Il Natale non era mai un periodo felice e gioioso. Per molte persone forse poteva assumere quel sapore di pan di zenzero e fiocchi di neve, ma per Drinky rimaneva una festa evitabilissima. Non le era mai piaciuto più di tanto e, col tempo, aveva collezionato una serie di ricordi disturbanti legati alla distesa di lucine che, da metà novembre, iniziavano a ricoprire ogni luogo abitato e non. Tutto ciò, però, non sarebbe bastato come giustificazione al non prendere parte ad un evento di tale portata: il Natale, in quel caso, era solo un’aggiunta e non aveva la pretesa di ergersi a protagonista, com’era suo solito fare.
L’ultima volta che aveva varcato i confini di Hogwarts si era trattato del giorno seguente all’attentato. La notizia dell’attacco si era diradata in fretta, come una macchia d’olio nero, e ogni fonte riferiva qualcosa di diverso, con dettagli che venivano continuamente modificati. Il comune denominatore, invece, rimaneva lo shock, il terrore, lo sgomento. E il suo pensiero, in quelle ore, era stato incentrato su una persona sola: KC. Mai, in tutta la sua esistenza, aveva provato un’angoscia così viva e prepotente. Mai avrebbe pensato quanto, l’essere legata a qualcuno, potesse avere effetti così irrazionali. In quel momento, all’idea che potesse esserle successo qualcosa, aveva provato una sensazione strana e orribile.
Un’amputazione. Qualcuno le aveva tagliato un braccio e l’aveva gettato via. Guai a pensare che potesse esserle successo qualcosa di peggiore; la sua mente si rifiutava. Non poteva avvicinarsi all’ipotesi più infausta. Non glielo permetteva perché, se avesse perso la speranza, sarebbe scivolata nella follia e nulla avrebbe mai potuto riportarla in qua.
Si era precipitata al castello, superando i controlli che erano stati posti per permettere alle famiglie dei coinvolti di riunirsi con i propri cari. Correva, urlava il suo nome, chiedeva a sconosciuti visibilmente sconvolti se l’avessero vista.
Casey Bell. La conosci? È alta più o meno così. Ripeteva, portando la mano aperta poco sotto il proprio mento. È una Grifondoro, ha tredici anni. L’hai vista? Dov’è?
Un’inquisizione che si era trasformata in lamento esasperato a cui sottoponeva chiunque le capitasse a tiro. Finché, un ragazzino con le mani fasciate e innumerevoli escoriazioni sul viso, le aveva fatto un cenno col capo, in direzione di un gruppo di persone. E lì l’aveva ritrovata. Stava bene, era viva, era ok. Poi si ricordava solo delle lacrime, le lacrime che le ustionavano il volto e di come avesse avvolto il corpo esile della ragazzina quasi fosse una morsa, con la sola intenzione di non lasciarla più andare.
Il braccio amputato era stato riattaccato.
Solo dopo, nei giorni seguenti, era riuscita a sviluppare una riflessione su quanto accaduto. C’è sempre grande empatia di fronte ad eventi simili, si cerca di immedesimarsi e un senso di ingiustizia inizia a fare fuoco e fiamme. Ci si chiede perché, perché degli esseri umani possano arrivare a tanto. Cosa possa essere equiparabile a delle vite umane distrutte o irrimediabilmente danneggiate. Che, poi, chi avrebbe sanato le cicatrici che si erano formate nel cervello di quei ragazzini?
Ragazzini. Erano solo ragazzini, la cui unica colpa era stata quella di trovarsi in un luogo rappresentativo del mondo magico. E quando queste cose ti toccano da vicino, quando non ci si limita ad apprendere la notizia dai giornali o dalle parole degli altri, non si tratta più di empatia. Diventa un vero e proprio contagio emotivo. Il senso di ingiustizia cambia forma, tramutandosi in rabbia cieca, e non si cercano più risposte, non si vogliono nemmeno sapere le ragioni. L’obiettività sparisce ed il ragionamento comincia ad essere più assimilabile a quello dei carnefici che a quello delle vittime. Drinky non voleva cadere in questa trappola. Cercava di razionalizzare il più possibile per non lasciarsi andare alla ricerca di una vendetta che, probabilmente, non avrebbe nemmeno mai potuto ottenere. La risposta migliore, dunque, non era l’attacco ma l’unione. L’iniziativa di Hogwarts non poteva essere più azzeccata di così - la paura non si vince con la paura.
