già passato un anno, eppure niente era riuscito a rimuovere da sporadici incubi il rumore di lame di ferro che stridevano l'una contro l'altra, di spade che affondavano in carne debole, ignorando anche le corazze più dure, o perfino quella Nieve così diversa che si era aggrappata a lei cercando una protezione che non era stata in grado di offrire. Eccola quella debolezza che abbatteva la prontezza di spirito, quella che Amber non poteva più permettersi di provare. Strinse l'impugnatura e tornò forzatamente alla realtà, alla commissione che la stava osservando - forse ora perfino con più attenzione - ed alle fiammelle ben più innocue che doveva spegnere. Non avrebbe mai avuto una seconda occasione di difendere Gerusalemme, e non l'avrebbe mai chiesta, ma quello non le avrebbe impedito di estinguere le fiamme della McLinder. Il barlume di consapevolezza invase lo sguardo quando quello tornò alla realtà. Ancora un movimento dall'alto al basso della bacchetta, ancora il delineare preciso del pericolo. E, dopo, la formula. Stavolta niente distrazioni. «Extinguo!» alzò il tono per sovrastare il crepitio acceso del fuoco e chiudergli ogni possibilità di respiro. Ansimava per lo sforzo impiegato ad uscire dal loop della Scuola di Atene e da quella serie di piccoli e prolungati traumi che ancora costellavano il cielo oltre le pagliuzze dorate in quelle iridi. Il chetarsi lento ma preciso del suo obiettivo, fu coperto da un colpo di tosse che la costrinse ad un ulteriore passo indietro. Lenti scricchiolii le ricordarono che la questione "serpente immobilizzato" ancora non si era conclusa. Osservò la bestiola iniziare lentamente a muoversi, segno tangibile di quanto avesse poco tempo anche per razionalizzare il passo successivo. Ma fu proprio la memoria delle sue esperienze come ateniese a creare un connubio logico nella sua mente. Rimase a distanza di sicurezza e ricordò precisamente quell'incantesimo che le aveva permesso di innalzare grandi muri di rovi, nati dalla roccia frantumata delle mura di Gerusalemme. Sapeva che il Repsi prendeva i materiali direttamente dal punto in cui lo si evocava, ed il pavimento della Sala Grane era certo particolarmente ostico. Ma non era impossibile. L'Aula 21 l'aveva già vista cimentarsi in quell'esperimento, sebbene la terra sarebbe sempre stata il luogo migliore per dargli vita. Represse un "ahi" infastidito; dopo avrebbe dovuto pensare anche quella ferita superficiale. Fece roteare la bacchetta tra le dita, al solo scopo di trovare la giusta concentrazione, poi iniziò a coinvolgere la mente in ogni singolo respiro. Voleva un'edera dal gambo spesso, un rampicante recidivo e difficile da abbattere, invadente come pochi altri. Gli chiese, in quell'immagine, di inspessire i proprio "muscoli" affinché la gabbia di rigida impalcatura divenisse impenetrabile ma non soffocante. Avrebbe lasciato al serpente il giusto spazio per respirare ma non gli avrebbe permesso di strisciare oltre le grate, troppo strette perché le superasse anche appiattito al massimo delle sue capacità. Disegnò un cerchio in senso orario, come aveva imparato a fare, e costruì con precisi gesti quella gabbia a cupola che avrebbe circondato e rinchiuso l'animale. Impiegò tutto il tempo necessario per definirne i dettagli, perché non vi fosse modo di eluderla e richiamò la formula con lo stesso impegno con cui aveva imposto al serpente di rimanere fermo. «Repsi Genìtum» accentò la "i" della seconda parola senza sforzi, l'aveva usato talmente tanto quell'incantesimo che ormai enunciarlo aveva assunto un certo "che" di familiare. Dopo un secondo di stasi, il tempo forse di generare rovi di una struttura non ideale, e prima che l'incantesimo di fermo si sciogliesse, la gabbia di edera indurita si chiuse iniziando dalla pavimentazione e finendo di nuovo in essa, piantata saldamente al suolo. Allora sì che Amber si concesse un respiro più profondo, quasi soddisfatto, sebbene non fosse concluso lì l'esame. Erano