*Quanto fa freddo, porca miseria. Schifo di inverno, inutilestagioneinutile. Ti odio. Inutile.*
Si strinse nel cappotto mentre continuò a procedere a passo deciso verso l’entrata principale. Non che fosse una a cui piacesse muoversi ad un ritmo tale da farle venire il fiatone, a dimostrazione del suo fisico scarsamente allenato... Ma il gelo era gelo. E non vi era altro modo per raggiungere il castello se non le proprie gambine. Si era aspettata di trovare molte persone fuori, in fila, pronte a sottoporsi ai controlli necessari per entrare; invece, c’era solo lei. Osservò l’ambiente circostante, pregando che soggiungesse qualcuno - possibilmente di sua conoscenza - con cui entrare, evitandole il disagio del recarsi ad una festa da sola. Temporeggiò, sbattendo gli anfibi che portava ai piedi l’uno addosso all’altro, come se questo gesto potesse in qualche modo produrre del calore.
*Beh, posso dirlo? Con queste temperature non mi pento minimamente di aver messo queste scarpe. Proprio per niente. Mai scelta fu più saggia, pfff.*
Più il tempo passava, più le dita divenivano insensibili e arrivava, inevitabile, la consapevolezza che difficilmente sarebbe arrivato qualcuno con cui introdursi alla festa. Le sue conoscenze nel mondo magico non potevano considerarsi così ampie.
Superati i controlli, all’interno del castello poté saggiare di nuovo una temperatura decente. Con un colpo di bacchetta, dopo esserselo sfilato, il cappotto si rimpicciolì fino ad assumere le dimensioni di uno zellino e andò ad inserirsi nella tasca interna della borsa che teneva appoggiata alla spalla destra. Ritrovarsi in quel luogo sfregiato, che non aveva timore di mostrare i segni di ciò che aveva subito, aveva un ché di inquietante, sì, ma anche di sfrontato. In senso buono. La sala grande, a differenza degli anni in cui lei stessa era un piccolo globulo che scorreva nelle arterie della scuola, non ostentava nulla di natalizio. Non che gli altri anni gli addobbi fossero eccessivamente sfarzosi. Tuttavia, essendo legati ad un evento che non le andava giù, li disdegnava. Quell’anno, invece, si respirava qualcosa di diverso, qualcosa che poco aveva a che fare con alberelli e palline colorate.
Il brusio si andò a spegnere quando la figura del preside, che Drinky vedeva sfuocato e alto pochi centimetri data la distanza, iniziò il proprio discorso. Mentre le parole fluivano nel respiro trattenuto dell’intera sala, la rossa cominciò a cercare con lo sguardo la figura di KC. Più il discorso andava a rivangare gli eventi accaduti, più la ricerca della ragazzina si faceva necessaria, quasi a doversi sincerare nuovamente che stesse bene, che non le fosse successo nulla. Quando il preside sancì l’inizio effettivo della festa, ebbe il via libera per muoversi e proseguire la sua ricerca; i suoi occhi incontravano di sfuggita visi già noti - o forse, semplicemente somiglianti - ma la concentrazione orientata verso un unico obiettivo le impediva di rendersi davvero conto di chi stesse o non stesse dribblando. E poi la vide, al di là l’enorme falò che si trovava al centro della sala.
Ehi, nanetta!
Esclamò dopo essersi parata alle sue spalle. L’attenzione si focalizzò oltre la testa di KC, sul ragazzo vestito di bianco (Camillo) e sul calice che teneva in mano. L’aspetto del contenuto era ben lontano dall’essere invitante.
Ragazzi, ma siete sicuri di voler bere quella cosa?
Edited by Drinky - 26/12/2018, 23:47