trascorsi pochi minuti, eppure nel suo immaginario c'erano volute ore per disfarsi di quegli "imprevisti". Ma senza nemmeno cercare il conforto della commissione, voltò loro le spalle, per permettersi di studiare meglio le ferite sotto la camicia sporca. Tastò i due piccoli tagli, stringendo gli occhi. Il resto fu semplice, anche quell'incantesimo di medicazione le era noto, per lei era estremamente naturale guarire così le ferite meno gravi, quelle che non necessitavano di decotti o incanti più invasivi. Un piccolo semicerchio orario dal basso verso l'alto, un colpetto - senza toccarle - verso le due striscioline rosse, polso sciolto dalla rigidità dei precedenti incanti, e la formula nota a riempire la mente a labbra sigillate. *Medèor Vulneràtio*. Istantaneo sollievo, ed una ciocca bionda sciolse una parte dell'impalcatura di quella treccia tanto pratica e raccolta. Muovendosi con accortezza, riabbassò la camiciola e tornò a lasciare che la commissione osservasse il continuo delle sue gesta, dichiarando l'intenzione a proseguire. I pericoli erano stati risolti, ma il caos non andava bene comunque, così come non andava bene lasciare le cose com'erano. Ripulì la divisa: nuova rotazione oraria del polso, movimento veloce dall'alto al basso e colpetto di bacchetta, sempre senza toccare la camicia, per un *gratta e netta*, muto. Inclinò la tesa di qualche millimetro mentre soppesava il da farsi, sufficientemente logico, per risistemare il grande lampadario distrutto ed il banco che per metà era perfino stato divorato dalle fiamme. Il serpente, ostaggio infelice, sibilava insulti dalla sua gabbia, poco ma sicuro. Riparare al danno era il minimo, ma non sarebbe bastato e dunque, con un mezzo sorriso obliquo, la biondina osservò il punto da cui l'oggetto era sceso e la lunga catena che prima lo aveva tenuto in sicurezza per chissà quanto tempo. Avrebbe tentato qualcosa che mai prima d'ora aveva pensato. Non sarebbe stata la prima, certo, ma se ci fosse riuscita avrebbe aggiunto un punticino alla tacca dell'orgoglio. Postura composta, bacchetta puntata verso lo scheletro del grande oggetto, e mente pronta a ripercorrere il vocabolario latino che aveva imparato obbligatoriamente a sfruttare nelle più disparate occasione. Quel che accadde dopo, sarebbe stato puramente scenico, e perdersi nel contemplare il possibile risultato sarebbe stato semplice come guardare una scena di un film preferito. Il polso si mosse dal baso verso l'alto, in un moto continuo, mentre la formula ben scandita lasciava le labbra di Amber come un soffio imposto. Un'aggiunta, infine, a legare il movimento nel tentativo di far sì che i fili argentei e chiari riportassero il lampadario laddove si era sganciato, per ripararlo e ricollegarlo al soffitto. «Mobili Funale.... Repàro.» mosso da un'imposizione rallentata, l'oggetto cigolò più volte, in quel lento ricomporsi mentre veniva trascinato in alto dai moti della bacchetta di Amber, concentratissima, fino all'aggancio della catena. Frammenti di vetro strisciarono sul pavimento fino a riformare le ampolle distrutte, le corde legarono di nuovo i punti saldi della struttura, il metallo si piegò al volere della giovane strega, richiamando la forma che quell'oggetto aveva sempre avuto. Un'ascesa paziente e metodica, precisa. Attese l'avvolgersi delle maglie, prima di recidere la connessione tra il catalizzatore e respirare. Un ultimo gesto, un puntar deciso verso il banco ed anche quello, libero dal suo aguzzino, riprese la forma originale. «Scamnum Repàro.» sussurrò con decisione. Non fosse stato per il serpente chiuso nella cupola a terra, e per i segni di quel breve tratto appena bruciacchiato, nessuno avrebbe sospettato nulla. Con la treccia scomposta e scivolata a destra, un segno di inequivocabile umanità, ed il cuore ancora a mille, Amber afferrò la bacchetta anche con la mano libera. Basta, aveva finito. Iridi fisse su Atena McLinder.
G.U.F.O. - Giudizio Unico per Fattucchieri Ordinari